“Nietzsche a Wall Street” è un libro che parla a Noi
di JACOPO D’ALESSIO (FSI Siena)
Può essere interessante a questo punto porsi una serie di domande. Che tipo di contiguità si può stabilire fra l’enigmatica realtà simbolica che chiamiamo Italia – e che si presenta nel mondo soprattutto in una forma godibilmente fisica, materiale e sensibile – e la storia moderna del suo Stato? In che modo queste due realtà si influenzano tuttora reciprocamente?
Daniele Balicco
Nietzsche a Wall Street, di Daniele Balicco, si inserisce all’interno di una costellazione di opere che in questi anni ci stanno aiutando a decifrare la condizione del presente stravolto da una crisi senza fine, non solo economica, ma anche legata al dissolvimento della nostra identità di italiani [i]. L’autore ad un certo punto, recuperando Ernesto De Martino, definisce tale circostanza uno smarrimento della propria stessa presenza:
Una crisi cioè che non colpisce solo alcuni aspetti della nostra società (l’economia, il governo dello Stato, la cultura, l’istruzione di massa, l’ambiente, il riconoscimento internazionale), ma le forme elementari che regolano il senso di appartenenza di una popolazione al suo territorio; e alla sua storia” [ii].
A mio avviso, Balicco ha il merito di allargare il quadro economico e giuridico istituzionale grazie ad una complessa analisi antropologica che ci mancava per investigare gli esiti tragici del Trentennio pietoso [iii]. Inoltre, suggerisce alcuni spunti sulla possibilità di uscire da questo scacco invitandoci a guardare il presente attraverso una lettura diversa del passato.
- La cornice storica di Giovanni Arrighi
Il libro, composto di tematiche eterogenee, modelli di autori italiani e stranieri, appare come un mosaico tenuto insieme da una compagine concettuale volta ad indagare le forme estetiche nell’ambito del mercato e del loro rapporto con la politica. Durante la lettura è bene inoltre considerare una periodizzazione storica che unisce la proposta di Ernest Mandel, di cui si serve il teorico della letteratura Frederic Jameson [iv], con quella dell’antropologo marxista Giovanni Arrighi [v].
Mandel sostiene che i periodi storici debbano essere identificati attraverso le rivoluzioni tecnologiche che l’hanno segnati. Perciò il carbone sta alla base della Rivoluzione industriale; il motore a scoppio e l’energia elettrica divengono la ragione materiale del Fordismo; l’energia nucleare e la chimica costituiscono il presupposto delle economie avanzate durante la Guerra fredda; mentre l’informatica e la cibernetica lo sono per il Tardo capitalismo. Arrighi invece narra la storia di uno schema che ripete se stesso nonostante cambino le epoche e gli spazi geografici in cui si manifesta e progredisce. Tutto comincia nel ‘400, quando la Spagna, ormai sicura della sua forza militare, è obbligata tuttavia a realizzare degli accordi politici con Genova la quale, di contro, è solo un piccolo centro ma ricco di una vivace attività bancaria indispensabile a finanziare i viaggi di esplorazione. Si passa poi per il sistema mercantile autosufficiente olandese; quindi, si giunge all’Inghilterra che ha saputo incorporare entro il proprio orizzonte commerciale anche la manifattura tessile. La vicenda si conclude nel dopo guerra con il dominio della nazione-continente USA insieme ad alcune previsioni su un’imminente espansione di questo disegno verso oriente.
Nel passaggio da un’epoca all’altra la potenza egemone si ingrandisce ma lo schema si dispiega attraverso una dialettica che vede sempre legati insieme lo spazio produttivo con quello finanziario. Ed è il secondo che a conclusione di ogni ciclo prevale sull’intera dinamica rilevando come la moneta tenda a creare altra moneta a scapito del lavoro vivo.
- Quando Nietzsche fece visita a Wall Street
Sapevamo che in cima alla parabola di Arrighi si trovasse la riproposizione di un liberalismo di stampo ottocentesco per mano del quale sono state rovesciate regole che, malgrado tutto, erano state capaci di tenere a freno il capitale per almeno trenta anni [vi]. Mentre con questo scritto veniamo a conoscenza di come l’ideologia nietzschiana, resuscitata in Francia con la scuola decostruzionista, si fosse insediata durante gli anni ’70 a Wall Street [vii]. Balicco svela cioè quando ha inizio il processo egemonico delle élite, che ad un certo punto è riuscito a compattare insieme gli interessi di classe di gruppi sociali apparentemente estranei fra loro: il ceto medio e alto borghese della East Coast, composto da artisti e liberi professionisti; l’intelligencija cosmopolita dei campus universitari; e la nomenclatura dell’alta finanza.
