Un saggio su fascismo e antifascismo (2a parte)
di MARINO BADIALE e MASSIMO BONTEMPELLI
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3. Cos’è il fascismo?
Che cosa è stato il fascismo? La ricerca di una risposta a questa domanda è stata naturalmente viva fin dal sorgere del fascismo. Alcune delle più note risposte ad essa contengono elementi di verità che possono essere valorizzati pur all’interno di una critica degli aspetti parziali ed insufficienti di tali risposte.
Secondo Benedetto Croce, il fascismo è una malattia morale che ad un certo momento ha colpito il popolo italiano, degradandone progressivamente autonomia di pensiero, sentimenti di solidarietà, percezione della realtà. È vero, ma troppo vago. Quale malattia? Per fare un paragone medico, c’è un’enorme differenza tra un malato di cuore e un malato di fegato, e dire di uno qualsiasi dei due che è stato colpito da una malattia fisica non determina tale malattia in maniera adeguata. L’attribuzione di una malattia ad un organismo sociale, poi, può valere come criterio interpretativo soltanto se include la sua genesi ed il suo meccanismo di propagazione.
Secondo Piero Gobetti, il fascismo è il venire a galla di tutti i vizi atavici diffusi nella società italiana (conformismo, disinteresse per la verità delle cose, indifferentismo etico, schiena piegata ai potenti di turno, volubilità di comportamenti, volgarità di stile comportamentale) ed il loro coagularsi in un intreccio autoritario di potere. È vero, ma di una verità parziale, perché illumina soltanto il fascismo italiano (Gobetti è morto prima di poter conoscere altri fascismi) e soltanto un lato di esso. Rimane non illuminato l’altro lato del fascismo, la sua novità storica, senza la quale non si capisce lo stesso coagularsi in unità degli antichi vizi.
Secondo i marxisti dell’epoca, il fascismo è una controrivoluzione preventiva della borghesia rispetto ad una rivoluzione proletaria non ancora avvenuta, ma già preannunciata dall’Ottobre russo. È vero, ma fuorviante, in primo luogo perché lascia indeterminata una caratterizzazione essenziale della novità storica del fascismo, vale a dire la forma specifica della controrivoluzione preventiva, senza la quale un dittatore fascista non si distingue da un dittatore poliziesco tradizionale, in secondo luogo perché sottintende la creazione del fascismo da parte della grande borghesia capitalistica, che invece lo ha soltanto piegato ai suoi scopi dopo la sua formazione ed il suo primo sviluppo.
Per Luigi Salvatorelli il fascismo è l’autoidentificazione politica di ceti medi in declino ottenuta come autoaffermazione compensatoria sul piano istituzionale di un arretramento su quello socioeconomico. L’importante acquisizione veritativa di intestare il fascismo non alla grande borghesia capitalistica, ma ai ceti medi e piccolo-borghesi, e di comprenderlo come una loro politicizzazione al di fuori delle vecchie categorie politiche, è qui bilanciata dall’errore di intenderlo come manifestazione reattiva al loro declino, mentre successive ricerche sociologiche hanno appurato che, al contrario, il fascismo è stato, in tutta Europa, estrinsecazione espressiva di una tumultuante ascesa dei ceti medi.
Una parte significativa della storiografia tedesca del dopoguerra (Arendt, Bracher, Mosse, Kogan, Hildebrand) ha interpretato il fascismo come regime totalitario. È vero che il principio del totalitarismo politico, orgogliosamente rivendicato come superamento di un invecchiato liberalismo, è forma essenziale del fascismo. Ma altrettanto essenziale è il contenuto di questa forma, senza la cui specificazione il totalitarismo diventa, come nella Arendt, categoria generica inclusiva sia del fascismo sia del comunismo.
Il principio del totalitarismo politico è forma costitutiva del fascismo in quanto dà forma alla società attraverso i suoi specifici contenuti ideologici. Tali contenuti sono la cultura dell’inegualitarismo e della gerarchia (non a caso “Gerarchia” è il nome di una delle più importanti riviste dell’Italia fascista), il ripudio aprioristico di qualsiasi genere di solidarietà internazionale in nome di una concezione di selezione darwiniana dei popoli attraverso i loro conflitti di potenza [3], il nazionalismo illiberale ed organicista come unico legame di appartenenza dell’individuo alla società, l’irregimentazione delle masse nel culto del capo e come mezzo di formazione di uno spirito patriottico e guerriero.
