di FABIO BENTIVOGLIO
La parola d’ordine della riforma è “dalla scuola delle conoscenze alla scuola delle competenze”. Il regolamento sull’autonomia (art.10, comma 3) recita: “Con decreto del M.P.I. sono adottati nuovi modelli per le certificazioni, le quali indicano le conoscenze, le competenze e le capacità acquisite e i crediti formativi riconoscibili.” Le scuole non dovranno più rilasciare diplomi con voti e giudizi, ma certificati di competenze, per cui i Collegi docenti e i Consigli di classe dovranno formulare gli obiettivi di apprendimento in termini di conoscenze, competenze e capacità.
In occasione dell’ultimo esame di Stato a cui ho partecipato come commissario, una collega di lettere mi confessava di aver trascorso notti insonni, perché non riusciva a trovar la via per stilare la relazione sul programma svolto, dovendo indicare quali fossero le conoscenze della classe, distinguendole dalle competenze e dalle capacità.
Prenderei le mosse da queste notti insonni, quindi da un disagio fisico, per capire se abbiamo a che fare con una collega incapace, restia all’innovazione, oppure se gli incapaci sono altrove. La domanda più ovvia che si possa rivolgere ai riformatori è di chiarire che cosa intendano con questi termini, dal momento che hanno già inondato la scuola con disposizioni imperative. La sorpresa, surreale, è che non lo sanno. Su questo tema c’è un’imponente letteratura alimentata da organismi internazionali, commissioni, Istituti, intellettuali, tutti alla ricerca di un criterio che consenta di definire in forma univoca la distinzione delle tre sorelline , conoscenza, competenza, capacità.
Allo stato attuale il dibattito offre opzioni diverse ed alternative. Per quanti volessero orientarsi (o disorientarsi?) sull’argomento è sufficiente consultare l’inserto de “La rivista della scuola”, giugno 2000. Dobbiamo prendere atto, con sconcerto, che si attua una riforma che sradica la scuola dalla finalità che le è propria, la formazione culturale dei giovani, le si assegna d’autorità quella di certificare le competenze, senza però sapere che cosa si intenda per competenza. In questo contesto il disagio dell’insegnante di lettere che non riusciva a tradurre il lavoro svolto in classe nel linguaggio ministeriale, se saputo interrogare rivela elementi utili all’analisi.
Le notti insonni e le conseguenti tensioni interiori derivano dal fatto che è un’insegnante che ha stima di sé, del proprio lavoro e degli studenti: questa stima è l’argine che le vieta di utilizzare frasi fatte e formule vuote. Questa stima, però, ha un limite: il disagio viene vissuto come incapacità personale, e non come stato emotivo rivelatore dell’assurdità di quanto viene richiesto. Piuttosto non si dorme la notte, ma si compila la relazione fasulla, perché “lo si deve fare”, per la legge e per il bene dei ragazzi. È falsa coscienza: in realtà non ci si riconosce in quel linguaggio morto da tecnocrati, in quegli indicatori e in quei “punteggi da attribuire al descrittore”.
Assecondare queste pratiche ha effetti distruttivi anche sul piano psicologico, perché provoca una frattura tra ciò che siamo e ciò che facciamo; da questa ferita germina il disagio, sotto forma di demotivazione, allontanamento, malinconia. I più esposti a questa sindrome sono come al solito gli insegnanti più impegnati, che hanno conservato un forte senso del dovere. Si adattano rapidamente, senza disagi, i venditori di fumo e quella parte del corpo docente che ha disattivato ogni interesse e che galleggia nell’indifferenza.
A questi docenti si può chiedere tutto, anche il miracolo che gli stessi riformatori ammettono di non saper fare e cioè programmare la cultura in termini di conoscenza, competenza e capacità. Vediamo allora spuntare nell’infinita produzione cartacea a cui noi insegnanti siamo stati condannati da questa riforma, formulette preconfezionate, che si rincorrono nelle praterie del nulla, in un vano gioco di specchi.
Supponiamo, con fede, che avvenga il miracolo e che un giorno il Parlamento europeo stabilisca con voto di maggioranza come distinguere le tre sorelline. Si aprirebbe uno scenario che così viene descritto dagli addetti ai lavori: “….occorre ricordare che altri problemi per le agenzie deputate all’insegnamento, oltre a quello di definire quali competenze perseguire, sono quelli della loro valutazione e della loro spendibilità. Il che implica altre questioni non meno importanti, quali quelle della comparabilità e della trasferibilità. Di qui un’altra questione ancora, quella della ricerca di opportuni indicatori e descrittori che permettano una lettura omogenea e non equivoca dei dati raccolti anche nelle più diverse situazioni di insegnamento/apprendimento.”