Quello che offre, infatti, l’esperienza del pittore contemporaneo al mondo dell’alta finanza neoliberista è una sorta di duplicato, per quanto spontaneo del dominio dell’estetico, della sua medesima attività lavorativa: in nessun altro settore artistico come nella pittura contemporanea, infatti, il soggetto espressivo è stato liberato da vincoli e tradizioni culturali e reso sovrano assoluto in un regno senza legge, perché alleggerito dalla referenza e plasmato da un potere auto-conferito. Ed è in questa particolare condizione, ambientale e soggettiva, che il “surrealismo nietzschiano” si innesta offrendo un approdo teorico provvidenziale perché capace di nobilitare, e ammantare di trasgressione, perfino politica, una pratica estetica di fatto alla deriva” [viii].
La galleria di quadri allestita in una delle stravaganti palazzine che si trovano nel quartiere radical chic a Soho diventa l’occasione mondana per stringere relazioni sociali, intrecciare destini, rapporti di mecenatismo, è il punto di incontro tra universi remoti eppure paralleli.
Non dovrebbe essere difficile riconoscere, a questo punto, che la medesima idea di soggettività creativa, gioiosamente distruttrice, ribelle e irresponsabile (anche perché operante in uno spazio – quale il mondo finanziario della produzione di moneta astratta – solo simbolico e dominato da significanti puri) trova la più congruente incarnazione storica proprio nei rappresentati della classe capitalistica transnazionale di questi ultimi quaranta anni “ [ix].
Da questo ritratto affiora la convergenza tra l’universo estetico e quello economico così come viene descritto anche da altri lavori contemporanei quali ad esempio È possibile evitare un’altra crisi? di Steve Keen. Secondo l’autore australiano la crescita incontrollata del debito privato corrisponde infatti ad un’operazione speculativa condotta dal sistema bancario commerciale che ha molto a che spartire con il mercato delle opere d’arte scambiate alle aste di Manhattan. Inoltre, aspetti affini e complementari emergono anche in altri testi citati dallo stesso Balicco come Finanzcapitalismo di Luciano Gallino, che inquadra il capitalismo casinò, e La crisi della modernità di David Harvey, che ha individuato per primo le connessioni tra arte, spazi urbani, e liberalismo economico.
- Franco Fortini e il surrealismo di massa
Ma questo è solo il punto di partenza dell’analisi perché Nietzsche a Wall Street, alla stregua di una matriosca, si organizza intorno a digressioni particolari che ruotano intorno alla Storia. Dunque, qual è la ragione di un pastiche che, di primo acchito, potrebbe lasciare il lettore piuttosto disorientato? Il saggio si realizza, da una parte, con un movimento dispersivo, nella misura in cui descrive la saga del capitalismo nel suo procedere episodico. Dall’altra, con uno sforzo inverso, prova a riallacciarne le fila mediante una forma organica ma non definitiva. Spetta al lettore il compito di assemblare gli eventi per attribuire loro un significato.
Così, l’attenzione dell’autore si sposta nel tempo rivelando come l’inclinazione trasgressiva dell’élite newyorkese risalga addirittura all’avanguardia francese degli anni ’30 del secolo scorso [x]. Balicco si serve delle analisi di Franco Fortini per spiegarci come il surrealismo rappresenti un movimento di artisti che prova ad emanciparsi dalla prima globalizzazione tramite però una strategia che tradisce i suoi presupposti iniziali.
Se il sogno dei surrealisti era quello di conquistare una nuova forma di vita ‘absolutament modern’ e antiborghese, quel sogno è diventato realtà; ma si è realizzato attraverso, e ‘non in antitesi’, l’intensificazione dello sviluppo del capitale. […] L’idea di una soggettività libertaria che sovranamente goda dell’assenza di vincoli, limiti e costrizioni è un progetto in opposizione alle forme della società borghese liberale, ma non certo a quelle sognate e conquistate dal capitalismo avanzato” [xi].
