Metello, il mio eroe fasciocomunista per i giovani precari
di Antonio PennacchiCorriere della sera
Metello è un classico che parla da solo al lettore. Anzi, più che classico è proprio di un’attualità impressionante. Narra di cose avvenute più di cent’anni fa — alla fine dell’Ottocento, a Firenze, ai primi albori del socialismo e del movimento operaio nel suo lungo cammino verso l’emancipazione— ma che continuano ad avvenire, e nella stessa modalità, tutti i giorni e in ogni parte del mondo.
C’è la gente che cade e muore dai cantieri edili in Metello, mentre si costruiscono i primi palazzi e quartieri nuovi al di là dell’Arno. Ma c’è la gente che continua a cadere e morire sul lavoro ogni giorno in Italia e nel mondo. Quattro al giorno ogni giorno in Italia. E c’è la gente, i lavoratori che provano a stringersi ed unirsi l’uno all’altro per ottenere migliori e più sicure condizioni di lavoro, per ottenere il lavoro stesso, per uscire dalla miseria e dal bisogno, per «emanciparsi» , come si diceva una volta. E le conquiste ottenute— le poche conquiste — sembrano chissà che cosa: «Mai più ce le toglieranno» . E invece ogni generazione sembra condannata a doversi rifare ogni volta il suo proprio cammino di avanzamento e progresso.
Come può non parlare Metello— il muratore Metello Salani del 1894 — al giovane precario di oggi, sempre sottoposto al ricatto dei contratti a tempo? E oggi come allora non rischia il biasimo e l’isolamento generale chiunque provi, invece, a lottare ancora per i diritti sindacali di tutti? «Ringrazia il padrone che ti dà da mangiare» . Non è il padrone— il capitale — che fa i soldi sul lavoro e le ristrettezze mie, ma sono io che dovrei essere grato a lui per la sua bravura e le opportunità che benevolmente mi dà. Ora è chiaro che non c’è solo questo in Metello — e soprattutto detto in questo modo — se no sarebbe un pappone sociologico, un mattone sullo stomaco. Invece è un bel romanzo, divertente, appassionante, perché l’etica del lavoro, il bene e il male, la soddisfazione di chi si riconosce nel proprio lavoro quando è fatto bene non sono spiegate o declamate, ma emergono dalla pura narrazione delle storie e delle avventure di Metello Salani e dei suoi compagni, delle loro donne, dei loro drammi, dei tradimenti, la prigione, gli amori, gli spari dei soldati e della polizia. Anzi, l’eroe vero, se si guardano bene le pagine in controluce, non è Metello in tutto il suo percorso da piccolo orfano a muratore provetto, da adolescente che scopre l’amore con una donna più grande (è il mito della «nave scuola» che si ripropone eterno, il topos etnico ed il sogno ancestrale dei giovani maschi italici, ma non solo, d’ogni era. Chissà se dietro c’è Edipo e Giocasta) fino al suo ritrovarsi — dall’uomo né meglio né peggio, «uno come tutti gli altri» , che avrebbe voluto essere— leader e capo riconosciuto dei suoi compagni.
Ed anche in questo — nella solitudine del leader, nelle incertezze e le paure che prima deve governare, reprimere e superare dentro di sé, per poter dare poi sicurezza agli altri e condurli compatti alla lotta e alla vittoria — sta l’eterna modernità di questo romanzo. Quelle lotte, quei leader e quegli eroi sono cominciati con Spartaco— anzi, con Prometeo, perlomeno— continuano oggi in Fiat o nei call center e proseguiranno un giorno sulle stelle e sui pianeti. L’eroe massimo però, dicevamo, non è Metello, ma sua moglie Ersilia. È in lei la forza vera, nella figlia del vecchio compagno anarchico — il maestro d’arte di Metello, come si diceva una volta, il mastro muratore— morto sul lavoro ai piedi d’una impalcatura. La fonte d’ogni forza è in lei, in Ersilia — la «coscienza di classe» primigenia, verrebbe da dire con i manuali d’antan, quelli non ancora epurati dal postmarxismo— che non ha mai una titubanza, una deflessione e sa cosa è bene e cosa è male, gli legge nel pensiero, sa pure perdonare. E tutte le debolezze di Metello spariscono, taumaturgate in silenzio da Ersilia.
Non ci è qui possibile però eludere il rapporto tra Pratolini e il fascismo: ora è chiaro— in termini marxiani — che Metello è tutta «coscienza di classe» ed ansia egualitaria; è coscienza di classe che si fa canto, canto epico e lirico assieme. E su questo non c’è dubbio. Come non c’è dubbio sulla partecipazione attiva di Pratolini al movimento comunista della Resistenza contro il nazifascismo a Roma, a partire dal luglio 1943. Ma rimane che la sua formazione (Vasco Pratolini nasce a Firenze nel 1913, e morirà a Roma nel 1991) avviene tutta durante il fascismo, anzi, all’interno del fascismo stesso: Pratolini scrive a pieno titolo sulle riviste fasciste e pubblica i primi libri durante e non contro il fascio. A differenza di quanto sostenuto da alcuni, si tratta di vedere se quella «coscienza di classe» che prenderà forma e corpo compiuti dopo il fascismo — in Metello, nel 1955 — era però già presente, come a noi sembra, anche negli scritti «durante» il fascismo. È cioè un’altra persona quella che scrive «prima» , rispetto a quell’altra che scriverà «dopo» ? O è sempre la stessa, che parla— negli stessi sensi e stessi termini— degli stessi strati di popolo?