La forma del totalitarismo e la sua articolazione in questi contenuti costituiscono la proiezione ideologica attraverso cui i ceti medi si danno identità politica. Essi possono compiere collettivamente una simile proiezione unitaria perché sono a quell’epoca culturalmente omogenei. La loro omogeneità culturale è data dal loro legame sociologico con costumi e schemi mentali premoderni, che li rende ostili alle classi modernizzatrici, la borghesia capitalistica e il proletariato di fabbrica, tra le cui dinamiche si sentono stretti come in una tenaglia.
La comprensione del totalitarismo politico come proiezione ideologica di ceti medi che ne fanno in tal modo il principio cardine della loro autoidentificazione politica nel fascismo, permette di comprendere anche quanto ci sia di vero nelle teorie che, a partire dal Salvatorelli (e non senza qualche contiguità con esse dell’interpretazione di Togliatti, la cui obbedienza moscovita gli impediva di avvicinarcisi troppo), hanno concepito il fascismo appunto come una produzione politica tipica della collocazione sociologica e dell’immaginario mentale dei ceti medi.
Il fascismo è stato infatti l’autorappresentazione dei ceti medi attraverso cui è avvenuta in Europa, tra le due guerre, la loro politicizzazione da una condizione antecedente di estraneità alla politica, e di adesioni soltanto individuali a partiti di destra o di sinistra. Esso è stato così organicamente connesso ai ceti medi da aver funzionato da strumento della loro costituzione in classe.
Prima del fascismo i ceti medi non sono una classe sociale. Nel caso dei capitalisti industriali e dei proletari di fabbrica, si tratta di gruppi sociali la cui caratterizzazione in termini di “classe” sta direttamente nella loro collocazione nel processo produttivo, e quindi è logicamente indipendente da ogni loro estrinsecazione politica. Prima del fascismo, invece, i ceti medi, nonostante l’omogeneità dei loro schemi mentali e dei loro costumi sociali, non manifestano alcuna unitarietà di reazione agli eventi storico-politici, non si comportano cioè da classe, perché non lo sono, in conseguenza della loro collocazione esterna alla produzione di plusvalore entro una società di cui quella produzione costituisce l’ossatura strutturante.
Costituendosi come classe sul terreno politico, non sociale, i ceti medi vi portano, come già notava Gramsci, un’ideologia priva di concretezza che riflette la loro mancanza di legami concreti con la struttura della produzione sociale. Nazionalismo, ducismo, gloria guerriera, superamento dei conflitti di classe nella nazione, e quindi terza via corporativistica oltre l’antinomia tra capitalismo e comunismo: si tratta di istanze ideali che hanno certamente avuto grande peso nell’immaginario politico del fascismo, ma solo come astratte utopie incapaci di incidere sui processi storici.
Il fascismo ha detto di se stesso di essere anticapitalista, senza mai saper individuare alcun mezzo concreto per cominciare a superare il capitalismo in qualche suo aspetto, ed anzi, appoggiandosi concretamente al capitalismo come condizione per rimanere al potere, si è reso strumento della controrivoluzione preventiva della borghesia capitalistica contro il proletariato.
A parole nemici della lotta di classe sia dei capitalisti sia degli operai, i fascisti, non sapendo e non potendo agire contro i primi, si sono maramaldescamente accaniti contro gli operai, spianando la strada alla violenta reazione capitalistica. Poiché le utopie ideologiche del fascismo non coprivano la concretezza della vita quotidiana dei ceti medi, essi hanno riempito la loro vita di fascisti con le connotazioni squallide, ma concrete, della loro vita quotidiana.
Una caratteristica del fascismo italiano è stata quindi quella di associare alla retorica astratta della dedizione agli “interessi superiori della nazione”, secondo la formula all’epoca più ripetuta, il perseguimento concreto dei più bassi interessi privati; all’emozione epidermica e temporanea per le mete di grandezza della patria indicate dal duce, un’indifferenza totale per la dimensione dell’etica nazionale nelle scelte quotidiane; alle pompose dichiarazioni di riconoscimento fascista della dignità e nobiltà di ogni lavoro (si pensi alla “Carta del lavoro” del 1927), una pratica di brutale sfruttamento del lavoro operaio e contadino.