Le contraddizioni dell’avanguardia storica vengono usate per rivolgere un’accusa contro la posizione irrazionale di molti intellettuali progressisti nel presente, come ad esempio quella dei Novissimi negli anni del boom. Questo perché la loro scrittura, nel gesto emancipato assoluto di demolire la sintassi comune, crea uno spazio espressivo anonimo e in balia di meccanismi automatici che finiscono per rimuovere anche il punto di vista critico del soggetto. Perciò, senza rendersene conto, sostiene Fortini, la forma letteraria finisce per simulare lo stesso meccanismo alla base dei rapporti di produzione e, insieme a quello, la logica di sfruttamento contro la quale ci si era illusi di entrare in conflitto. Eppure, il surrealismo si incarna di nuovo a partire dal 1977 nella contestazione degli autonomi cui seguono movimenti di protesta generici legati alla musica punk, alle arti visive, ai murales, che si limitano a toccare tematiche civili e puramente estetiche:
tutte le ipotesi di liberazione dalla realtà borghese, che erano state formulate dai militanti surrealisti mezzo secolo fa, sono diventate pratica di massa (questa la vittoria del surrealismo) ma, in definitiva, strumenti di schiavitù per le masse: dalla abolizione dei nessi spazio-temporali all’automatismo verbale, dall’uso della droga dell’erotismo in funzione di perdita dell’identità e di estasi fino alla scomparsa – almeno apparente – di ogni distinzione tra arte e non arte” [xii].
Siamo di fronte ad un snodo importante perché è a questo punto che il surrealismo, passando attraverso l’industria culturale e il consumismo, da mera performance artistica si tramuta in fenomeno di massa, tale da metabolizzare entro di sé la vita quotidiana.
- La mutazione
Secondo Fortini la mutazione coinvolge un periodo di circa venti anni testimoniato anche da una poesia di certo emblematica come Italia 1977-1993, in cui l’autore prende le distanze dai valori delle nuove generazioni [xiii]. Non sono parole sue, ma questa rivoluzione antropologica corrisponde in ultima analisi alla trasmigrazione del ‘cittadino lavoratore’ nelle rispettive figure del ‘precario terrorizzato’ e del ‘consumatore indebitato’ [xiv]. Le due date per noi sono molto significative in quanto il 1978 corrisponde all’ingresso del nostro paese nello SME (Sistema Monetario Europeo), mentre il 1993 coincide con la ratifica del Trattato di Maastricht.
Lo SME segna il primo colpo inflitto al modello costituzionale, ideato per raggiungere la piena occupazione, col fine di adeguarsi a quello liberista, i cui obiettivi divengono, al contrario, la stabilità dei prezzi a scapito del lavoro. Il trattato di Maastricht, invece, dà il via ad una serie di governi tecnici (in ordine di tempo: Amato, Ciampi, Dini) i quali, mentre da una parte, esautorano la democrazia, dall’altra, impediranno progressivamente allo Stato di intervenire nell’economia. Se a ciò aggiungiamo che l’Italia è il secondo paese manifatturiero d’Europa, la moneta unica, introdotta nel 1999, sembra completare un altro ciclo di Arrighi, che consiste stavolta nello spostamento del processo di accumulazione a vantaggio dell’egemonia tedesca.
L’ultima sezione del libro viene riservata all’Italia. Si, perché, fin dai primi anni ’90, l’atteggiamento del nostro paese diverrà sempre più quello tipico delle colonie che mai aveva esibito prima, nemmeno quando eravamo usciti sconfitti dalla Guerra Mondiale. Venuta meno l’URSS, la subordinazione all’Europa e agli Stati Uniti sarà tale per cui la classe dirigente della Seconda Repubblica potrebbe essere benissimo paragonata a quella di Arafat al cospetto dello Stato di Israele, così come ci viene descritta da Edward Said, ennesimo personaggio chiave che compare fra gli autori modello di Balicco [xv].
- La bellezza dell’Italia
Sulla base di questo copione, nei decenni scorsi l’Italia è stato il paese che ha promosso più riforme di tutti gli altri, tali da sconvolgere radicalmente gli aspetti del nostro vivere associato così come era stato faticosamente costruito dal dopo guerra in avanti. In nome di una modernità che ci avrebbe fatto avvicinare ai regolamenti economici e civili dei paesi più avanzati, gli italiani hanno interrotto un loro percorso, e sembrano ormai essersi abituati a ragionare solo in virtù di desideri altrui.