Se fosse possibile incrociare lo sguardo dei circa ottocentomila insegnanti superstiti della scuola italiana, domanderei a ciascuno se questo scenario è compatibile con l’esercizio della propria funzione educativa. Come è possibile che la professionalità di un insegnante, la sua sensibilità culturale, il suo rapporto delicato con gli studenti, possa trovare spazio in una scuola i cui principali problemi sono la certificazione delle competenze, la valutazione, la comparabilità e la spendibilità delle suddette, i descrittori, gli indicatori, e la lettura oggettiva di non si sa cosa? I giovani, a scuola, necessitano di strumenti culturali atti a decodificare il mondo, tali comunque da educare la mente alla riflessione e all’attività ragionativa. Ci presentiamo invece armati di registri, griglie e descrittori.
L’ossessione per la valutazione pone agli insegnanti un altro problema cruciale: il TEMPO. Su questo punto i riformatori non rispondono, ma predispongono. Detto nella forma più semplice: se ancora riesco ad insegnare qualcosa di stimolante ai miei studenti, ciò dipende dal tempo a disposizione per dedicarmi allo studio e alla lettura: un tempo imprescindibile per approfondire i contenuti delle materie che insegno, per pensarli in forma tale da poterli condividere con i giovani che mi sono stati affidati.
Questo tempo è travolto da una valanga di prescrizioni attinenti la valutazione e l’organizzazione della scuola. Se accolte, quelle prescrizioni annullano ogni tempo culturalmente significativo, quindi annullano la possibilità stessa che possa esistere un insegnamento degno di questo nome. Quindi vanno respinte. Sulla questione del tempo, nell’ambito dell’insegnamento, bisogna aggiungere una nota scandalosa (solo per chi non insegna): per svolgere la propria attività in forma incisiva l’insegnante ha bisogno di tempo libero, perché deve rigenerare le energie psichiche, consumate nelle cosiddette ore frontali di lavoro.
Questo vale per i maestri come per i professori, perché la relazione con gli allievi, per essere efficace, esige un investimento psichico come pochi altri lavori. A loro volta, gli allievi “sentono” il livello di energia dell’insegnante e rispondono con entusiasmo quando sentono entusiasmo. Si potrebbe obiettare che rivendicare tempo libero per gli insegnanti favorirebbe i refrattari al lavoro, che utilizzerebbero quel tempo con altro spirito. È vero: ma la categoria dei refrattari al lavoro la si sconfigge inserendo questi soggetti in ambienti motivati, seri, stimolanti, dove allora sarebbero loro a provar disagio. Sconfiggerli prescrivendo a tutti gli insegnanti di sfinirsi in attività inutili è il modo migliore per affondare gli insegnanti professionalmente capaci, che hanno bisogno del “tempo professionale”; gli altri, i fannulloni, trovano comunque rimedi difensivi.
Certo, se l’insegnamento viene ridotto a mera registrazione di competenze, o comunque ad un’attività che non mette in giuoco la fatica della relazione, allora il discorso sul tempo cambia, perché di fatto l’insegnare si assimila ad una qualsiasi attività di tipo amministrativo. Nel qual caso potrei “insegnare” anche dodici ore al giorno, anche se in realtà non insegnerei affatto. Ma questa immagine povera dell’insegnamento e del tempo è quella dei moderni pedagogisti che hanno ispirato la riforma. È il tempo seriale e quantitativo dei burocrati. È il tempo della certificazione.
Provo sgomento all’idea di insegnare in una scuola finalizzata a certificare competenze, e che, coerentemente discute soltanto di criteri di certificazione, di griglie di valutazione, in attesa della griglia di Stato, a sua volta in attesa della griglia europea, mutuata dalla griglia americana, per finire con l’apparizione messianica della GRIGLIA GLOBALE. Solo a quel punto il giovane grigliato potrà spendere i crediti capitalizzati, comparabili e trasferibili, in ogni angolo del globo. Potrà cioè essere impiegabile.
fonte: fisicamente.net
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