L’etica di Lenin – ed altre note sul ’17 – (2a Parte)
di SOCIALISMO 2017 (Mimmo Porcaro)
Historia magistra
Tutta questa vicenda è chiaramente ricca di insegnamenti. Oltre a quello, da tempo oggetto di discussione, dell’impossibilità di concepire le alleanze come rinuncia a qualunque iniziativa autonoma da parte dei comunisti, due insegnamenti mi paiono molto importanti per noi, oggi. Il primo riguarda le forme della politica, prima ancora dei contenuti. Abbiamo imparato che la rivoluzione o è spuria o non è, e che non è possibile evitare di confrontarsi con l’apparato di stato, di costruire alleanze, di definire obiettivi intermedi. Ma abbiamo imparato anche che se il movimento dei comunisti è gestito da una sola istituzione e se questa istituzione è un partito che vede principalmente nello stato esistente il suo spazio di realizzazione, l’inevitabile cooptazione del partito nello stato trascina con sé la metamorfosi negativa di tutto il movimento rivoluzionario.
Per ovviare a ciò è necessario un pluralismo istituzionale del movimento. Il “partito” dei comunisti (sia esso composto da una o da diverse organizzazioni) deve essere distinto dal partito democratico di larga coalizione che occupa l’amministrazione, ed entrambi devono essere distinti sia dai sindacati che dalla rete di istituzioni popolari autonome. Ognuno di questi elementi è chiamato a dirigere la danza, se sa farlo. E se uno fallisce o passa dall’altra parte, qualcun altro può subentrare. L’altro insegnamento riguarda l’internazionalismo. Abbiamo imparato che un associazione internazionale può trasformarsi nello strumento della potenza di una nazione soverchiante. Ma non possiamo dedurne che un processo rivoluzionario debba essere scadenzato fin dall’inizio sui tempi e i modi di un movimento internazionale. La rivoluzione ha inevitabilmente una dimensione locale (perché lo spazio globale è soltanto lo spazio del capitale) che a sua volta è quasi sempre una dimensione nazionale, ed è a partire da questa dimensione che si pongono gli inevitabili e decisivi problemi di collocazione internazionale che ogni rivoluzione deve risolvere. Il rapporto con altri stati è con altri movimenti è inevitabilmente mediato dalle caratteristiche nazionali e dalle divergenze fra le nazioni (divergenze storico-geografiche, oggi acuite dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica mondiale).
Certo, anche Trotskij sapeva che “la rivoluzione socialista comincia sul terreno nazionale, si sviluppa sull’arena internazionale e si compie sull’arena mondiale”xvii. Ma a mio parere sottovalutava (e di molto) i condizionamenti imposti dall’inevitabile dimensione nazionale dell’inizio della rivoluzione, perché presupponeva un astratto interesse comune del proletariato mondiale alla rivoluzione, mentre questo interesse comune non può essere pensato come un presupposto ma è il risultato di un faticoso lavoro di mediazione tra i diversi interessi immediati dei lavoratori dei diversi paesi. Di più, nelle condizioni attuali non si può pensare l’internazionalismo come un rapporto che si stabilisca solo tra nazioni orientate al socialismo, ma lo si deve vedere come un rapporto tra nazioni e/o blocchi aventi il comune obiettivo di ridurre la libertà di circolazione capitale e di gestire politicamente i rapporti fra stati in modo da non costringere nessuno di essi alla subordinazione o alla deflazione competitiva.
Dividere l’uno in due
Era necessario Stalin? Potrei dire che era necessario forzare sia la collettivizzazione che l’industrializzazione, senza le quali la II guerra mondiale sarebbe finita molto diversamente. Potrei aggiungere che era necessaria una soluzione autoritaria al problema del potere in Unione sovietica, per l’ampiezza dell’impero, per la durezza dei conflitti interni ed esterni, per le tradizioni politiche e per le stesse innegabili caratteristiche autoritarie del bolscevismo (autoritarismo che Lenin superò nella pratica, ma non sufficientemente nella teoria). E potrei concludere che non era però necessaria una soluzione autoritaria all’interno del partito, visto che Lenin era riuscito a garantire la più ampia discussione anche in momenti assai più critici di quelli vissuti da Stalin. Ma riconosco di non poter rispondere seriamente a questa domanda, e penso anche che ad essa, come a tutte quelle che riguardano l’involuzione del socialismo reale si potrà iniziare a rispondere seriamente solo quando un nuovo movimento socialista sia cresciuto abbastanza, in intelligenze e risorse, per poter riprendere lo studio sistematico delle esperienze del passato.