Il sintomo più evidente di questa autoaggressione simbolica è riscontrabile in un doppio movimento conoscitivo, sempre più comune nella rappresentazione che giornali, media, cinema, letteratura e ‘pamphlet’ vari danno del nostro paese. Da un lato, una feroce attitudine auto-demolitoria, al limite dell’autorazzismo; dall’altro, un’esterofilia sempre più cieca” [xvi].
Allora, desta stupore che La grande bellezza del regista Paolo Sorrentino, sfoggiando la corruzione dei costumi romani, calati tuttavia in immagini e atmosfere meravigliose, possa raccogliere all’estero lo stesso successo de La dolce vita al quale la pellicola si ispira. Cos’è che mantiene acceso l’interesse di quel pubblico, si domanda Balicco? In realtà, l’ossessione per la vita dissoluta rappresenta un feticcio proiettato dall’esterno, incapace di cogliere la serie di conflitti che hanno caratterizzato una storia tormentata e complessa. E il film, sebbene descriva con verosimiglianza quella parte di società allo sbando che ognuno si aspetta di conoscere, elabora tuttavia una sua forma estetica. Quest’ultima, come pretende la Teoria critica di Jameson, ha la funzione di risolvere le contraddizioni reali almeno nell’immanenza dell’opera d’arte.
La produzione di una forma estetica o narrativa dev’essere vista come un atto ideologico, la cui funzione è di inventare soluzione immaginarie o formali a contraddizioni sociali insolubili” [xvii].
La soluzione di Sorrentino per Balicco risiede nel recupero dell’ambivalenza di Fellini, il cui scopo, oggi come allora, consiste nel sabotare il tradizionale dispositivo narrativo così da inibire il tentativo di proporne un giudizio [xviii]. Se l’arte, dunque, non si riduce a mera imitazione del presente ma a creazione di uno spazio simbolico che permette di immaginare come il presente potrebbe essere altrimenti, la magica atmosfera felliniana suggerisce di cercare il sublime quale ‘contro-forza morale’ e difesa dall’auto denigrazione [xix]. In uno stato di contemplazione, sospesa a metà tra la rassegnazione e l’incanto, lo spettatore è costretto a riflettere per scovare una bellezza che sia davvero autentica di contro all’ovvia quanto mai banale decadenza.
- Gramsci, Said e la controegemonia
Da parte sua Balicco rintraccia tale bellezza in ciò che ha chiamato Modernità godibile [xx]: una cultura del gusto e di peculiari stili di vita che hanno agito alla stregua di un’egemonia gramsciana, al punto di educare le aspettative degli interlocutori stranieri e ritagliarci una posizione di spicco nell’ambito della seconda globalizzazione.
Nella competizione capitalistica mondiale, il nostro Paese è riuscito infatti ad esprimere, quasi ‘naturaliter’ perché senza alcuna reale pianificazione, un’idea di modernità alternativa, tanto alla standardizzazione consumistica statunitense, quanto all’idea di modernità come severa razionalizzazione e governo della vita di massa, propria delle due precedenti potenze coloniali: l’Inghilterra e la Francia” [xxi].
Ebbene, di fronte al fallimento del PCI, che avrebbe voluto completare il processo risorgimentale per dare vita ad una storia della nazione, è stata invece la sapienza manufatturiera del boom economico a fornire la compagine ideologica che occorreva [xxii]. In altre parole, quando con l’avvento di Nietzsche a Wall Street la classe dirigente italiana tradisce le istituzioni del paese per abbracciare le leggi del mercato internazionale, l’identità moderna si è già innescata a prescindere per mezzo del Made in Italy quale precipitato storico della tradizione rinascimentale. Entro questa visione del mondo l’italiano medio riesce a rispecchiarsi immediatamente, ed è in forza di una controegemonia fondata su merci intelligenti e pervasive della vita quotidiana (design e oggettistica industriale, cibo, abitazioni, calzature e moda), che si sono tenute insieme classi sociali molto eterogenee, passando perfino attraverso la tempesta finanziaria del 2011:
‘Per un nuovo rinascimento italiano’ è una risposta a questo generale clima catastrofico. Gabriele Centazzo si rivolge solennemente alla nazione intera (nel manifesto ci si appella perfino al Presidente della Repubblica) perché ha paura che l’Italia fallisca. Nel suo manifesto, che è ricco di proposte intelligenti e di buon senso, il problema principale è individuato nell’organizzazione dello Stato che va trasformata radicalmente e portata all’altezza della tradizione millenaria di cui l’Italia sarebbe erede. Tradizione, già. Ma quale? Quello che è interessante notare è che Gabriele Centazzo si sente personalmente investito di questa responsabilità politica in quanto designer e in quanto presidente di una azienda di cucine di alta gamma. In altre parole, in quanto attore protagonista di quella «comunità immaginata» d’esportazione che è il Made in Italy” [xxiii].
