Un saggio su fascismo e antifascismo (1a parte)
di MARINO BADIALE e MASSIMO BONTEMPELLI
1. Introduzione
L’autunno del 2010 verrà ricordato come l’inizio dell’autunno o del tramonto di Berlusconi. Il segnale più evidente di questo tramonto è forse l’attacco che i giornali da lui dipendenti hanno sferrato, all’inizio di ottobre, contro Emma Marcegaglia, presidente della Confindustria. Si tratta evidentemente di una mossa disperata, dovuta all’incapacità da parte di Berlusconi di gestire i problemi e gli scontri interni ai ceti dominanti italiani. È del tutto ovvio che egli non può permettersi, senza minare le basi del suo potere, di attaccare i poteri rappresentati dalla Confindustria, e di portare lo scompiglio e l’insicurezza fra gli stessi vertici del potere reale nel nostro paese.
Il ciclo degli ultimi quindici anni della vita italiana, dominato, sul piano dell’immaginario diffuso, dalla “discesa in campo” di Berlusconi e dall’antiberlusconismo delle sinistre, ha segnato lo sprofondare del nostro paese in una declino sociale, civile e morale che si è tradotto in una ulteriore perdita di diritti dei lavoratori, in un costante abbassamento del reddito reale dei ceti medi e bassi, nella disgregazione del tessuto connettivo del paese, nel diffondersi della corruzione, nel controllo da parte della criminalità organizzata di vaste zone del territorio nazionale. Si tratta di fenomeni che stanno ormai mettendo in pericolo la coesione sociale e l’unità politica del paese.
Chi voglia opporsi a questa decadenza deve elaborare una interpretazione chiara e convincente di quanto sta accadendo, e noi intendiamo cominciare. Nel fare questo tenteremo di rispondere a tre domande. La prima: Berlusconi rappresenta un effettivo pericolo per la democrazia? È possibile cioè che, di fronte alla prospettiva della propria definitiva sconfitta, Berlusconi tenti la carta di una eversione della democrazia? La seconda: se si ammette il pericolo di una “dittatura berlusconiana”, ha senso allora parlare del berlusconismo come di una forma di fascismo? E infine ha senso, per combattere un tale “fascismo berlusconiano”, proporre lo schema dell’unità antifascista fra tutte le forze che si oppongono a Berlusconi? Si tratta, come è evidente, di domande alle quali è necessario rispondere se si vuole elaborare una strategia politica che blocchi la decadenza del nostro paese e allontani lo spettro della dissoluzione politica, sociale e morale della nazione italiana.
Per chiarezza, anticipiamo subito le nostre risposte a queste tre domande. In primo luogo, riteniamo che Berlusconi rappresenti davvero un pericolo per la democrazia, e che la possibilità di una “dittatura berlusconiana” non sia esclusa. In secondo luogo, riteniamo che tale dittatura non avrebbe nulla di “fascista”, e che non avrebbe quindi senso proporre lo schema dell’unità antifascista contro di esso. Nel seguito cercheremo di argomentare queste tesi.
2. Feudalità criminale
La realtà sociale e politica dell’Italia di oggi è espressione di fenomeni generali che fanno parte della fase attuale del capitalismo, ma possiede anche una sua specificità, legata sia ad aspetti storici di lunga durata sia alle dinamiche politiche degli ultimi anni. Volendo descrivere alcune di queste caratteristiche generali del mondo contemporaneo, abbiamo in passato usato le espressioni “capitalismo assoluto” o “totalitarismo capitalistico”[1]. Con esse intendiamo indicare il fatto che il rapporto sociale capitalistico è divenuto “assoluto”, cioè non ammette più nessuna (relativa) autonomia di istituzioni non economiche. Lo Stato diventa un’azienda, gli ospedali e le scuole diventano aziende, le stesse più intime relazioni umane devono venir gestite in termini “aziendali”.
