Il “cursus honorum” e la liquefazione della classe dirigente
di EMILIO DI SOMMA (FSI Napoli)
Non amo scrivere e parlare “a caldo” di eventi storici e politici. La grancassa mediatica, le tifoserie ed i “sono stato frainteso” che si accumulano uno dietro l’altro non permettono né un analisi politica decente né la possibilità di strutturare un dibattito politico sui veri temi politici che sono in ballo in determinate situazioni. E’ per questo che ho deciso di scrivere solo ora un articolo sullo stato deprimente e liquefatto della nostra cosiddetta “classe dirigente”.
Ora che il pubblico e le televisioni sono tutte distratte dalle possibili guerre di Corea o del Medio Oriente, è possibile che il nostro movimento possa discutere, a mente “fredda”, con maggior razionalità la posta in gioco che si rivela in determinate esternazioni dei politici.
Questo breve scritto prende ispirazione da quello che il ministro del cosiddetto “lavoro”, il poco onorevole Poletti, disse nell’ultima settimana di Marzo: che era “meglio giocare a calcetto che inviare curriculum”. Ora, alcuni giornalisti provarono anche a giustificare tale frase con l’argomentazione che “Poletti si limita a fotografare una realtà in cui contano anche i rapporti di fiducia sul posto di lavoro”.
Suggerisco, in questo senso, la lettura di un articolo del “Foglio” del 28 Marzo. Ora, su tale sfortunata frase, e le ancor peggiori sue giustificazioni, voglio porre innanzitutto due quesiti. Il primo, in un contesto in cui, come di Poletti, la “fiducia” è la prima fonte di lavoro, quali sono le implicazioni per il movimento sovranista? Il secondo, in un contesto in cui si trova lavoro “per fiducia”, cosa succede all’ascensore sociale?
Voglio introdurre ora un piccolo pezzo di storia. Mi si perdonerà il mio continuo uso a riferimenti ed eventi del passato; non è vuota erudizione, è che credo fermamente che lo studio della storia ha valore solo nella misura in cui essa ci ispira a riflettere sugli eventi e problemi contemporanei. Altrimenti tanto varrebbe avere l’autocoscienza di un cetriolo di mare, e limitarsi a spendere le nostre vite unicamente alla spasmodica ricerca di roba da consumare e poi espellere.
Ora, voglio fare riferimento ai Romani. La repubblica romana non era un’istituzione democratica. Il “popolo” non aveva diretto accesso alle cariche pubbliche, né alle decisioni politiche; quanto agli organi di rappresentanza, essi avevano poteri molto limitati. Il potere era gestito e distribuito su base censitaria; l’ammontare delle ricchezze determinava le cariche politiche a cui era possibile accedere.
Tuttavia, i giuristi romani si trovarono ben presto a dover affrontare un problema: in un sistema altamente clientelare come la repubblica romana, dove i rapporti di fiducia personali valutavano l’avvenire politico ed economico di un individuo, come poteva la repubblica garantire un salutare ricambio della classe dirigente, evitare che il potere venisse concentrato in poche famiglie ed evitare di perdere talenti preziosi nati al di fuori della nobiltà senatoria?
Fu in questo contesto che dobbiamo interpretare il cursus honorum, ossia l’ordine sequenziale degli uffici pubblici tenuti dall’aspirante politico sia durante il periodo repubblicano, sia nei primi due secoli dell’Impero romano. Cominciando col servizio militare, il cursus stabiliva le varie cariche politiche da poter ricoprire in ordine di merito, reputazione e capacità sempre maggiori. Ora, se è pur vero che questo non eliminava il nepotismo, né facilitava più di tanto coloro nati in condizioni economiche disagiate, il cursus rivela comunque come i Romani si fossero posti un problema politico fondamentale: come fare in modo che i rapporti di fiducia non soffocassero il merito dei talentuosi e di coloro che lavoravano duramente?
In questo contesto, il cursus permise l’accesso alle più alte cariche politiche anche a uomini nati al di fuori della nobiltà senatoria e con rapporti di “fiducia” meno forti, i cosiddetti homines novi. Cicerone e Catone, tanto per citare due esempi, erano homines novi. Questa preoccupazione nasceva, fondamentalmente, da un pensiero politico e giuridico che poneva il benessere della repubblica e del popolo romano al primo posto, anche al di là dei vantaggi del singolo rapporto clientelare.
Vi era, dunque, una visione d’insieme che aveva come fine ultimo il mantenimento delle istituzioni repubblicane ed il benessere e la possibilità di soddisfacimento dei cittadini ad essa sottoposti.
Questo ci riporta alla sciagurata uscita di Poletti. E’ evidente che un governo, ed una classe politica, il cui scopo è quello di demolire ogni sovranità popolare rimasta e concentrare tutto il potere politico in ristretti gruppi di burocrati e squali della finanza, teme, più di ogni cosa, l’homo novus, ossia colui che, dopo sacrifici, lavoro e miglioramento delle proprie doti, ambisce a migliorare la propria condizione economica e sociale.
La maggiore consapevolezza della sofferenza e del duro lavoro lo rende nemico giurato di qualunque gruppo pseudo-nobiliare che, nato e cresciuto all’interno dei propri privilegi, pretende che la sua realtà sia l’unica possibile. Loro sono dei “vincenti”, e tutti quelli che non appartengono alla loro cerchia sono dei “perdenti”. Come osano questi perdenti tentare di sconvolgere i loro equilibri di potere?
Questo, inoltre, rivela come l’attuale ceto dirigente manchi di una visione di insieme che miri al benessere del popolo italiano ed all’integrità delle istituzioni statali. Se Poletti, ed i suoi colleghi, davvero avessero a cuore il benessere dello stato, si sarebbero posti il problema di come poter dare il giusto riconoscimento a coloro che, seppur dotati e desiderosi di impegnarsi, hanno avuto la sfortuna di nascere in contesti privi di “amicizie” forti.
In questo contesto, quindi, io personalmente interpreto la frase di Poletti come l’abbandono ufficiale, da parte del governo e della classe dirigente, di ogni concezione di merito, talento e duro lavoro. Se “fare curriculum” non basta a trovare lavoro, ma è necessaria la “fiducia”, a che pro studiare, lavorare, aumentare le proprie competenze?
Altro che avvocatura e censura, Cicerone e Catone al più avrebbero potuto sperare di fare gli artigiani, secondo Poletti. Il figlio dell’operaio non giocherà mai a calcetto col figlio del dirigente o del politico. Mancano, in questa società sciagurata, gli spazi, la mentalità e le aperture necessarie affinché si possano creare rapporti di “fiducia” tra cerchie differenti; e l’attuale governo trova la situazione non solo accettabile, ma anche desiderabile.
In questo senso, quindi, perché far studiare il figlio dell’operaio, o del contadino?
Volenti o nolenti essi dovranno ereditare il mestiere del padre e vivere una vita proiettata su rotaie pre-stabilite, fatte di sofferenza, sacrifici senza uscita e costante ricattabilità. Un grande successo della società liberale, direi.
Come conclusione, guardo al mio curriculum di sei pagine, penso al mio attuale stato di disoccupazione e poi guardo al curriculum da mezza pagina del ministro Poletti. Forse avrei dovuto abbandonare ogni aspirazione e limitarmi a fare il tornitore, come mio nonno, o al massimo il tecnico, come mio padre; visto che a me il calcetto nemmeno piace.
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