Grecia, oltre 500.000 lavoratori poveri: “Il mio stipendio basta appena per mangiare”
di VOCI DALL’ESTERO
Introdotta, a parole, per combattere la disoccupazione giovanile, la liberalizzazione del mercato del lavoro (leggi: distruzione dei diritti dei lavoratori) ha portato in Grecia all’emergere prepotente di una nuova classe: quella dei lavoratori poveri, più spesso giovani, che ricevono stipendi semplicemente insufficienti per vivere. Lo riporta il blog Keep Talking Greece, facendo riferimento a un’inchiesta uscita sul settimanale tedesco Der Spiegel.
In Grecia più di mezzo milione di lavoratori guadagnano così poco che riescono appena a sfamarsi. Sono dati terribili, che ci toccano in tutti i sensi: perché se Atene piange, Roma non ride. Il recente rapporto Caritas presentato pochi giorni fa alla stampa estera denuncia infatti come non solo la povertà in Italia sia in aumento, ma le persone più penalizzate siano proprio i giovani. Nel nostro Paese un giovane su dieci vive in uno stato di povertà assoluta; nel 2007 era appena uno su 50.
Ma non è tutto qui. Anche in Italia cresce drammaticamente il numero dei poveri non disoccupati: nella categoria “operaio e assimilato” l’incidenza della povertà è oggi pari al 12,6%, mentre negli anni pre-crisi si attestava appena all’1,7%. Come i nostri lettori ben sanno, se i Paesi non possono recuperare competitività svalutando la propria moneta (come Italia e Grecia, stretti nel cappio dell’euro), hanno l’unica strada di abbattere il costo del lavoro. E quella che chiamano competitività, è infatti la conclusione di questo articolo. Sì, competere contro la propria stessa sopravvivenza.
Di Keep Talking Greece, 4 novembre 2017
Le riforme hanno gravi effetti collaterali. Dalla crisi economica in Grecia è emersa una nuova classe sociale: i lavoratori poveri. Donne e uomini istruiti, per lo più laureati, che devono adattarsi a lavori sottopagati.
I lavoratori poveri sono lavoratori che hanno redditi inferiori a una determinata soglia di povertà.
In una inchiesta esclusiva, il settimanale tedesco Der Spiegel riporta, tra le altre storie di lavoratori poveri in Grecia, anche quella di Stelina Antoniou, di 24 anni, laureata, impiegata come barista al Royal Theatre di Salonicco. Lavora tre giorni alla settimana, con turni che spesso arrivano fino alle 12 ore filate, e guadagna 240 euro netti al mese.
“Almeno non devo pensare a come spendere i soldi che guadagno – dice – bastano giusto per mettere qualcosa in tavola”.
Ha studiato Lingua e Letteratura greca, ma dal momento che le assunzioni di insegnanti nelle scuole greche sono state sospese “l’unico lavoro che ho trovato è stato in questo ristorante. Questo è il lavoro e lo stipendio che ti viene offerto in Grecia al giorno d’oggi, se hai meno di 25 anni”.
Stelina condivide un appartamento con un’amica di 22 anni che guadagna uno stipendio simile lavorando come domestica. Le due mettono insieme i loro soldi e come prima cosa pensano a pagare le bollette. La loro priorità principale è la bolletta del riscaldamento.
Questa giovane donna greca appartiene a un gruppo sociale che negli ultimi anni è esploso con una forza senza paragoni: i cosiddetti “lavoratori poveri”.
Un terzo dei lavoratori del settore privato ora guadagna così poco che lo stipendio non è sufficiente per sopravvivere, e si tratta di più di mezzo milione di persone. Per il loro lavoro sono pagati meno di 376 euro al mese, ovvero meno del 60 per cento del salario medio. Quasi il 9 per cento dei dipendenti deve accontentarsi di meno di 200 euro. Il rischio di ritrovarsi poveri pur avendo un lavoro stabile in Grecia è più alto che in qualsiasi altro paese dell’Unione Europea.