Questo totalitarismo ha come ovvio effetto lo svuotamento di ogni senso della politica. Se ogni decisione sull’economia è imposta dai mercati e tolta alla politica, quest’ultima si riduce ad una attività vacua e autoreferenziale. E questo è esattamente quello che succede: in tutto il mondo del capitalismo avanzato il ceto politico tende a non incidere minimamente sulla realtà sociale, che è abbandonata alle dinamiche dell’economia capitalistica. La politica in sostanza deve solo garantire la dinamica economica da ogni interferenza contraria, e raggiunge questo risultato appunto con la propria autoreferenzialità che la rende impermeabile alle sofferenze e ai conflitti che la dinamica economica fa sorgere nella società. In cambio di questa garanzia il ceto politico può vivere parassitariamente a spese della ricchezza sociale.
Questa configurazione della realtà sociale vale per tutto il mondo occidentale. Ad essa si aggiungono però, in Italia, quelle specificità alle quali abbiamo sopra accennato. Per comprenderle, occorre partire dal fatto che in Italia vi è una tradizione storica per la quale la politica è una forma abbastanza diffusa di sbocco occupazionale dei ceti medi. Le origini di questa particolarità storica andrebbero probabilmente ricercate nel modo stesso in cui si è sviluppato in Italia il capitalismo industriale, con un forte intervento statale, ma per non andare così lontano basterà ricordare come questo aspetto della politica in Italia sia stato molto visibile durante il fascismo: Mussolini riuscì infatti a neutralizzare gli aspetti più eversivi del movimento fascista, e a fare del Partito fascista una semplice cassa di risonanza propagandistica della sua gestione per via burocratica dello Stato, grazie alla trasformazione dei quadri fascisti in funzionari stipendiati di enti statali o dello stesso Partito Nazionale Fascista.
Se nell’immediato dopoguerra questo processo conosce una battuta d’arresto, perché il ceto politico emerso dalla Resistenza esprime una cultura diversa, esso però riprende rapidamente con la creazione degli apparati dei vari partiti di massa. L’episodio emblematico di tale processo è lo scontro che nella DC, poco prima della morta di De Gasperi, vede protagonisti lo stesso De Gasperi e Fanfani. Quest’ultimo vuole in sostanza che il partito si crei una base elettorale indipendente dalla Chiesa, e per questo ha bisogno di un ceto di funzionari stipendiati che viene creato sfruttando le risorse occupazionali dell’amministrazione pubblica. Gli altri partiti di massa della Prima Repubblica imiteranno il modello democristiano.
A partire da queste premesse, attraverso una dinamica storica che sarebbe troppo lungo ricostruire qui, siamo arrivati alla situazione attuale, nella quale il ceto politico italiano appare come uno dei più estesi, dei più corrotti e dei più rapaci dell’intero mondo occidentale. Questo particolare fenomeno si deve alla sostanziale impunità di cui la corruzione politica ha potuto godere in Italia, con l’eccezione di pochi casi isolati e del momento storico di Mani Pulite. Le ragioni di questa sostanziale impunità stanno probabilmente in aspetti “di lunga durata” dell’Italia, che da molto tempo sono stati indicati all’attenzione pubblica (mancanza di senso dello Stato, “familismo amorale”).
Il punto che qui vogliamo sottolineare è che, in presenza di una occupazione delle strutture pubbliche da parte dei partiti, la sostanziale impunità della corruzione genera un ceto politico che si espande sempre di più. Infatti, in mancanza di repressione dei comportamenti illegali, la forza di cui ciascun politico dispone nelle lotte per il potere è direttamente proporzionale alle dimensioni delle propria corte di clienti. Il progressivo estendersi di queste corti clientelari, dovuto anche al progressivo venire meno, in larga parte dell’opinione pubblica, di ogni tipo di resistenza alla corruzione generalizzata, crea alla fine un problema di risorse.
Le stesse risorse statali diventano insufficienti e il ceto politico, per finanziarsi, si introduce nel mondo dell’economia, non ovviamente per dirigerla o indirizzarla (il che sarebbe in contrasto, come dicevamo all’inizio, con la natura stessa della politica contemporanea), ma per diventare mediatore d’affari e lucrare guadagni. Questo avviene in tanti modi diversi, per esempio grazie al controllo del territorio di cui dispone il politico e al fatto che è necessaria la sua mediazione per mettere in opera progetti di costruzioni di un tipo o dell’altro, oppure grazie alla possibilità per il politico di far saltare agli imprenditori “amici” le lungaggini burocratiche effettivamente presenti in Italia. Il fenomeno Berlusconi si inserisce in questa dinamica e ne rappresenta la summa perfetta.
