Leggendo Fanfani
di GIAMPIERO MARANO (FSI Varese)
Per alcuni aspetti, sia biografici sia culturali e ideologici, la figura di un protagonista del “trentennio glorioso” come Amintore Fanfani (1908-1990) ci parla da un passato ormai sepolto, cioè dall’Italia democristiana che Pannella non aveva ancora sconfitto e dal mondo tradizionale che l’occidentalizzazione non aveva ancora annientato.
A quel passato improponibile appartiene l’aspirazione di Fanfani a propugnare, come sul finire degli anni Cinquanta osserva Lelio Basso, un “regime clericale fondato sul rispetto delle gerarchie sociali accompagnato da una certa sollecitudine degli interessi popolari”. Dall’altro lato, è anche vero, però, che Fanfani, sostiene Basso, “concepisce il partito come lo strumento autonomo dell’attività politica”, in quanto egli muove dalla “idea centrale che l’economia può essere regolata dalla politica” (G. Galli). Sotto questo aspetto, invece, le convinzioni dello statista democristiano, mantenute con coerenza lungo l’intero arco della sua carriera accademica e politica, si rivelano oggi vive e attuali, se non proprio rivoluzionarie.
Ecco perché un’opera come Capitalismo, socialità, partecipazione, edita nel 1976 da Mursia, non ci fa conoscere solo un brillante intellettuale (giovane storico dell’economia, già negli anni Trenta Fanfani aveva pubblicato il saggio Cattolicesimo e protestantesimo nella formazione storica del capitalismo, che ebbe una notevole risonanza internazionale) ma offre anche importanti spunti alla riflessione sovranista sulla natura e sulle origini del capitalismo.
Dopo una lenta ascesa i cui prodromi sono ravvisabili nel tardo Medioevo, il capitalismo si impone a partire dal Settecento. Le sue peculiarità sono riassunte da Fanfani in uno schema piuttosto preciso e articolato dal quale si evince che lo “spirito capitalistico” mira essenzialmente alla razionalizzazione integrale della società, dalla politica alla religione, e abbatte qualsiasi genere di ostacolo si presenti sulla sua strada, anche quelli di carattere culturale e immateriale. Al capitalismo non basta abolire i monopoli e le corporazioni o piegare ai propri fini l’architettura stessa dello Stato.
In sostanza, l’avanzata del capitalismo si verifica (come, secondo Fanfani, dimostra la storia della pubblicità) a spregio di “proibizioni morali e politiche” e in nome di un uso della ricchezza tradottosi nel “godimento illimitato” della ricchezza stessa e nella creazione di squilibri sociali intollerabili.
La critica al capitalismo non è animata dal rimpianto per un’ipotetica età dell’oro premoderna ma viene sempre ricondotta al tempo presente, non senza polemica con il comunismo: “non serve il collettivizzare la proprietà”, scrive Fanfani, “occorre universalizzare la responsabilità”. L’invito all’universalizzazione della responsabilità esprime anche, lo si vede bene nelle righe finali del saggio, un ideale ecumenico di concordia fra popoli liberi di decidere del proprio destino “in condizioni di parità” e immuni da interferenze esterne.
Rifuggendo dalle nostalgie tradizionaliste e reazionarie tipiche di alcuni ambienti cattolici, Fanfani riconosce che il moderno Stato nazionale e democratico, pur essendo un’invenzione capitalista, protegge gli interessi dei lavoratori, dei ceti subalterni, e crea le tre condizioni necessarie all’economia perché questa possa raggiungere i suoi fini autentici, cioè “la libertà, il benessere, la crescita civile, la pace di ogni uomo e della intera società”.