Integrando quest’ultima analisi con il precedente capitolo su Said [xiv], diventa chiaro come sia stata assente finora una classe politica illuminata che abbia avuto la volontà di oggettivare il comune sentire popolare con l’obiettivo di rendere moralmente illegittimo il punto di vista delle élite transnazionali. Tale vuoto, che La grande bellezza prova a colmare per mezzo del sublime, era cominciato a causa della mutazione e la rivoluzione liberale che ne è conseguita.
Una possibile risposta
Io credo che il libro di Balicco vada letto come una mappa storica e insieme geografica, disseminata di numerosi crocevia che a volte si sovrappongono, altre volte si aggiungono alle nostre cognizioni sugli ultimi quaranta anni, e ci pone degli interrogativi ai quali abbiamo il dovere di rispondere. Se nel 1987, si chiede l’autore, l’Italia diventa la quarta potenza industriale del mondo, superando per la prima volta il PIL dell’Inghilterra
Non è forse arrivato il momento di scardinare l’interpretazione teorica più tradizionale che semplicemente oppone alla politicizzazione di massa degli anni Sessanta Settanta i terribili anni Ottanta come anni di catastrofe antropologica, di riflusso nel privato, anni di semplice gestazione del ventennio berlusconiano?” [xxv]
Balicco parla, in termini psiconalitici, di una scissione tra il successo storicamente perseguito dagli italiani nel realizzare un loro racconto, anche nel periodo di massima depolicitizzazione, e la fatica di porlo come oggetto di consapevolezza [xxvi].
Può essere interessante a questo punto porsi una serie di domande. Che tipo di contiguità si può stabilire fra l’enigmatica realtà simbolica che chiamiamo Italia – e che si presenta nel mondo soprattutto in una forma godibilmente fisica, materiale e sensibile – e la storia moderna del suo Stato? In che modo queste due realtà si influenzano tuttora reciprocamente?” [xxvii]
La domanda di Balicco si fa pertinente nella misura in cui è emersa anche una storia moderna di Stato che non si è esaurita soltanto nell’istanza romantica del PCI, né si era limitata all’esperienza fascista, e neppure alla repressione degli anni di piombo. Ma si è fondata, sia pure in modo contraddittorio, sulla prospettiva sensibile e ideologica della Prima Repubblica. Quest’ultima fu il risultato di una tradizione socialista che divenne patrimonio trasversale a tutti i partiti popolari del dopo guerra, e si manifestò nel tentativo di realizzare una società coesa e pluriclasse. D’altronde, lo stesso boom economico non sarebbe stato possibile senza il contributo dell’impresa pubblica il cui processo di demolizione è stato portato a termine solo con la destituzione dell’IRI nel 2002 [xxviii]. In un paese come il nostro nel quale, diversamente da quelli anglosassoni, è sempre venuta a mancare la presenza strutturale di capitali privati da investire sulla ricerca e l’innovazione, lo stato ha ricoperto il ruolo di grande imprenditore che favoriva un’alchimia vincente tra settore pubblico e privato [xxix].
E soprattutto: non è forse arrivato il momento di riconoscere nella sovrapposizione di questi quattro elementi (Italia ideale umanistica, Italia immaginaria straniera, diaspora mondiale e storia dello Stato) il nostro modo specifico di essere moderni, piuttosto che continuare a pensarsi esclusivamente come un frutto tardivo e mal riuscito di un unico modello di modernità europea a dominante franco-anglosassone?”
Ad un certo punto l’Italia è riuscita in questo modo a proporre il suo modo specifico di essere moderna grazie ad un’economia mista che si è collocata tra socialismo reale e capitalismo. Se un risultato del genere tuttavia è stato deliberatamente compromesso, l’immagine umanistica che gli è sopravvissuta rischia d’altra parte di rimanere prigioniera a sua volta nel mito del ‘piccolo è bello’ [xxx]. Ovvero, oscilla tra la capacità di tenere insieme la realtà simbolica che ancora informa la nostra presenza nel mondo, e l’inadeguatezza ad affrontare una crisi sistemica, pena la resa ad un capitale apolide e fuori controllo.
