Siria: a un passo dallo scontro diretto
di FEDERICO DEZZANI
Nelle ultime settimane si è inasprita la guerra per procura che Russia e Stati Uniti combattono in Siria dal 2011: raid americani contro l’esercito siriano si erano già registrati in passato, ma il 7 febbraio sono finiti nel mirino anche “mercenaria russi”, impegnati nell’attraversamento del fiume Eufrate. Nel frattempo si moltiplicano le accuse rivolte a Damasco di usare armi chimiche, prodromo di nuovi possibili attacchi aerei, e l’abbattimento del jet israeliano, il 10 febbraio, testimonia il crescente coinvolgimento di Tel Aviv nel conflitto. Il fallimento strategico della destabilizzazione di Siria ed Iraq ha rafforzato l’influenza iraniana e russa sulla regione, alienando allo stesso tempo la Turchia dalla NATO: ne deriva un crescente coinvolgimento diretto di USA e Israele, coinvolgimento disperato e potenzialmente esplosivo.
Bombardare i russi sull’Eufrate: l’epilogo della disastrosa strategia USA
Risale allo scorso giugno il nostro ultimo articolo sul conflitto siriano, dall’emblematico titolo “Gli USA stanno perdendo la guerra in Siria: ed ora?”: al suo interno, commentando l’abbattimento del Su-22 siriano da parte dell’aviazione americana ed il dispiegamento di missili balistici tattici nella base americana di Al-Tanf, evidenziavamo come la guerra per procura combattuta da Russia ed USA si stesse pericolosamente indirizzando verso un scontro diretto tra le due potenze. A distanza di otto mesi, la nostra analisi ha trovato inquietanti conferme negli sviluppi degli ultimi giorni: il 7 febbraio, per la prima volta, un raid aereo americano ha coinvolto truppe russe operanti in territorio siriano, uccidendo e ferendo un numero imprecisato di “mercenari” impiegati con il placet di Mosca.
Il raid aereo, avvenuto con l’impiego di F-22, F-15 e droni MQ-91, si è concentrato su una colonna di circa 500 uomini che ha attraversato il fiume Eufrate, linea di confine informale tra la Siria “russa” e quella “americana”, nei pressi di Deir Ezzor. Il presunto attacco ad una base delle Forze Democratiche Siriane, dove erano presenti alcuni consiglieri statunitensi, avrebbe scatenato il bombardamento statunitense, costato la vita ad un centinaio di soldati tra cui diversi “mercenari” della compagnia privata Wagner. Damasco ha immediatamente bollato l’attacco come spudorata “aggressione”, seguita a ruota da qualificati commenti russi dello stesso tenore2. Ad alimentare la tensione è sopraggiunta anche la notizia di pochi giorni fa secondo cui, sempre nei pressi di Deir Ezzor, una quindicina di “mercenari russi” sarebbe stata uccisa da una trappola esplosiva3.
Un ulteriore salto di qualità nel conflitto è coinciso, il 10 febbraio, con l’abbattimento di un F-16 israeliano, colpito dalla contraerea siriana e schiantatosi presumibilmente nel nord di Israele: l’episodio è indice del crescente coinvolgimento nella guerra siriana di Tel Aviv che, in violazione dell’altrui sovranità, si sente ormai libera di colpire qualsiasi obiettivo siriano-libanese-iraniano che possa rappresentare una minaccia alla sua sicurezza nazionale.
Sullo sfondo, nel frattempo, si moltiplicano le accuse a Damasco di impiegare armi chimiche contro i ribelli: “U.S. takes aim at Russia after suspected Syrian government gas attack” scriveva l’agenzia Reuters il 23 gennaio4, riportando le affermazioni del Segretario di Stato Rex Tillerson secondo cui Damasco, e in ultima analisi Mosca, sarebbero responsabili dell’uso di gas cloro sugli insorti. Dall’ormai celebre episodio dell’agosto 2013, è risaputo che le armi chimiche siano soltanto il pretesto per intervenire militarmente nel conflitto, così da alleggerire la repressione sui ribelli e tentare di ribaltare la situazione sul campo.
Stati Uniti ed Israele aumentano quindi drammaticamente il proprio coinvolgimento nel teatro siriano, col concreto rischio che un attacco contro le forze russe (da parte di Washington) o le forze siriane-sciite (da parte di Washington e/o Tel Aviv) sfoci in un’escalation regionale. Come si è arrivati a questo punto? E perché è concreto il rischio che la guerra per procura iniziata nel 2011 evolva in scontro militare diretto?
La risposta deve essere ricercata nella disastrosa strategia di balcanizzazione del Levante adottata da Washington e alleati, strategia che, anziché rafforzare l’influenza atlantica sulla regione, ha finito col cementare l’alleanza tra Russia, Iran e Turchia, allargata a Libano, Siria ed Iraq. È un’alleanza che rischia di stritolare gli angloamericani e gli israeliani. La volontà di proseguire sulla stessa strada seguita sinora, nonostante sia ormai evidente che non ha sbocchi, sta portando Washington e Tel Aviv ad imbarcarsi in avventure militari tanto disperate quanto pericolose: come l’episodio del 7 febbraio o i progetti israeliani di una terza guerra contro il Libano.
