Non sarà hard Brexit
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Nicolas Fabiano)
Il mancato trionfo alle elezioni e le ostilità all’interno dei Tories potrebbero indurre il Primo Ministro, politicamente traballante, ad ammorbidire la linea sull’uscita dall’Europa.
Le elezioni inglesi più che un richiamo all’ordine lasciano un segno indecifrabile, legato forse all’utopia, o all’eutopia come avrebbe detto il famoso economista inglese Keynes. La vittoria zoppa (hung parliament), e mortificante date le premesse, del Partito Conservatore di Theresa May segnalano una nuova fase di stallo sulla Brexit, l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea a trazione tedesca, con l’internazionalità ritrovata della sterlina inglese sui mercati internazionali. Nessuno dei due principali partiti – il Labour capeggiato da Corbyn e i Tories dell’attuale premier inglese – è riuscito ad accaparrarsi lo scorso 8 giugno la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. Anzi. E’ assai probabile che il risveglio degli elettori più giovani, che hanno votato in prevalenza Labour- sia un messaggio tardivo ma chiaro sull’abbandono del Regno Unito dal ponte costruito in questi ultimi decenni con l’Unione Europea.
Il risultato del voto riassume le contraddizioni di un passaggio epocale per la storia recente della Gran Bretagna. E’ una situazione già accaduta durante il primo governo di David Cameron, nel 2010, quando l’allora primo ministro inglese non avendo la maggioranza all’interno della House of Commons siglò un’intesa con i liberal-democratici, il partito di centro guidato da Nick Clegg. Ma la scommessa persa dai Tory in questa fase è anche il fallimento dell’armamentario ideologico portato avanti dalla Brexit in poi. Avremmo assistito ad un cambio di paradigma evidente se dal culto dell’individualismo di Margaret Thatcher per cui “la società non esiste” (ci sono solo individui e famiglie) si fosse definitivamente passati ad un nuovo impegno nei confronti della propria comunità. Il manifesto del Partito Conservatore attualmente propone proprio questo: un’evoluzione amplificata e maggiormente paternalista della Big Society di David Cameron. Theresa May ha però perso questa scommessa, non è riuscita a tenere a bada la nuova domanda di ulteriore sovranismo proveniente dal suo maggior competitor, Jeremy Corbyn, anch’esso considerato un outsider di sinistra del partito Laburista, specialmente dopo il decennio di Tony Blair a Downing Street.
Il radicalismo dei rispettivi leader offre ricette comuni, legate ad una maggiore domanda di welfare e ad una rinnovata fiducia nei confronti dello Stato. Tuttavia, le elezioni anticipate fondate su un nuovo equilibrio sovranista tra i due principali partiti del sistema inglese sono state un fiasco per chi le ha indette, anche se Theresa May formalmente le ha vinte con il 42% dei consensi e anche se complessivamente la democrazia britannica ne è uscita rafforzata visto il basso numero di astenuti tra gli elettori. Tocca ora governare, e non sarà facile un ritorno della centralità di Westminster senza una leadership forte e stabile, nonché senza una maggioranza assoluta in Parlamento. I negoziati per la Brexit sembrano preludere ad un accordo inevitabilmente al ribasso per gli inglesi. E la May è ad un bivio perché dopo i risultati del voto dovrà inevitabilmente riformulare le sue precedenti posizioni che spingevano per un hard Brexit, senza compromessi né mediazioni di alcun genere.
Nel frattempo la sterlina è ai minimi da 9 mesi, l’inflazione è in aumento dal 2,7% al 2,9% ben al di sopra dell’obiettivo prefissato dalla Banca d’Inghilterra al 2%. Questo crea già adesso seri problemi ai salari reali britannici che vedono erodersi le proprie retribuzioni dall’aumento dei prezzi. Più equilibrata sembra essere la gestione delle finanze statali e questo è il vero merito dei leader inglesi che hanno affrontato negli ultimi anni la crisi economica. Come preannunciato dall’attuale cancelliere dello scacchiere, il ministro delle finanze inglese Philip Hammond, il deficit pubblico verrà ulteriormente ridotto, portandolo sotto al 2% del Pil. Ma è proprio la crescita che favorirà l’annunciata austerità fiscale visto che, per il momento le stime evidenziano un Pil sopra il 2%. Si mantiene in questo modo l’equilibrio inglese tra il controllo del deficit pubblico e un pericolante deficit estero dovuto ad un aumento delle importazioni, sbilanciamento che trova una spiegazione nella struttura finanziaria di Londra e nelle pericolose politiche commerciali mercantiliste della Germania, di cui l’Inghilterra è uno dei principali importatori.
Entrambi i contendenti, sia Corbyn che la May, sono riusciti ad arginare l’UKIP, il partito euroscettico e anti-immigrazione di Nigel Farage, ma dal punto di vista economico entrambi, in modo diverso, avevano e hanno lo spazio fiscale per poter testare una maggiore spesa sociale. La realtà interna del welfare inglese è molto diversa rispetto a quella di altri stati maggiormente assistenzialisti, come la Francia, la Danimarca o l’Italia; un indicatore sintetico della stabilità delle finanze pubbliche d’Oltremanica consiste nella social spending; nel 2016, tanto per fare solo un esempio, la spesa sociale britannica si è attestata al 21,5% del Pil, in linea con la media OCSE, ma assai inferiore rispetto al welfare state francese (31,5% del Pil) a quello dei paesi scandinavi (Svezia e Danimarca nel 2016 hanno speso in media il 29% e il 28.7% del Pil) e all’Italia (30% del Pil) che, di simile ai paesi succitati ha il livello di pressione fiscale piuttosto che la qualità dei servizi pubblici. Naturalmente una dimensione assai contenuta della spesa welfaristica può concedere alla Gran Bretagna e ai suoi principali partiti svolte ideologiche azzardate che i politici di altri paesi possono solo sognare di fare. O che promettono comunque, ma restano materiale per illusionisti.
Anche sul lato delle entrate per adesso la situazione inglese vede le proprie imprese pagare tra il 20% e il 30% di tasse in meno rispetto all’Italia. In questo senso, le proposte che provengono dal partito neosocialista di Corbyn si caratterizzano per concentrare l’onere della tassazione sui più ricchi; d’altro canto anche il manifesto del Partito Conservatore, dipinto di rosso a rappresentare la tradizione dei conservatori “di sinistra”, i cosiddetti Red Tories, abbraccia una linea volta a limitare la diffusione della ricchezza per combattere le crescenti diseguaglianze – specialmente tra città e campagna – presenti all’interno del paese. Se almeno internamente le intenzioni rispetto ad un anno fa non cambiano e rivoltano come un calzino la centralità del free-market inglese, all’esterno tutto dipenderà da come verranno condotti i negoziati sulla Brexit. La tempesta scatenata con le elezioni anticipate che non hanno visto un autentico vincitore potrebbero creare ulteriore imprevedibilità. Se Theresa May non riuscisse a ottenere un accordo vantaggioso per il proprio paese – vale a dire preservare la piazza finanziaria di Londra per il mercato dei capitali e assicurarsi nuove possibilità di concorrenza fiscale sul mercato dei beni – le ricadute politiche potrebbero tradursi in una ulteriore spaccatura all’interno del Partito Conservatore, magari con una convergenza di alcuni Tories verso il centro dello spettro politico, attualmente occupato dal partito liberal-democratico. A quel punto la May cadrebbe definitivamente. E molto probabilmente potremmo assistere anche in Inghilterra, come di recente in Francia, alla nascita di un nuovo Macron.
Fonte: http://www.lintellettualedissidente.it/economia/brexit/
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