La sostanza del “fenomeno Berlusconi” ci sembra infatti la seguente: Berlusconi è riuscito a scalare tutti i gradini del potere economico e politico perché ha saputo trarre decisivi vantaggi competitivi da una sistematica e sfacciata violazione di ogni regola esistente. Negli anni Sessanta era soltanto un palazzinaro di modeste risorse, a cui spesso difettavano i denari da investire in nuove costruzioni. Benché partito da questa modesta base economica, negli anni Settanta è diventato il più grande imprenditore edile milanese, perché non ha rispettato quasi nessuna regola dell’attività edilizia legale, e perché i suoi cantieri hanno veicolato capitali della mafia siciliana.
Berlusconi non era un mafioso, ed all’inizio è stato piuttosto ricattato dalla mafia palermitana dei Bontade, ma questo rende ancora più significativo il fatto che egli si sia affermato violando le regole, perché lo ha fatto sfruttando una situazione esistente che gli consentiva di farlo. Negli anni Ottanta è diventato il più grande imprenditore televisivo italiano perché ha violato le regole allora esistenti sull’emittenza televisiva, sancite addirittura da una sentenza della Corte Costituzionale del 1976. Anche in questo caso, lo ha fatto perché poteva farlo, in quanto era protetto dal governo sfacciatamente corrotto di Bettino Craxi, al quale in cambio offriva il sostegno delle sue televisioni.
Negli anni Novanta, prima ancora di presentarsi alle elezioni con un suo partito, ha manovrato grandi risorse finanziarie (senza le quali non avrebbe potuto primeggiare anche in politica) grazie a molteplici illeciti finanziari e a massicce evasioni fiscali, sfruttando la nota tolleranza dello Stato italiano verso gli evasori. L’intera vicenda mostra che Berlusconi non è l’uomo che ha inventato i mali italiani, ma è quello che ha saputo trarne il massimo vantaggio, e che, di conseguenza, ha contribuito ad aggravarli e diffonderli. Berlusconi, in altre parole, è emerso ai vertici del potere italiano sull’onda di un preesistente e contestuale sviluppo, nel nostro paese, di un “capitalismo mafioso” associato ad uno Stato debole. Parliamo di capitalismo mafioso non nel senso stretto della parola, cioè di un capitalismo i cui capitali provengano dai guadagni delle attività della criminalità organizzata, ma in un senso più lato e significativo.
Può considerarsi mafioso un capitalismo predatorio di risorse pubbliche, di cui ci si appropri, al di fuori di ogni regola pubblica, uscendo vittoriosi dagli scontri tra contrapposti interessi privati. Per il capitalismo mafioso così inteso è essenziale un controllo sulla politica, per controllare la concessione degli appalti e l’erogazione della spesa pubblica. Ciò presuppone, a sua volta, uno Stato debole, dove per “debole” si intende qui politicamente incapace di dettare e far rispettare regole generali che disciplinino il perseguimento degli interessi economici particolari.
L’egemonia politica di Berlusconi è quindi stata espressione dell’ascesa al potere di una serie di potentati affaristici interni al capitalismo mafioso nell’accezione suddetta. Alla luce di questo contesto dell’egemonia politica di Berlusconi, appare chiaro il motivo profondo del suo attuale tramonto. Nessun regime istituzionale, infatti, può reggersi di fronte alla violazione totale e sistematica di ogni vincolo di natura pubblica. Ogni regime conosce fenomeni più o meno estesi di illegalismo rispetto ai suoi propri principi di legalità. Se però l’arbitrio dei suoi poteri diventa l’unico principio regolatore dei rapporti economici e sociali, l’organizzazione sociale e politica si sfalda alla fine, necessariamente, in una arena di feudi affaristico-criminali in reciproco conflitto almeno potenziale.