Altre caratteristiche socioculturali dei ceti medi italiani, come l’acriticità di pensiero, il conformismo, la spontanea sottomissione autoumiliante ai potenti, erano richieste come tali dal fascismo, che le trasfigurava come fede nel duce, appartenenza alla nazione, riconoscimento del valore spirituale delle nuove gerarchie. L’insieme di questi processi ha fatto davvero del fascismo, in Italia, il luogo di coagulo e di consolidamento degli atavici vizi italiani. Ed ha reso davvero il fascismo, per il modo in cui ha legato le masse a mete bugiarde, a retoriche falsificatrici, ed a bassezze quotidiane, una malattia morale del popolo italiano.
Come si vede, una concezione del fascismo come totalitarismo politico nato dalla proiezione ideologica attraverso cui si realizza la politicizzazione dei ceti medi è in grado di includere quanto c’è stato di vero in tutte le interpretazioni che sono state date del fascismo stesso. Occorre però individuare la precisa angolazione da cui utilizzare la categoria di totalitarismo, altrimenti il suo uso può ingenerare aporie e confusioni.
Nell’Italia fascista, ad esempio, l’assetto dei poteri non è totalitario. È vero che gli enti statali e parastatali, i mezzi di comunicazione di massa (radio, giornali, riviste, cinema), la scuola, le associazione sportive, ricreative e formative, l’organizzazione sindacale operaia, le forze di polizia, rispondono ad un’unica logica centralizzata di comando, che non lascia spazio ad alcuna autonomia e differenziazione di scelte, e che è perciò una logica totalitaria. Questo non è poco.
Tuttavia, a questa unica logica di comando è sottratta, in virtù del Concordato, la Chiesa cattolica, che si muove autonomamente nella società italiana, con le sue scuole, il suo associazionismo, le sue opere di carità. Le Confindustria e le organizzazioni padronali nelle loro manifestazioni pubbliche esibiscono le camice nere dei loro esponenti e si dichiarano dedite esclusivamente a perseguire gli obiettivi indicati dal Duce, ma di fatto tutelano lo svolgimento delle attività imprenditoriali secondo la logica del profitto economico, svincolata da quella del totalitarismo politico.
Il Duce è capo del governo, ma il Re è rimasto capo dello Stato (a differenza della Germania, dove Hitler dopo la morte di Hindenburg ha cumulato le due cariche), con poteri residuali deboli in situazioni normali, ma assai rilevanti nelle emergenze storiche. La polizia è fascista, ma l’Arma dei carabinieri dipende dal Re prima che dal governo (saranno infatti i carabinieri ad arrestare Mussolini il 25 luglio 1943), e così la Regia Marina, nella quale durante l’epoca fascista paradossalmente la tessera fascista ostacola anziché promuovere la carriera.
L’assetto dei poteri dell’Italia fascista, in presenza di una Chiesa, di una Confindustria e di articolazioni delle Forze Armate sottratte all’unicità del comando politico, non può dirsi compiutamente totalitario. Se ne dovrebbe allora dedurre che il fascismo non è totalitarismo ma una specie di semitotalitarismo? Ovviamente questo non è possibile, perché quello di totalitarismo è un concetto qualitativo, non quantitativo, per cui non vi può essere un totalitarismo a metà, esattamente come una cosa perfetta a metà è in realtà imperfetta.
Si potrebbe allora argomentare che il fascismo è non un totalitarismo, ma una forma di autoritarismo repressivo e poliziesco. Ma dicendo questo si cancellerebbe quella distinzione fra destra illiberale conservatrice e destra illiberale fascista che ha segnato la storia europea della seconda metà degli anni Trenta e della prima metà degli anni Quaranta. Come dare un significato, senza questa distinzione, a contrapposizioni di figure politiche quali quelle tra Franco e José Antonio in Spagna, tra Pétain e Doriot in Francia, tra Dolfuss e Seyss-Inquart in Austria, tra Horthy e Szalasi in Ungheria, tra Re Carol e Codreanu in Romania?
Concependo il fascismo non come totalitarismo, ma come autoritarismo repressivo e poliziesco (magari riservando la categoria di totalitarismo al solo comunismo) si recupererebbe una coerenza nelle definizioni, ma su un piano astratto a partire dal quale si perderebbe ogni capacità di individuare concrete differenze storiche, e quindi ogni valenza storiografica.