Un tale studio dovrebbe essere guidato dal un orientamento dialettico. Nella discussione su Stalin, e sul socialismo reale, la fa da padrona la sterile fissità delle opposizioni, mentre dovremmo essere in grado di comprendere che i rapporti più importanti sono vere e proprie contraddizioni, dove l’un polo può esistere ed essere definito solo nella relazione che lo oppone all’altro, e dove nessuno dei due poli può essere definitivamente assorbito nell’altro. Partito e movimento, democrazia e centralismo, offensiva e difensiva, nazione ed internazionalismo, piano e mercato sono appunto i poli di altrettante ineliminabili contraddizioni. E la soluzione di tali contraddizioni non consiste nella sparizione dell’uno dei termini o nella conciliazione degli opposti, ma nel trovare per ciascuna di esse, nella concretezza della prassi, una forma di svolgimento a noi favorevole. Ciò vale soprattutto per la contraddizione che, quando si parla di stalinismo, è forse più la più “pesante”, ossia quella fra statoe società.
Anche e soprattutto in questo caso non si può abolire uno dei due termini, e quindi non si può abolire lo stato. Si può abolirne il carattere di classe, farlo gestire da personale proveniente dai ceti subalterni, rendere obbligatoria per i funzionari la consultazione continua dei gruppi sociali, si può e si deve porre di fronte ad esso il contraltare delle istituzioni popolari autonome. Si può fare tutto ciò, ma non si può eliminare la funzione dello stato come ente distinto dalla società, agente attraverso norme generali garantite in ultima istanza da un potere coercitivo. Dobbiamo riconoscerlo con pacatezza: la teoria dell’estinzione dello stato, nella sua forma più estrema, è sbagliata; e riconoscerlo non significa affatto ammainare la bandiera rossa, anzi: significa lavorare per una più forte democrazia popolare. Infatti, anche se eliminassimo formalmente i centri di potere statale, le esigenze di organizzazione sociale e l’emergere di nuove concentrazioni di potere tecnologico-finanziario sempre possibili anche all’interno del lavoro cooperativo, creerebbero centri di forza tanto più potenti quanto più occulti. Meglio dunque una sovranità palese e contestabile che una occulta e inattingibile.
Si risponde: fondiamo lo stato sui soviet. Ma che succede se il soviet A diviene più ricco o potente del soviet B e lo prevarica? Chi ristabilirà l’eguaglianza se non un ente terzo dotato di potere coercitivo? E soprattutto, cosa che non mi stancherò mai di ripetere, chi svolgerà la funzione essenziale di contestare lo stato dall’esterno e di preparare eventualmente gruppi alternativi di funzionari, chi lo farà se e quando i soviet saranno divenuti tutt’uno con lo stato, saranno lo stato? Infatti, se dico che lo stato è inevitabile, dico anche che è inevitabile la tendenza alla degenerazione autoritaria o autoreferenziale dello stato; e quindi aggiungo immediatamente che nel momento in cui costruiamo un nuovo stato dobbiamo da subito creare dei contrappesi:
le garanzie del diritto, l’attività di organismi sociali autonomi, la separazione del partito dagli apparati di stato. Se invece penso che lo stato o il semi-stato socialista siano in linea di principio esenti da tare interne in quanto espressione immediata del popolo o della moltitudine, mi consegno disarmato alla riproduzione, su scala pericolosamente allargata, dei poteri indiscutibili ed informali che inevitabilmente lievitano nelle situazioni di formale assenza di potere. Qui si vede come le posizioni consiliariste, democraticiste, anarchiche possono giungere anch’esse ad esiti del tutto opposti a quelli sbandierati – tragedia che quindi non colpisce soltanto il bolscevismo. E possono giungervi non soltanto perché il disordine sociale generato dall’applicazione integrale delle loro tesi provocherebbe una inevitabile reazione autoritaria. Ma perché esse contengono un forte elemento di autoritarismo implicito in quanto condividono con lo stalinismo una idea monistica del potere. Stalin assorbe la società nel partito-stato. I suoi avversari fanno l’opposto. Ma in questo come in altri casi bisogna, al contrario, mantenere la tensione fra i due poli. E, come diceva Mao – forse il più importante critico dello stalinismo – dividere l’uno in due.