Di conseguenza, una possibile risposta ad alcune domande poste da Balicco c’è ed è principalmente politica. Si tratta di organizzare una classe dirigente, la cui difficile sfida consisterà nel ricomporre insieme le diverse immagini di questo paese così da riappropriarci del loro reale oggetto storico il quale, nel corso di questa lunga vicenda, è stato in parte snaturato, in parte abbandonato al proprio destino. È necessario ricucire la scissione originaria affinché si dia luogo ad una presa di coscienza che ponga la bellezza dell’Italia come fondamento morale di un’emancipazione collettiva.
Note
[i] Mi riferisco almeno a questo spettro di testi essenziali per comprendere il panorama economico giuridico istituzionale italiano contemporaneo: Alberto Bagnai, Il tramonto dell’euro; Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa; Luciano Gallino, Il colpo di stato di banche e governi; Luciano Barra Caracciolo, Euro e (o?) democrazia costituzionale; Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro; Luciano Canfora, La trappola. Il vero volto del maggioritario; Vladimiro Giacché, Aushluss; Andrea Del Monaco, Sud colonia tedesca; Thoams Fazi, Sovranità o barbarie; Domenico Losurdo, La seconda Repubblica; Carlo Formenti, La variante populista; Domenico Moro, La gabbia dell’euro; e Costanzo Preve, Elementi di politicamente corretto.
[ii] Daniele Balicco, Nietzsche a Wall Street, Quodlibet Studio, Macerata, cit. pp. 156.
[iii] Aldo Barba e Massimo Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016.
[iv] D. Balicco, Nietzsche a Wall Street, pp. 108 -110.
[v] Id, 123 – 127.
[vi] A. Barba e M. Pivetti, La scomparsa della sinistra in Europa, Imprimatur, Reggio Emilia, 2016.
[vii] D. Balicco, Nietzsche a Wall Street, cit. pp. 17.
[viii] Id, cit. 23.
[ix] Id.
[x] Id, cit. 28.
[xi] Id, cit. 38.
[xii] Franco Fortini, Il surrealismo di massa, Garzanti Libri, 1992, pp. 7-28.
[xiii] La ‘mutazione’ è termine che Fortini recupera dagli Scritti corsari di Pier Paolo Pasolini, in F. Fortini, Extrema ratio, Garzanti Libri, Milano, 1990; Insistenze, Garzanti Libri, Milano, 1985; e Italia 1977-1993, da Paesaggio con serpente, Einaudi, Torino, 1990; in D. Balicco, Nietzsche a Wall Street, pp. 46.
[xiv] Riccardo Bellofiore, La crisi capitalistica, le barbarie che avanza, Asterios Editore, Trieste, 2012.
[xv] D. Balicco, Nietzsche a Wall Street, cit. pp. 89.
[xvi] Id, cit. 156.
[xvii] Frederic Jameson, The Political Unconscius, cit. pp. 86.
[xviii] D.Balicco, Nietzsche a Wall Street, Quodlibet Studio, pp.143.
[xix] Id, 146. Said, spiega Balicco, è consapevole che la Palestina non sarà mai in grado di uscire vincitrice nel conflitto arabo-israeliano attraverso la forza militare. E perciò si convince che l’unica possibilità di resistenza, in vista anche di una possibile riconciliazione, debba passare prima di tutto per una ‘delegittimazione morale’ del suo oppressore.
[xx] Id, http://www.leparoleelecose.it/?p=31768#more-31768, in Le parole e le cose, 04.04.2018.
[xxi] Id, cit.157.
[xxii] Id, 154.
[xxiii] Id, cit. 151.
[xxiv] Id, 93.
[xxv] Id, cit.162.
[xxvi] Id, 161.
[xxvii] Id, 155.
[xxviii] Franco Amatori, Storia dell’IRI 1949-1972, Laterza, Bari, 2013.
[xix] L’idea di stato imprenditore (o ‘innovatore’, come è stato tradotto in italiano) è la categoria chiave proposta da Mariana Mazzucato, la quale però non affronta in modo specifico la questione italiana. Nel presente discorso serve piuttosto per fornire un punto di riferimento teorico nel quale possiamo incastonare il racconto di Amatori sullo sviluppo italiano dell’impresa pubblica a partire dal boom economico, in Mariana Mazzucato, Lo stato innovatore, Laterza, Roma, 2014.
[xxx] Marcello De Cecco, Ma cos’è questa crisi?, Donzelli Editore, Roma, 2013.
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