Renzo De Felice è riuscito a differenziare il fascismo dalla destra illiberale conservatrice connettendo questa ad un tradizionalismo premoderno, e quello ad una prospettiva modernizzatrice di promozione dello sviluppo tecnico e di costruzione di un più elevato tipo d’uomo. Così differenziato dalla destra illiberale conservatrice, il fascismo è al pari di essa, secondo De Felice, un sistema politico ed ideologico non totalitario, mentre totalitario è il nazismo.
La conseguenza di questa impostazione, consapevolmente tratta da De Felice, è che fascismo e nazismo sono due sistemi politici ed ideologici eterogenei, e che non è quindi possibile costruire una nozione di fascismo che includa tutte le potenze che hanno combattuto sotto tale vessillo la Seconda Guerra Mondiale. Si ritorna però, con queste tesi di De Felice, ad una categorizzazione storiografica priva di presa sulla storia concreta. Nella storia concreta, infatti, fascisti e nazisti si sono sentiti parte di una stessa corrente politica, di una stessa etica totalitaria, e di uno stesso assalto militare alla conquista dell’Eurasia, e la storiografia deve rendere ragione della storia concreta, non smentirla.
Occorre dunque rendere ragione dell’unitarietà del fenomeno fascista e della sua caratterizzazione totalitaria. A questo proposito sono fondamentali gli studi di Emilio Gentile, il più penetrante interprete contemporaneo del fascismo. Gentile ha convincentemente argomentato, da una parte, che per comprendere il fascismo occorre recuperare la sua connessione con la categoria di totalitarismo e, dall’altra parte, che ai fini di tale comprensione occorre individuare la forma specifica di tale connessione.
Il totalitarismo caratterizza il fascismo non come forma organizzazione sociale e politica compiutamente realizzata, ma come suo imprescindibile elemento motivazionale e propulsivo. Nei vari fascismi storicamente esistiti, cioè, l’assetto dei poteri non è mai compiutamente totalitario, quanto meno perché ogni fascismo si consolida al potere e diventa regime con il sostegno di decisivi interessi capitalistici, dei quali quindi deve accettare le logica dell’autoreferenzialità economica refrattaria a qualsiasi comando politico totalitario.
Nel fascismo italiano, in particolare, il sistema dei poteri lascia uno spazio di autonomia ad alcuni di essi (come si è visto sopra, quelli della Chiesa, degli industriali e di settori militari legati al Re), sottraendoli alla logica di pura esecuzione del comando politico centralizzato alla quale sono invece sottomessi gli altri. Tra questi e quelli, però, non c’è una coesistenza statica, ma una tensione derivante dalla spinta innovativa del comando politico. Così nel 1931 Mussolini invia una spedizione squadristica a sfasciare alcune sedi dell’Azione cattolica, per costringere la Chiesa cattolica a ridurre i suoi spazi organizzati di formazione dei giovani, e avvicinarsi così ad un monopolio educativo del regime. Così negli anni Trenta viene creata la nuova Aviazione come Arma esclusivamente fascista contrapposta alla Marina regia, e nell’Esercito c’è un sordo conflitto tra uomini del Duce e uomini del Re nel controllo delle carriere degli ufficiali.
Così Mussolini interviene talvolta nelle sfera economica per imporvi scelte politiche contrastate dalla Confindustria, come la rivalutazione della lira nel 1926. C’è insomma una pulsione a sottomettere al comando politico aree che non gli sono ancora sottomesse, vale a dire una pulsione alla realizzazione del totalitarismo politico, che è caratterizzante del fascismo come tale.
Il fascismo, insomma, è tale se, dando luogo ad un sistema di poteri non totalitario, lo pensa orientato ad evolversi secondo una teleologia totalitaria, non importa quanto capace di operare effettivamente in senso trasformativo, e quanto invece puramente velleitaria. Questa teleologia totalitaria del fascismo come sistema politico ed ideologico fa sì che esso si caratterizzi come totalitarismo nelle sfera dell’ideologia, e come tradizionalismo nelle sua concreta sfera socioeconomica, con una continua tensione, flebile o aspra a seconda dei frangenti storici, tra questi due suoi momenti.