C’è un libro di Mirella Serri (I Redenti. Gli intellettuali che vissero due volte, 2005) che ha fatto dettagliatamente i conti delle tante amnesie dell’intellighenzia italiana formatasi fra le due guerre mondiali, e soprattutto delle eccessive retrodatazioni — spesso esagerate e di comodo— dei relativi passaggi di campo dal fascismo all’antifascismo. Ad esempio, da Nicodemo— il «buon fariseo» che per non farsi scoprire dai suoi andava a sentire Gesù di nascosto — Delio Cantimori qualificò come «nicodemismo» l’atteggiamento suo e di tanti altri. Carlo Muscetta invece parlò di «dissimulazione onesta» , rifacendosi a un testo del Seicento di Torquato Accetto. Una sorta quindi di: «Stavamo nascosti, camminavamo sottotraccia ma non eravamo fascisti dentro, anzi, eravamo già nell’anima antifascisti da un pezzo» . La realtà è che gran parte di loro continuò a collaborare fino al 1942 — ma anche 1943 — non solo con il regime più in generale o con le riviste dei Guf (Gruppi universitari fascisti), ma soprattutto a «Primato» , la rivista messa in piedi dal ministro Bottai e che fu non già «la fucina d’antifascismo» che qualcuno ha tentato d’accreditare, ma fu piuttosto la punta avanzata della «cultura fascista» e, più drammaticamente, una delle punte più avanzate, in sede di teorizzazione e propaganda, del razzismo italiano contro gli ebrei. La gente, con tutta probabilità, ha continuato a tirare avanti come se niente fosse, nella più completa normalità (Hannah Arendt la chiama, con il titolo d’un suo libro, «la banalità del male» ), fino a che la tragedia— con la disfatta totale e i bombardieri angloamericani direttamente sulla testa — tra il 25 luglio e l’ 8 settembre 1943 non l’ha svegliata all’improvviso.
Questi sono i fatti. Anzi, se vogliamo essere onesti, i primi a svegliarsi furono gli operai, che alla Fiat scioperarono a marzo 1943. Gli intellettuali aspettarono luglio. Ma «O di qua o di là!» , allora, dissero i più forti; mentre tanti non fecero neanche quello. E Vasco Pratolini— anche se, come Metello, voleva essere solo uno come gli altri: «Io voglio essere uguale agli altri miei simili» scrive ancora a maggio 1943 — posto davanti a sé stesso dalle circostanze oramai estreme, sceglie la Resistenza. Secondo De Felice, «molti dei passaggi all’antifascismo (non ci riferiamo a quelli meramente opportunistici) degli intellettuali più giovani (…) avvennero con una naturalezza che denota una notevole affinità culturale e psicologica di fondo» , che fa pensare a una assoluta «continuità tra il fascismo di prima e il loro successivo antifascismo e comunismo » . Per De Felice, non ci fu una «rottura culturale» , ma una «perdurante fedeltà a una visione del mondo e della politica» , che si tentò di realizzare prima «attraverso il fascismo, poi attraverso l’antifascismo e il comunismo» . Sono le circostanze, appunto, che determinano assai spesso sia le scelte che gli accadimenti, ma la «coscienza di classe» di Pratolini evidentemente preesisteva al suo passaggio o conversione all’antifascismo e al comunismo. Non è che gli sia spuntata all’improvviso. C’era già quando era fascista e non nascosta, «dissimulata» o «nicodemizzata» poiché contraria al fascismo imperante, ma evidente e manifesta poiché consentanea al fascismo stesso. Era una coscienza di classe un po’ «fasciocomunista» diciamo, ma tutta in linea con quel «fascismo di sinistra» che vedeva non a caso le sue matrici nel socialismo rivoluzionario, e che produsse — oltre a tanti gravi e nefasti danni, insieme al fascismo tutto — pure il welfare, la modernizzazione e le bonifiche. Del resto, ci sarà pure stato un motivo se il popolo italiano— nonostante quei danni, il razzismo, le guerre e la brutalità della dittatura— continuò a tributare al fascismo così a lungo, e fino appunto a che non spuntassero i bombardieri, un consenso superiore alle percentuali bulgare.
Non mi scandalizza il termine "fasciocomunista", mi infastidisce piuttosto la sua rozzezza lessicale, che rispecchia la rozzezza spirituale di chi l'ha coniato con intento ovviamente spregiativo: penso sia stato il liberal imperialista Marco Travaglio che, per esternare il suo odio verso Putin, gli appioppò appunto questa qualifica.