Ma anche le persone che guadagnano un po’ di più affrontano difficoltà sempre maggiori, perché il costo della vita negli ultimi anni è aumentato significativamente. A titolo di confronto, a Berlino, i prezzi dei beni destinati al consumo quotidiano sono più alti solo del 14,5% di quelli di Atene, mentre il potere d’acquisto nella capitale tedesca è del 117% più alto.
È lo Stato che ha contribuito all’aumento dei costi, grazie alle riforme: le scappatoie fiscali sono state chiuse, l’Iva è aumentata e lo stesso hanno fatto le tasse sull’acquisto di terreni.
Un’altra causa che ha portato a queste conseguenze è la liberalizzazione del mercato del lavoro, che i creditori della Grecia hanno ripetutamente sollecitato dall’inizio della crisi finanziaria. Da allora, il Parlamento ha approvato tutta una serie di leggi che hanno attenuato in modo significativo le protezioni dei lavoratori. E intanto sono in programma ulteriori leggi sul lavoro, presto il Parlamento dovrà votare un giro di vite su diritto di sciopero e di riunione.
Il problema è che la liberalizzazione ha avuto spesso l’effetto opposto a quello cercato. Ad esempio, la legislazione aveva abbassato il salario minimo del 22 per cento, portandolo a 586 euro, mentre la soglia era ancora più bassa per chi aveva meno di 25 anni.
Questo, si sperava (o forse si diceva di sperare, NdVdE), avrebbe contrastato la disoccupazione giovanile, che in Grecia raggiunge un picco senza confronti nell’UE. Il risultato: nel 2016 il 47% dei giovani sotto i 25 anni era disoccupato. Allo stesso tempo, è emersa una classe di lavoratori che tollera qualsiasi trattamento, perché consapevoli che se proveranno a lottare per i propri diritti saranno rapidamente sostituiti. Due esempi.
Addetto alle consegne, 30 anni, lavora per 4 euro all’ora 36 ore alla settimana, domenica e festivi senza straordinari. Il carburante e la manutenzione del motorino sono a suo carico.
Impiegato in un fast food, 30 anni, lavora a tempo pieno 40 ore a settimana. Guadagno netto 490 euro al mese. Nessuno straordinario, nessun bonus per Natale né per le festività, benché obbligatori per legge.
Le possibilità dei datori di lavoro, d’altra parte, sono aumentate. Possono rifiutarsi di pagare il lavoro straordinario e le ferie. Non devono temere alcuna conseguenza se registrano dipendenti a tempo pieno come part time per risparmiare sui contributi sociali, solo per citare alcuni esempi.
Le ristrettezze materiali non sono l’unico problema. La condizione dei lavoratori poveri impedisce anche a molti, benché lavorino, di vivere una vita autodeterminata. Molti non hanno altra scelta che continuare a vivere nella stanza dei bambini della casa dei genitori – senza alcuna prospettiva di avere una propria famiglia.
E benché le persone coinvolte siano in così grande numero, difficilmente riescono a trovare spazio nella percezione pubblica. Compaiono nelle statistiche, di tanto in tanto un articolo sulla stampa crea un certo scalpore, oppure qualche politico li difende, promettendo loro qualche miglioramento per farsi votare.
Ma da parte dei “lavoratori poveri” non arriva alcun grido forte di protesta, perché questo ridurrebbe anche le possibilità di ottenere un lavoro sottopagato. E un lavoro mal pagato è comunque meglio di nessun lavoro.
P.S. Il grido di protesta forse si alzerà quando i lavoratori poveri della Grecia arriveranno all’età in cui ci si deve fare la propria famiglia. Oppure seguiranno il percorso dei loro amici e migreranno all’estero. O magari la crisi sarà finita. Ma, ancora, anche se la crisi sarà finita, i salari rimarranno bassi. Christine Lagarde del FMI la definì “competitività”. Essere competitivi contro la propria stessa sopravvivenza.
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