L’ideologia illiberale e totalitaria del fascismo (illiberale in quanto totalitaria, altrimenti il suo illiberalismo sarebbe quello della destra tradizionalmente autoritaria), non è che l’altra faccia caratterizzante del fascismo stesso, il cesarismo. Cesarismo significa che la totalità sociale può essere unificata da fini condivisi soltanto in un punto di essa, cioè nell’individualità di un uomo dotato, per un suo carisma personale, della capacità di esprimere da solo, e lui solo, il bene comune.
“Cesarismo” viene ovviamente da Giulio Cesare, che guidò Roma verso obiettivi di grandezza illuminati dal suo intuito divino, non dalle leggi né dalle attribuzioni di qualsiasi magistratura da lui ricoperta, tanto che a chi gli offrì durante i Saturnali una corona regale rispose “non sum rex, sum Caesar”. Il cesarismo si è riprodotto in età moderna come napoleonismo, di cui Hegel ha colto il senso definendo Napoleone “lo Spirito del mondo a cavallo”. E si riproduce nel fascismo come principio del Duce, nelle sue diverse versioni.
Se il Duce è l’uomo che esprime nella sua volontà la “volontà generale” di Rousseau, esprimendo così l’organicità del vincolo di tutti nella nazione, il liberalismo non ha più senso. Non ha senso, cioè, far scaturire dal libero confronto di idee e opzioni divergenti decisioni politiche orientate al bene comune, dato che al bene comune guida la sola volontà del Duce. Non ha senso il pluralismo liberale in se stesso, perché se la nazione è comunità organica, le spinte divergenti insite nel pluralismo liberale possono soltanto indebolirne la fibra e infine distruggerla, proprio come un organismo fisico andrebbe incontro alla morte se fegato, polmoni e cuore funzionassero in maniera pluralistica, cioè ognuno autonomamente dagli altri.
La necessità di realizzare il suo principio cesaristico, ovviamente indicata e promossa dal suo Duce, ispira in ogni fascismo una ben radicata pulsione a costruire il totalitarismo politico, con ricorrenti pressioni intrusive in quei settori dove vigono logiche autonome dal comando politico (economiche, religiose o altro che siano).
Il totalitarismo politico che caratterizza il fascismo vive nella sua sfera ideologica, e non diventa mai, se non in modo parziale o in circostanze particolari come la guerra, un effettivo principio di disciplina politica dei poteri sociali. Ciò non toglie che sia un elemento importante, perché la sua ricorrente pressione sui poteri sociali crea nuovi stili comportamentali, e perché in particolari momenti storici in cui i poteri sociali autonomi diventano contingentemente confliggenti ed indeboliti rispetto al comando politico, può arrivare a sopraffarli. Nell’Italia del 1943, ad esempio, quando la Corte, gli Stati maggiori ed i capitalisti passano dalla parte degli Alleati, il fascismo si fa forza repubblicana, milizia armata e organizzazione spoliatrice. Il totalitarismo politico a cui perviene nella concretezza storica non va oltre l’esperienza negativa, e asservita all’occupazione tedesca del paese, della RSI.
In vicende come questa (e nelle analoghe vicende di altri paesi europei) il fascismo svela il suo invalicabile limite storico, dato dalla sua genesi nelle utopie astratte di ceti medi svincolati dai processi di produzione della ricchezza sociale, cioè quello di non poter concretizzare la sua ideologia del totalitarismo politico se non come distruzione senza ricostruzione del tessuto sociale, e di non poter costruire opere di utilità e coesione sociale (come qualche volta è riuscito a fare) se non mettendo da parte nei fatti il totalitarismo politico, che d’altra parte nel fascismo è l’unico antidoto alla corruzione morale.
Se si capisce che il fascismo è stato tutto questo, si capisce anche che nel nostro orizzonte storico non esiste un pericolo di risorgenza del fascismo, mancandone tutti gli elementi. Manca ogni omogeneità di costumi sociali e schemi mentali dei ceti medi, che sono frantumati e differenziati dalle loro diverse collocazioni in una società piena di interne sconnessioni. Manca la nazione come luogo di appartenenza e radice identitaria. Manca il primato della politica, che è oggi ridotta ad attività di sensali parassitari dell’economia, per cui l’autorappresentazione di una classe nella politica, quale è stato il fascismo, è impensabile. Mentre il capo di allora, il Duce, aveva un seguito di massa in quanto percepito, nell’ottica del cesarismo, come la guida infallibile della nazione al di sopra dei comuni mortali, il capo di oggi è percepito dai comuni mortali come uno di loro, connotato dalla loro stessa meschinità, che ha riscattato in virtù dei grandi successi ottenuti con la sua furbizia, così riscattandola in loro.