Il capitalismo mafioso, inteso nel senso lato sopra indicati, si evolve quindi in una sorta di feudalesimo criminale. La realtà dei ceti dominanti oggi in Italia, al tramonto di Berlusconi, si presenta quindi come una labile confederazione di potentati politico-imprenditoriali, in continua lotta per le risorse da accaparrare. Il sostanziale illegalismo di questi potentati esprime il carattere fortemente instabile della situazione. Un rispetto (sempre parziale e relativo) della legalità significa infatti, per i ceti dominanti, la protezione dagli effetti altrimenti devastanti dei loro conflitti. L’illegalismo significa che nessuna regola è rispettata e in questa situazione nessuna configurazione del potere può essere protetta.
Tutto ciò crea per la democrazia italiana un pericolo di tipo nuovo. L’insieme di questo mondo della corruzione politico-imprenditoriale ha bisogno di un potere politico che renda intoccabile la corruzione rendendo inoffensive e inoperanti le varie forme di controllo di legalità degli atti sociali. Poiché questo non si può fare all’interno del quadro delle regole di uno Stato di diritto, appare evidente che il mondo della corruzione politico-imprenditoriale rappresenta la base sociale di una possibile dittatura.
Le caratteristiche di questa dittatura sarebbero naturalmente diverse da quelle delle dittature del Novecento. Invece di attivizzare le masse inquadrandole nei ranghi del Partito-Stato, la nuova dittatura cercherebbe la completa riduzione dei cittadini a fruitori passivi dello Spettacolo. E l’obiettivo unificante di una tale dittatura non sarebbe né la gloria della Nazione né la Rivoluzione Proletaria, ma l’abbattimento di tutti i poteri di controllo sulla corruzione dei potenti. Si tratterebbe inoltre, come abbiamo accennato sopra, di una dittatura poco stabile, perché basata su potentati in feroce lotta fra di loro per le risorse. Una tale dittatura non verrebbe realizzata attraverso una presa violenta del potere (la marcia su Roma), ma attraverso lo stravolgimento del normale funzionamento dei meccanismi istituzionali.
La Costituzione della Repubblica Italiana prevede infatti, come tutte le Costituzioni liberaldemocratiche, meccanismi di controllo che impediscono ad una maggioranza governativa di eccedere i limiti stabiliti del proprio potere e di conculcare i diritti della minoranza e dei cittadini in genere. Si tratta dei meccanismi che oggi vengono comunemente indicati con la formula inglese dei checks and balances.
Il punto è che nella nostra Costituzione tali meccanismi sono strettamente collegati al fatto che i Padri costituenti avevano immaginato per l’Italia un meccanismo elettorale di tipo proporzionale, nel quale quindi un singolo partito aveva scarse possibilità di conquistare larghe maggioranze. Dato questo punto di partenza, la principale forma di controllo inserita nella nostra Costituzione è legata al fatto che una serie di meccanismi cruciali per l’equilibrio istituzionale (elezione del Presidente della Repubblica, cambiamenti della Costituzione), richiedono larghe maggioranze e quindi, all’interno di un meccanismo di voto proporzionale, richiedono l’accordo fra forze diverse, rendendo quindi difficile che la singola forza politica possa occupare tutti questi punti nevralgici.
Lo stravolgimento del sistema elettorale italiano, con l’abolizione del meccanismo proporzionale, ha eliminato questi delicati meccanismi di controllo, rendendo quindi possibile uno stravolgimento della Costituzione operato senza formalmente trasgredirla. Si può infatti pensare ad una elezione che venga largamente vinta da Berlusconi e che dia vita ad un Parlamento largamente sotto il suo controllo, che lo elegga Presidente della Repubblica e che gli sottometta la maggioranza dei giudici della Corte Costituzionale. In tale situazione il Parlamento potrebbe votare qualsiasi legge che stravolga totalmente la nostra Costituzione ed essa verrebbe approvata sia dal Presidente della Repubblica sia dalla Corte Costituzionale. Esiste la possibilità che Berlusconi diventi il dittatore di una tale dittatura.