1960 – 1980
Se la prima ondata causata dal terremoto del ’17 si è infranta sugli scogli dell’Europa centrale, se la seconda (1935-1949) ha rotto quegli argini, guadagnando in ampiezza ma diminuendo in intensità (salvo che in Cina e Jugoslavia), e quindi facendo sedimentare le Costituzioni democratico-sociali europee, la terza ondata, iniziata nella seconda metà degli anni ’60, pur non essendo paragonabile alle prime due quanto ad intensità e ferocia delle vittorie e delle sconfitte, e pur rappresentando, a ben vedere, soltanto una mezza rivoluzione, ha dato comunque la stura ad una controrivoluzione in piena regola. Vien da dire che anche se solo una parte minoritaria degli operai e degli intellettuali che occupavano fabbriche, scuole, piazze in quegli anni di libertà era consapevole di aver alzato la stessa bandiera del ’17, la totalità della classe opposta avrebbe invece compreso molto in fretta che la posta in gioco del conflitto era in fondo la stessa.
La forza dei movimenti sociali di quegli anni era dovuta agli effetti di quelle Costituzioni che a loro volta erano debitrici di Lenin e di Stalin. L’americanismo fondato su alti salari ed alti consumi era una tendenza interna del capitale, ma la sua diffusione e la coloritura socialista che esso assunse in Europa molto devono alla concreta esistenza di un minaccioso blocco comunista. La piena occupazione consentiva di porre nuovamente non solo il problema del salario, ma anche quello del controllo della produzione. Lo stridore fra le permanenti diseguaglianze e l’aumento della ricchezza materiale, reso più evidente dal contrasto con le promesse costituzionali, allargava il conflitto e faceva convergere strati sociali diversi.
La lotta esplose, e durò a lungo. Ma nonostante ciò non fu una rivoluzione. I suoi punti alti furono i consigli operai ed alcuni momenti di alleanza fra diverse classi popolari (in particolare fra operai e studenti di origine piccolo borghese). Nonché alcune riforme che accentuavano il potere dello stato rispetto a quello della singola impresa privata. Ma non fu una rivoluzione perché mancò l’aspetto della crisi generale del sistema, perché l’intervento pubblico seppe lenire gli effetti della crisi economica, perché partiti e sindacati operai erano già da tempo divenuti parte integrante dell’apparato di stato (intendendo lo stato nel senso ampio, “gramsciano” del termine). Il problema ben compreso dai capitalisti, però, era che la forza del movimento dei lavoratori non derivava da vicende occasionali ma dalla posizione strutturale del lavoro in un quadro di piena occupazione, dall’ideologia dell’eguaglianza che a questo quadro era connessa, dalla convergenza dell’intellettualità su questa stessa ideologia, e infine dal ruolo direttoassunto nella gestione dell’economia da uno stato che, almeno in linea di principio, avrebbe potuto davvero cadere in mani pericolose. Ripeto: le lotte di quegli anni erano il risultato della lunga durata della Rivoluzione.