La sostanza del termine però c'è e si manifesta in maniera cruciale nel corso del Novecento in tutto il mondo sotto forma di nazionalcomunismo, nazionalismo di sinistra ecc. tutti i grandi leader del comunismo, da Mao a Castro, da Ho Chi Mihn a Tito, sono stati anche profondamente nazionalisti: è l'imperialismo che li costringe a difendere al tempo stesso il proletariato e la patria. Poi ci sono gli altri, non marxisti, cioè i Nasser, i Peron, i Gheddafi e tanti altri, tutti carichi ovviamente delle proprie contraddizioni, ma comunque avversati dall'imperialismo liberale euroamericano forse anche più dei primi: si tenga presente che il conflitto principale nel Novecento e anche oggi è sempre tra l'imperialismo e i popoli delle ex colonie, oggi a rischio di nuova colonizzazione
Per quanto riguarda il fascismo italiano, direi che non si può proprio parlare di "coscienza di classe" -seppure latente- in seno al"fascismo di sinistra" e certo non si dimostra l'assunto prendendo in considerazione le vicende personali di Pratolini o di altri intellettuali che approdarono dal fascismo al comunismo. La coscienza del fascismo era coscienza di classe della borghesia: questa classe, in tutte le sue stratificazioni, fu sedotta dal fascismo e ne rimase avvinta fino al momento in cui cominciarono a pioverle in testa le bombe angloamericane, argomenti per lei assai più convincenti dei libri di Benedetto Croce. Ma non parliamo, per favore, di "consenso superiore alle percentuali bulgare" (che brutto modo di esprimersi, fa il paio con il fasciocomunismo di Travaglio) : era il consenso della borghesia in quanto "classe generale" , non del proletariato (classe subalterna) il quale appunto, come riconosce lo stesso Pennacchi, non aspettò la pioggia di bombe per convertirsi all'antifascismo, perché lo era da sempre, seppur silente e sottomesso. Si ribellò autonomamente ben prima della "congiura di palazzo" (uso un termine caro ai fascisti!), quando la vittoria sovietica a Stalingrado gli diede il coraggio di osare, mettendo in atto il primo esempio di ribellione di massa nell'Europa dominata ancora dai nazifascisti.
Quanto alle cose positive (nell'interesse generale dell'Italia) realizzate dal fascismo, certamente possiamo annoverarare le bonifiche e la modernizzazione, ma non inventiamoci un welfare che non è mai esistito, se non nei film Luce della propaganda. Le case popolari "di Mussolini" avranno sì e no coperto il 2% del reale fabbisogno popolare, nelle zone del nord: a Matera i proletari continuavano ad abitare nelle grotte…
Quanto al fascismo di sinistra, fu un fenomeno culturale e non politico, interessante ma non determinante nel profilo generale del regime, la cui evoluzione dal liberismo iniziale degli anni venti all'interventismo del decennio successivo -sempre comunque organico agli interessi di una borghesia sottosviluppata- non è ancora stata adeguatamente sviscerata.
Ricordo invece un libro di Ruggero Zangrandi "Il lungo viaggio attraverso il fascismo" che ricostruisce senza denigrazioni e senza apoplogie le storie e i percorsi di tanti giovani e intellettuali in quella fase unica nella storia d'Italia, nella quale era probabilmente massimo (al contrario di oggi) lo sfasamento tra l'esteriorità ufficiale e l'interiorità personale e collettiva della nazione: anche questo ci ha dato il fascismo! (ed è forse il lascito più rilevante, ben più della bonifica dell'agro pontino)
Caro Luciano,
grazie per l'ottimo commento. Noto soltanto che in esso manca ogni riferimento alla "piccola borghesia". Eppure nelle Lezioni sugli avversari tenute da Togliatti a Mosca nel 1935, la piccola borghesia (compresi i contadini poveri che "cominciavano ad arricchirsi", era considerata l'elemento di massa del fascismo, al quale si affiancava l'elemento organizzativo, costituito dalla borghesia vera e propria. Il Migliore escludeva il carattere bonapartista del fascismo italiano, nel quale, appunto, comandava la borghesia. Togliatti non negava nemmeno il carattere "socialdemocratico" del fascismo e collocava tra gli avversari anche la socialdemocrazia. Ho letto metà del libro (le lezioni sono state ristampate recentemente dalla casa editrice einaudi) che si sta rivelando una lettura formativa. Non so se, a lettura finita, le Lezioni diverranno oggetto di un post o se scriverò un commento a Pennacchi, dialogando con te.
Approfitto per dirti che se ti andasse di pubblicare (almeno) un articolo sul sito sarei molto felice.
Ciao
Caro Stefano,
ti ringrazio per l'apprezzamento.
Nel commento non ho citato la piccola borghesia, però ho parlato della borghesia in tutte le sue stratificazioni: una struttura piramidale molto stabile la cui base era appunto la piccola borghesia. Al di sotto (molto al di sotto) c'era il proletariato, e i confini tra le classi erano allora molto netti. Il baricentro economico della piramide stava in alto, quello culturale e sociale stava in basso: questo fu, secondo me, il capolavoro politico di Mussolini, tenere insieme arretratezza e modernità.
Raccolgo ben volentieri l'invito a collaborare e lo farò non appena avrò messo a fuoco alcune mie riflessioni