Non è lo scenario secondo noi più probabile, nella situazione odierna (autunno 2010). E’ infatti evidente che i ceti dominanti italiani hanno deciso di liberarsi del personaggio Berlusconi, ed è pure evidente che egli non gode dell’appoggio degli Stati Uniti, che hanno sempre giudicato negativamente i suoi rapporti con la Russia di Putin. Pur non essendo l’eventualità più probabile, la dittatura berlusconiana è comunque una possibilità. Berlusconi si trova infatti in una situazione nella quale non esiste per lui alternativa tra una discesa nella rovina politica e personale e un’ascesa all’esercizio di una dittatura di fatto. E’ ovvio come in una tale situazione tutti i suoi comportamenti pubblici siano suscitati da una pulsione incoercibile a stravolgere ogni regola costituzionale che si frapponga come ostacolo all’ascesa. Se tale stravolgimento fosse portato a compimento, ci ritroveremmo nella situazione appena indicata, con quest’uomo superficiale, vacuo, privo di ogni base culturale e senso dello Stato, nell’alto seggio di Presidente della Repubblica, circondato da un parlamento con una maggioranza disposta a fare tutte le leggi da lui volute, e da una Corte Costituzionale riempita di membri da lui dipendenti, e mai disposta, quindi, ad abrogare le sue leggi anche se palesemente incostituzionali.
La situazione attuale di Berlusconi mostra una certa analogia con quella di Mussolini nel ’24, all’indomani dell’omicidio Matteotti. Anche in quel caso, vi erano evidenti segni di un inizio di sfaldamento del partito di regime, con passaggi all’opposizione di diversi suoi esponenti. Anche in quel caso, la tensione politica era accentuata da problemi giudiziari del capo del governo (Mussolini aveva ricevuto tangenti dalla ditta petrolifera Sinclair Oil, una controllata della Standard Oil). Anche in quel caso, in sostanza, il capo del governo si trovava costretto alla scelta fra la rovina politica e personale e l’abbattimento delle regole democratiche con conseguente creazione di una dittatura personale.
Sappiamo come finirono le cose allora. Oggi, l’unico esito che potrebbe salvare Berlusconi sarebbe la creazione di una dittatura, nelle forme sopra indicate. Una simile dittatura sarebbe nata da, e si eserciterebbe su, una società eticamente collassata, tenuta insieme dai circuiti del consumismo e dello spettacolo, con una parte della popolazione sempre più privata di lavori, redditi, consumi e servizi, e quindi sempre più marginalizzata dai processi sociali e ridotta ad elemento della loro disgregazione, ed un’altra parte della popolazione capace di ottenere e consumare risorse attraverso meccanismi corruttivi.
La questione di fondo per chi voglia combattere contro la dissoluzione dell’Italia sta però in questo: anche se l’eventualità di una dittatura berlusconiana non dovesse verificarsi, e Berlusconi fosse costretto a uscire di scena in un modo o nell’altro (e questo, ripetiamo, è ciò che riteniamo più probabile), il sistema di feudalesimo criminale che ha portato al potere Berlusconi non verrebbe intaccato, e il pericolo che esso rappresenta per l’Italia non verrebbe scalfito. Dall’analisi che abbiamo sopra svolto si possono infatti trarre precise indicazioni per il futuro, che sono le seguenti.
In primo luogo, la fine dell’egemonia politica di Berlusconi non rappresenterà alcun indebolimento di quel capitalismo mafioso su cui la sua egemonia è stata costruita. Le forze sociali costitutive del berlusconismo rimarranno forti ed operanti come prima.