Per contrastarle ci volle quindi una controrivoluzione che fu diversa dalle altre solo per il tasso minore di violenza ed il tasso maggiore di ristrutturazione economica ed ideologica. Una ristrutturazione che ha il suo apice nella globalizzazione: incalzato dal lavoro, il capitale si libera dai confini degli stati nazionali e dai pericolosi progetti semisocialisti delle burocrazie ed inizia la fantastica avventura della finanziarizzazione. Disoccupazione e delocalizzazione frammentano la classe operaia, aumentano le divisioni tra skilled e no, i ceti prima attratti dalla classe operaia vengono ora nuovamente sedotti dal capitale, che opera una magistrale sussunzione degli aspetti individualistici e libertari del’68 a scapito di quelli egualitari. Proprio quando la rivoluzione sembrava essersi impadronita delle dinamiche sociali più profonde ed essere pronta a riemergere direttamente, il neoliberismo e la contemporanea sconfitta del socialismo la rendono remota come non mai. Nulla testimonia di più di questo fatto quanto la spensierata spregiudicatezza con la quale oggi, quando si vuole spacciare una nuova merce, si può parlare di rivoluzione senza temere che la parola assuma altri significati.
2017
E’ finita la Rivoluzione? Apparentemente sì. Apparentemente la globalizzazione ha dissolto tutti gli effetti derivanti dalla lunga durata della rottura bolscevica. E soprattutto ha chiuso lo spazio di ogni rivoluzione, o, meglio, lo ha aperto in modo tale da far divenire inattingibile quel potere che il ’17 aveva spezzato. Gli effetti (e con essi la prospettiva) della rivoluzione sembrano quindi morti. Ma a ben vedere tutto ciò riguarda l’ideologia e non la realtà della globalizzazione. E non mi riferisco soltanto al fatto, importantissimo, che il sogno unipolare dei Bush e di Toni Negri è da tempo finito, infranto da due paesi che in forza della rivoluzione si sono dati un capitalismo di stato che collide col capitalismo liberista e che in tal modo può aprire spazi a chi deve allontanarsi dal blocco occidentale. Mi riferisco a qualcosa di ancor più immediato e tangibile. Mi riferisco proprio a noi, perché si sta ricostituendo lo spazio della nostra azione, e perché questa azione deve di nuovo urtare contro lo sviluppo del capitalismo europeo.
La globalizzazione divora sé stessa: i suoi squilibri riproducono l’esigenza di una politica nazionale e con questo riaprono la possibilità di un intervento dei comunisti su un potere localizzato. Già nella semiperiferia latinoamericana si sono da tempo aperte possibilità per importanti esperienze orientate al socialismo. Ma nella stessa Europa avanzata si realizzano inedite situazioni di subordinazione di interi paesi, condannati ad essere strangolati dai meccanismi che rendono permanenti gli squilibri interni all’area e dal conseguente indebitamento. La Grecia, che è la nostra culla, è anche la nostra verità: dimostra che anche una semplice richiesta di redistribuzione del reddito non può essere soddisfatta se non scegliendo una via rivoluzionaria, che è tale perché implica la conquista (e la ricostruzione) delle leve di comando, il mutamento del personale di governo e del suo rapporto con le classi subalterne, il rilancio dello stato come centro di orientamento dell’economia, la ricollocazione internazionale del paese.
Via rivoluzionaria che richiede di trovare ed esplicitare il legame tra autonomia di classe ed indipendenza nazionale, e quindi di ribaltare la strategia di distruzione delle nazioni, tipica dell’attuale forma dell’imperialismo. Tutto ciò (che per alcuni palati difficili è ancora “troppo poco”, ma per gli imperialisti è comunque inaccettabile) non è altro che il farsi di nuovo tangibile del problema dello stato. E il ’17 altro non è, in fondo, che la dimostrazione che per le classi subalterne è necessario ed è possibile conquistare e trasformare il potere di stato in funzione dello sviluppo di un progetto socialista. Forme, tempi, modi del processo sono indiscutibilmente mutati dal ’17; e la sconfitta finale del socialismo di stato pesa ancora sulle nostre spalle. Ma nessun movimento popolare attende, per svilupparsi, che qualcuno abbia elaborato il lutto di una sconfitta: se deve nascere nasce comunque. Ed ogni volta che verrà posto concretamente il problema dello stato, e quindi ogni volta che una rivoluzione anticapitalista cercherà la sua strada, è al ’17 che si dovrà fare riferimento.