Un capo simile (della cui immagine ideale, s’intende, l’uomo politico Silvio Berlusconi è solo una delle realizzazioni possibili) non potrebbe mai irregimentare gli italiani in un ordine guerriero, né, tanto meno, potrebbe far loro affrontare una guerra vera, come fece il fascismo. Il suo governo potrebbe certo suscitare violenza contro le sempre più ampie sacche di emarginazione prodotte dalla sua politica, ma non potrebbe esercitarla sotto forma di bastonature squadristiche e condanne di tribunali speciali nei confronti di una dissidenza politica borghese.
Un altro aspetto dal quale si percepisce la differenza fra l’attuale situazione italiana e il fascismo è quello legato al ruolo della Lega Nord. È fin troppo facile, infatti, rilevare che l’importanza, per la politica berlusconiana, di un partito anti-italiano come la Lega Nord fa a pugni con ogni pretesa di assimilare il berlusconismo ad un movimento nazionalista come il fascismo.
La rilevanza della Lega Nord va compresa e valutata attentamente. Si tende infatti, specie negli ambienti intellettuali, a sottovalutare la sua azione in senso lato culturale, e a prenderla in considerazione solo sul piano politico, per via degli evidenti aspetti di rozzezza, incultura, grossolanità intellettuale ed umana dei suoi esponenti, a tutti i livelli. Ma la storia è fatta anche dagli incolti, rozzi e grossolani. Ciò che la Lega Nord sta realmente facendo, con le sue manifestazioni “culturali” (nel senso che alla parola dà l’antropologia) è quello di creare e diffondere un nuovo senso comune, basato sulla chiusura in piccoli orizzonti e piccole comunità, sull’esclusione di chiunque sia percepito esterno alla comunità (compresi, per esempio, i portatori di handicap), sulla creazione di capri espiatori, sulla legittimazione (per il momento soltanto verbale) della violenza.
Il fatto che contenuti di questo tipo siano agiti ripetutamente in parole, slogan, discorsi, manifestazioni, e rappresentino ormai un aspetto permanente della vita politica del paese, crea appunto legittimazione di un senso comune che ne faccia il proprio fondamento. Questo senso comune, con la sua carica di violenza ed esclusione, è in sostanza una delle premesse di una possibile guerra civile e di una conseguente dissoluzione del paese. Pur avendo molti aspetti in comune col fascismo, il carattere localistico e anti-nazionale del leghismo lo rende lontanissimo da quello.
4. Una breve considerazione sul nazismo
Nella sezione precedente abbiamo delineato alcuni caratteri generali dei fascismi europei e ci siamo soffermati in particolare sul fascismo italiano. Non è nostra intenzione analizzare qui le differenze specifiche fra i vari fascismi. Ci sembra però importante, per la rilevanza del tema, sottolineare rapidamente un aspetto secondo noi fondamentale dell’altra grande realizzazione storica del fascismo europeo, cioè il nazismo.
Noi interpretiamo il nazismo come il punto culminante della fase imperialistica della storia dei paesi occidentali. Il nazismo è una forma di totalitarismo politico, e presenta quindi gli stessi caratteri che abbiamo sopra descritti in riferimento al fascismo, ma nel caso del nazismo la forma totalitaria ha come suo contenuto principale ed essenziale l’imperialismo.
L’imperialismo naturalmente nasce prima del nazismo, nasce dalla realtà politica ed economica dell’Europa del secondo Ottocento, che ovviamente non ha nulla di totalitario. Esso rappresenta però un momento di crisi di tale realtà, una crisi che può essere definita come crisi della civiltà occidentale, perché, pur nascendo come effetto di dinamiche ad essa interne, l’imperialismo implica necessariamente l’adesione a opzioni politiche e ideali, come il colonialismo e il razzismo, che sono in contraddizione con i valori fondanti della civiltà occidentale [4].