In secondo luogo, le tensioni interne al capitalismo mafioso che sono all’origine del tramonto di Berlusconi non verranno attenuate, ma si riproporranno addirittura accentuate, sia per il crescente morso della crisi economica, sia per l’uscita di scena di Berlusconi. Fino ad ora, infatti, tali tensioni sono state attenuate proprio perché si sono trasferite sul personaggio Berlusconi, creando l’illusione prima che potessero essere regolate in maniera soddisfacente dal suo potere arbitrale, poi, che, rimosso Berlusconi, sparirebbero diversi problemi creati soltanto dai suoi interessi personali. Naturalmente non sarà così. Dopo Berlusconi continueranno come prima, ed anzi più di prima, gli scontri fra cordate affaristico-mafiose prive delle risorse con cui soddisfare la fame di tutte, e tra gruppi sociali sempre più estesi investiti dal malessere sociale. Assisteremo ad uno sgranarsi di episodi di guerra civile strisciante, non tra partiti o ideologie, ma tra gruppi sociali e territoriali.
In terzo luogo, i governi che succederanno a quelli di Berlusconi potranno essere molto più decenti e presentabili sul piano interno e internazionale. Il loro modo di operare all’interno dei palazzi del potere sarà certamente meno scorretto, sguaiato e indecente di quello dei ministri dell’epoca berlusconiana. Tuttavia non saranno assolutamente in grado, per ragioni che qui sotto molto succintamente esponiamo, di contrastare la virulenza e la proliferazione del capitalismo mafioso che sta divorando l’Italia, e quindi di arrestare i processi di decadenza civile e sociale del paese.
L’errore più grave che si possa commettere in questa situazione è infatti quello di considerare ragionevole che forze interne all’attuale ceto politico possano, dopo aver scalzato Berlusconi, invertire l’attuale tendenza alla decadenza. Si tratta di un’illusione ottica creata da una forte e naturale pressione emotiva: cosa può esserci di peggio di un Berlusconi che capovolge la situazione e riconquista governo e maggioranza? Cosa ci può essere di più orrendo di una maggioranza parlamentare che elegga Berlusconi Presidente della Repubblica, e quindi “custode e garante” della Costituzione? Cosa ci può essere di più pericoloso di una dittatura berlusconiana sulla vita politica del paese? Questi esiti appaiono così ripugnanti ad ogni persona sensata da far pensare che valga la pena, pur di evitarli, di promuovere alla guida del governo persino capi politici come Bersani, Rutelli, Casini e Fini.
Chiunque, insomma, andrebbe bene purché Berlusconi uscisse dalla scena. Se ci si affida alla razionalità si può capire quanto questa impostazione sia sbagliata. Per comprenderlo facciamo un passo indietro nella storia di questo paese. Berlusconi ha conquistato la guida del governo una prima volta con le elezioni del marzo 1994, sull’onda di un sostegno popolare assai vasto, che aveva però il suo asse portante nelle forze e nelle capacità di influenza del capitalismo mafioso. Ciò nonostante il suo governo è durato soltanto dieci mesi, e nel 1995 l’evoluzione della vita politica italiana sembrava averlo messo definitivamente da parte.
Il suo ritorno alla guida del governo nel 2001, con maggiore stabilità e più penetranti poteri, è avvenuto perché negli anni Novanta il capitalismo mafioso si è rafforzato e maggiormente diramato nel paese. In quegli anni, però, non ha governato la destra, ma il centro-sinistra, con maggioranze estese fino a Rifondazione comunista. La logica implicazione di ciò è che i governi di centro-sinistra non hanno contrastato, ma anzi favorito, lo sviluppo delle forze sociali a cui Berlusconi apparteneva e da cui traeva sostegno. Sei anni di governi con maggioranze di centro-sinistra, dunque, hanno concimato il terreno per i successivi trionfi berlusconiani. Né è difficile trovare fatti che costituiscano prove decisive di ciò che abbiamo visto implicato dalla stessa logica dell’intera vicenda.