Tali condizioni sono: la piena occupazione (“Sia consentito”, scrive Fanfani, “a chi propose il primo articolo della Costituzione, per definire l’Italia ‘una repubblica fondata sul lavoro’, di ricordare che con quella proposta non s’intese promuovere una dichiarazione retorica”); la giusta retribuzione del lavoro; la “corresponsabilità” attiva dei lavoratori, cioè “la partecipazione organica continua, e non soltanto consultiva” alle scelte delle classi dirigenti che, precisa Fanfani, deve concentrarsi in particolare su materie delicate come il diritto del lavoro e la previdenza.
Il punto più interessante e insieme lo snodo del saggio di Fanfani è però un altro: mi riferisco all’individuazione del legame fra indebolimento della fede religiosa e trionfo del capitalismo. Fanfani cita l’opinione pressoché unanime degli storici dell’economia novecenteschi secondo cui il capitalismo non poteva affermarsi nella società integralmente cristiana del Medioevo, dominata da “una concezione della vita ispirata ad alti ideali di socialità”. Di contro, spiega Fanfani, “l’affievolirsi della fede rarefà i rimorsi, non permette più confronti tra il dover essere e l’essere (…) allenta i legami morali con il prossimo, muta il senso della solidarietà umana, cambia la posizione di ciascun individuo rispetto all’intera società”.
Dove prevale lo spirito comunitario protetto dalla Chiesa, dallo Stato e dalle corporazioni, il capitalismo non attecchisce perché in quel contesto il principio del profitto risulta subordinato alla liceità etico-sociale dei mezzi necessari a ottenerlo: nella concezione cristiana, medievale e “precapitalista”, come ricorda Fanfani citando san Tommaso d’Aquino, la ricchezza “diventa un male quando da mezzo diventa fine ed assorbe l’attività umana a scapito del raggiungimento delle mete eterne”.
Ne consegue che i princìpi cristiani di moderazione, equilibrio, socialità nell’uso dei beni non possono conciliarsi, scrive ancora Fanfani, “con le preoccupazioni di chi in ogni azione economica vede unicamente l’operazione che produce ricchezza”. I beni materiali, in ultima analisi, si offrono agli uomini come strumenti utili ai fini mondani e soprannaturali (cioè la felicità in questo mondo e nell’altro) dell’intera comunità: non siamo forse nei paraggi del concetto di uso sociale della ricchezza sancito dall’articolo 41 della Costituzione?
Se è vero che gli embrioni del capitalismo si formano in ambiente cattolico, il loro sviluppo viene agevolato dalla complicità del protestantesimo. Al di là delle confische delle proprietà ecclesiastiche e della chiusura dei monasteri che privano i poveri di aiuti e assistenza (non è un caso, osserva Fanfani, che proprio nei paesi da poco riformati aumentasse vistosamente il numero dei vagabondi e dei disoccupati), ciò che colpisce al cuore la tradizionale economia solidaristica è il principio protestante in base al quale la salvezza non dipende dalle opere.
La distruzione del “nesso tra l’azione terrena ed il premio eterno”, secondo Fanfani, determina inevitabilmente la “santificazione del reale”, cosicché “è risolta in senso umano la lotta che l’uomo doveva combattere tra il proprio istinto, i propri bisogni e il comando divino”. Incline al naturalismo economico e all’individualismo, il protestantesimo si mostra tendenzialmente liberista; di contro, essendo incline al volontarismo, il cattolicesimo ispira politiche vincolistiche di controllo dell’economia.
“Tutte le circostanze che nel Medioevo fecero diminuire la fede spiegano il progressivo affermarsi dello spirito capitalistico”, afferma Fanfani. Ma quali furono queste circostanze? Quali aspetti della tradizione si inabissarono, mentre il Medioevo volgeva al tramonto, segnando così il destino del Cristianesimo e dello stesso Occidente? A differenza di quanto negli stessi anni faceva un altro economista cattolico, il geniale e coltissimo Giuseppe Palomba, studiando anch’egli l’espansione del capitalismo, Fanfani non si pone questi interrogativi essenziali, e ciò segna indubbiamente il limite della sua pur profonda riflessione.
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