I piani originali dell’establishment atlantico prevedevano, come più volte sottolineato nei nostri articoli, la destabilizzazione ed il collasso di Siria ed Iraq, sulle cui ceneri avrebbero dovuto nascere il Califfato sunnita dell’ISIS, un grande Kurdistan ed una pluralità di staterelli sciiti, alauiti, etc. etc. Lo sforzo di balcanizzare la regione raggiunge l’apice nel 2014, quando lo Stato Islamico, creato e finanziato dagli USA, si espande a cavallo di Iraq e Siria; parallelamente iniziano ad apparire sui media le epiche gesta dei curdi di Kobane ed il Kurdistan acquisisce sempre maggiore concretezza.
Fermamente convinti a sventare i piani di Washington sono la Russia, che non può permettersi di perdere l’affaccio sul Mediterraneo, l’Iran, che non può permettersi di rimanere isolata dagli sciiti libanesi e siriani, la Turchia, che non può permettere che alla sue frontiere nasca un Kurdistan che catalizzi anche la propria minoranza curda. Nell’autunno 2017, l’alleanza russo-turco-iraniana è formalizzata al vertice di Sochi.
La balcanizzazione del Levante si trasforma così in una vera disfatta strategica per “l’Occidente”:
- la Russia ritrova il rango di superpotenza e si afferma come arbitro degli equilibri regionali;
- l’Iran, creando il cosiddetto “corridoio sciita” attraverso Iraq, Siria e Libano, raggiunge il Mediterraneo ed ottiene un’influenza che nessuno avrebbe mai immaginato 15 anni fa;
- la Turchia, costretta a lanciare la missione “ramo d’olivo” per sradicare l’esercito curdo ai suoi confini, si allontana progressivamente dalla NATO in un crescendo di tensioni con gli Stati Uniti. Parallelamente converge verso Mosca, ben felice che Ankara sradichi le milizie addestrate, finanziate e sostenute dagli Stati Uniti.
Di fronte a questo disastro strategico, agli USA non resta quindi che asserragliarsi a est dell’Eufrate, con l’obiettivo di creare (in una zona peraltro semi-desertica) un piccolo Stato controllato non più dall’ISIS dalle Forze Siriane Democratiche, essenzialmente di etnia curda. È un’operazione disperata, perché le sono contrari pressoché tutti gli attori regionali: la Turchia, che giudica qualsiasi Kurdistan una minaccia alla sicurezza nazionale, la Siria, che vuole riconquistare la totalità del suo territorio, l’Iran, che non vuole intralci sul corridoio sciita, e l’Iraq, dove si svolgeranno ai primi di maggio le elezioni parlamentari che quasi certamente confermeranno il premier “filo-iraniano”5 Haidar al-Abadi.
Analogamente, si è fatta sempre più critica la posizione di Israele, paradossalmente peggiorata dopo 15 anni di guerre mediorientali, Primavere Arabe e destabilizzazioni: tanto era sicura Tal Aviv nel 2003, quando il malconcio Saddam Hussein dominava Bagdad, quanto è fragile oggi che l’Iran è assurto a potenza regionale incontrastata.
Persa l’iniziativa, persi gli alleati, USA e ad Israele devono quindi ripiegare su disperate e pericolosissime avventure militari: bombardare i russi che attraversano il fiume Eufrate, moltiplicare i raid in Siria, progettare una nuova invasione del Libano, sognare di destabilizzare l’Iran con una rivoluzione colorata o sferrargli tout court un attacco.
Scrivendo nel febbraio 2018, possiamo affermare che gli USA hanno perso la guerra in Siria ed è, senza dubbio, la più grave sconfitta militare mai subita: per il valore geopolitico della regione, gli attori coinvolti ed il significato storico, supera di gran lunga la disfatta in Vietnam. Il rifiuto della realtà ed una certa visione apocalittica/messianica che contraddistingue l’establishment atlantico ed israeliano potrebbe condurre anche ad azioni non perfettamente razionali: l’escalation in Siria e la conseguente guerra di sistema.
Mappa del teatro siriano-iracheno6.
1https://edition.cnn.com/2018/02/07/politics/us-strikes-pro-regime-forces-syria/index.html
2http://www.newsweek.com/us-attack-assad-allies-syria-was-unprecedented-act-aggression-russia-senator-801551
3https://www.theguardian.com/world/2018/feb/15/fifteen-russian-security-staff-killed-in-syria-explosion
4https://www.reuters.com/article/us-syria-chemicalweapons-france-usa/u-s-takes-aim-at-russia-after-suspected-syrian-government-gas-attack-idUSKBN1FC27O
5https://www.reuters.com/article/us-mideast-crisis-iraq-iran/iraqi-leader-visits-iran-as-tehran-seeks-to-drive-wedge-with-washington-idUSKBN1CV14G
6https://syriancivilwarmap.com/
Fonte: http://federicodezzani.altervista.org/siria-un-passo-dallo-scontro-diretto/
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