L’imperialismo è quindi uno dei due poli di una contraddizione la cui dinamica agisce nella parte finale del XIX secolo e in buona parte del XX. Vogliamo dire con questo che i valori fondanti della civiltà occidentale (la libertà individuale, i diritti umani, i diritti dei popoli, e così via), così brutalmente negati dalle politiche imperialistiche occidentali, non rappresentavano solo una copertura ipocrita di quelle stesse politiche (il che non vuol dire, naturalmente, che essi non abbiano svolto anche questa funzione): rappresentavano un punto di riferimento per chi a quelle pratiche si opponeva, una sorgente continua di forze spirituali di contrasto all’imperialismo, insomma l’altro polo di una contraddizione che ha agito storicamente.
Gli esempi di come quei valori di libertà si siano concretizzati in realtà storico-politiche sono innumerevoli: si può pensare al movimento di opinione pubblica internazionale che già all’inizio del Novecento combatte lo sfruttamento brutale e omicida al quale viene sottoposto il Congo belga, oppure a come il pensiero di Lenin faccia proprio il principio, tipico della civiltà occidentale, dell’autodeterminazione dei popoli, e come su questa base il movimento comunista internazionale sostenga poi le lotte di liberazione dei popoli colonizzati, o infine a come, nel secondo dopoguerra, tali lotte di liberazione suscitino nei paesi occidentali ampi movimenti di opinione pubblica a loro sostegno.
Ma il punto in cui questa effettualità storica dei principi della civiltà occidentale si vede più chiaramente sta forse nel fatto che le lotte di liberazione che, nel secondo dopoguerra, portano alla fine degli imperi coloniali, avvengono proprio sulla base di principi ideali e riferimenti culturali tipici della civiltà occidentale, o da essa derivati: i gruppi dirigenti di tali lotte si ispirano in sostanza o a forme di nazionalismo rivoluzionario o a forme di marxismo rivoluzionario, o a una miscela dei due (anche se il marxismo non è interno alla civiltà occidentale, ne è comunque un suo figlio, ribelle ma legittimo).
A questo punto possiamo allora capire in che senso il nazismo rappresenta il punto culminante dell’imperialismo: nel senso che il nazismo risolve la contraddizione fra imperialismo, colonialismo e razzismo da una parte, e principi della civiltà occidentale dall’altra, e la risolve sopprimendo il secondo corno della contraddizione. La Germania nazista rappresenta l’esempio perfetto di uno Stato che assume compiutamente la dimensione dell’imperialismo, del colonialismo e del razzismo come proprio fondamento e per far ciò sopprime integralmente i principi della civiltà occidentale.
Nel nazismo i principi dell’imperialismo, del colonialismo e del razzismo diventano principi universali. Si potrebbe in questo senso parlare del nazismo come di una forma di “imperialismo assoluto”: una ideologia, una politica, una forma di organizzazione sociale che si sforza di dispiegare integralmente e compiutamente nella società umana i principi dell’imperialismo, del colonialismo e del razzismo e di rimuovere ogni possibile ostacolo a tale dispiegamento. Di conseguenza, il nazismo non ha nessuna remora a ridurre a colonia l’intera Europa sotto il suo dominio e a trattare i popoli europei nello stesso modo in cui questi hanno trattato i popoli coloniali, rendendo chiaro anche agli europei l’orrore del colonialismo.
La guerra antinazista per necessità oggettiva è una guerra che delegittima il colonialismo e l’imperialismo. La vittoria contro il nazismo è quindi la vittoria contro il gravissimo pericolo di regressione umana e civile che il suo imperialismo assoluto rappresentava, è la vittoria dei quei principi della civiltà occidentale (libertà degli individui e dei popoli) che rappresentano valori umani universali. Non a caso, è con la fine della Seconda Guerra Mondiale che si avvia il processo di decolonizzazione che porterà alla fine degli imperi coloniali di Francia e Inghilterra.
[continua qui]
[3] Questi primi due contenuti separano in maniera netta il totalitarismo fascista da quello comunista.
[4] Ci riferiamo qui alla nozione di “civiltà occidentale” che abbiamo analizzato in M.Badiale, M. Bontempelli, Civiltà occidentale, Il Canneto 2010.
Fonte: badiale-tringali.it
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