NOTE:
i Luciano Canfora, L’uso politico dei paradigmi storici, Laterza, Bari 2010, p. 59.
ii Walter Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino, 1997, p. 45. Nel volume, ottimamente curato da Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, si trovano, tra l’altro, anche i materiali preparatori delle Tesi, da cui traggo questa limpida osservazione: “Marx dice che le rivoluzioni sono le locomotive della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno.” (p.101).
iii Anatolij Lunacarskij, Profili di rivoluzionari, De Donato, Bari, 1968, pp. 47 e 65.
iv Isaac Deutscher, I dilemmi morali di Lenin, in Ironie della storia, Longanesi, Milano, 1972, pp.133-145.
v György Lukács, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Einaudi, Torino, 1970, p. 127.
vi Pierre Broué, Rivoluzione in Germania 1917-1923, Einaudi, Torino, 1977; F.L. Carsten, La rivoluzione nell’Europa centrale 1918/1919, Feltrinelli, Milano, 1978.
vii Pierre Broué, op.cit., p.101.
viii Ibidem, p. 756. Cfr. anche Enzo Collotti, Socialdemocratici e spartachisti: conquista o rottura dello stato borghese, in AA.VV., Dopo l’ottobre. La questione del governo: il movimento operaio tra riformismo e rivoluzione, Mazzotta, Milano, 1977, p. 40.
ix Un giudizio analogo si trova in Andreina De Clementi, L’Internazionale, il fascismo e Gramsci, in Dopo l’Ottobre, cit., pp. 139-140.
x Per la genesi ed i temi del VII congresso è utile la lettura di Franco De Felice, Fascismo, democrazia, fronte popolare. Il movimento comunista alla svolta del VII Congresso dell’Internazionale, De Donato, Bari, 1973. L’orientamento togliattiano di questo libro può essere bilanciato dai testi di Nicos Poulantzas, Fascismo e dittatura. La terza internazionale di fronte al fascismo, Jaca Book, Milano, 1971 e di Stefano Merli, Fronte antifascista e politica di classe. Socialisti e comunisti in Italia, 1923 – 1939.
xi Questo mi sembra il limite maggiore delle critiche formulate da Arthur Rosenberg, nella sua Storia del bolscevismo, Sansoni, Firenze, 1969, anche se il libro contiene acutissime osservazioni, come quelle relative ai limiti della tattica del fronte unito (p.183). Anche Fernando Claudín, che dello stalinismo è critico in fondo equilibrato, condivide questa sopravvalutazione generale delle potenzialità rivoluzionarie, visto che oltre ad enfatizzare, con molte ragioni, l’esperienza spagnola, vede situazioni analoghe anche nella Francia del governo frontista e nell’Italia resistenziale: si veda il suo La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Feltrinelli, Milano, p. 482 e passim. Giudizio senz’altro molto ottimistico nel caso dell’Italia, ma anche nel caso della pur diversissima esperienza francese, come sostenuto da Giorgio Caredda, Il Fronte Popolare in Francia, 1934-1938, Einaudi, Torino, 1977.
xii Jacques Guillermaz, Storia del Partitito comunista cinese 1921/1949, Feltrinelli, Milano, pp. 83 e ss. .
xiii PierreBroué, Émile Témine, La rivoluzione e la guerra di Spagna, Mondadori, Milano, 1980.
xiv Jacques Guillermaz, op. cit., pp. 169 e ss.; Enrica Collotti Pischel, Storia della rivoluzione cinese, Editori Riuniti, Roma, 1972.
xv Franco Sbarberi, I comunisti italiani e lo stato, 1929-1956, Feltrinelli, Milano, 1980.
xvi Ibidem, pp. 229 e ss. . Si veda anche Leonardo Paggi e Massimo D’Angelillo, I comunisti italiani e il riformismo. Un confronto con le socialdemocrazie europee, Einaudi, Torino, 1986, nonché, dello stesso Paggi, Strategie politiche e modelli di società nel rapporto Usa-Europa (1930-1950), in Leonardo Paggi, a cura di, Americanismo e riformismo. La socialdemocrazia europea nell’economia mondiale aperta, Einaudi, Torino, 1989.
xvii Lev Trotskij, La rivoluzione permanente, Einaudi, Torino, 1967, p. 127.
Fonte:http://www.socialismo2017.it/2017/12/07/letica-lenin-ed-note-sul-17-2/
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