Secondo il senso comune di sinistra, uno dei migliori governi dell’epoca è stato quello diretto da Carlo Azeglio Ciampi. Non c’è dubbio che Ciampi sia una persona sobria ed individualmente per bene (lontanissimo dall’indecenza dei “berluscones”), e tuttavia è stata la sua legge bancaria, emanata con decreto legislativo del 1° settembre 1993, ad aprire alle banche le praterie delle acquisizioni azionarie di società industriali e delle speculazioni finanziarie, fornendo così un alimento decisivo allo sviluppo del capitalismo mafioso. Ed è stato il decreto-legge di Ciampi del 24 settembre 1993 a sancire che per le privatizzazioni che stavano per essere avviate non dovessero valere le regole della contabilità generale dello Stato, aprendo la strada alle svendite sottocosto e corruttive dei beni pubblici. Grazie a questa legge l’IRI di Romano Prodi ha potuto consegnare a prezzi irrisori, alla fine del 1993, una delle maggiori banche pubbliche italiane, il Credito Italiano, a una cordata di finanzieri italiani e stranieri (che l’hanno pagata in parte con danaro prelevato dalla banca stessa), dando così una spinta decisiva ad una finanziarizzazione dell’economia funzionale allo sviluppo del capitalismo mafioso.
Il primo governo Prodi, uscito dalle elezioni del 1996, che nel senso comune della sinistra passa come uno dei migliori governi dell’ultimo ventennio, ha dato il massimo impulso alla finanziarizzazione dell’economia ed al capitalismo mafioso con la sciagurata privatizzazione della STET nel 1997, senza la quale non avrebbe potuto verificarsi, anni dopo, il saccheggio della Telecom da parte di Tronchetti Provera, e l’uso della Telecom stessa per finalità illecite. Naturalmente ognuno di questi punti, e diversi altri ancora, andrebbero analizzati più in dettaglio, cosa che qui non è sensato fare [2].
Quel che vogliamo dire è che l’epoca dei governi del centro-sinistra degli anni Novanta non ha favorito la rinascita di Berlusconi soltanto in quelli che sono considerati dall’opinione pubblica di sinistra i suoi “errori” (il non aver affrontato la questione del conflitto d’interessi di Berlusconi ed averlo legittimato come padre costituente nella Bicamerale di D’Alema), ma l’ha favorita anche e soprattutto con tante scelte di promozione del capitalismo mafioso che quell’opinione pubblica di centrosinistra ha voluto dimenticare. Berlusconi, sconfitto alle elezioni del 2006, è tornato al governo più prepotente di prima dopo altri due anni di governo Prodi.
Insomma, ogni volta che ha governato il centro-sinistra, non ha fatto che preparare la strada al ritorno di una destra ancora più incarognita. Tutto ciò dipende dal fatto che il ceto politico di centro-sinistra non ha, per ragioni che tra poco diciamo, i mezzi culturali, le competenze, e le intenzioni concrete, di modificare le linee di tendenza dello sviluppo socio-economico. Ma se queste tendenze non vengono modificate, l’Italia non può che precipitare sempre più nel baratro. In maniera del tutto indipendente dal fatto che chi la dirige sia una personalità indecente come Berlusconi, o una personalità più o meno presentabile o addirittura soggettivamente in buona fede.
La lotta contro Berlusconi è inutile se non pone al centro dell’agenda la bonifica del terreno da cui nasce il berlusconismo, cioè il terreno della dilagante corruzione politico-imprenditoriale. Se non si bonifica questo terreno, l’eventuale caduta di Berlusconi non risolverà nulla, e i fenomeni degenerativi che ora associamo al nome di Berlusconi si riprodurranno in seguito a percorsi oggi imprevedibili.
Torniamo alla situazione del nostro paese. L’Italia sta precipitando in un baratro spaventoso perché disfatta da un triplice collasso: della sua coesione sociale (crescenti ineguaglianze di reddito, devastante precarizzazione del lavoro e della vita, assenza di tutele sociali), del suo territorio (inquinamento dell’aria, dei suoli e delle acque, dissesto idrogeologico, invasione dei rifiuti), e della sua vita civile (corruzione generalizzata e capillare, giustizia lenta e costosa, mancanza di senso morale nelle relazioni sociali, inversione tra meriti e demeriti).
L’esito più probabile di futuri governi (siano essi governi ancora berlusconiani oppure no) sarà, quindi, un caos sempre più accentuato e la deriva del paese, magari più lenta, verso la condizione di una specie di Somalia più sviluppata e meno insanguinata. Sicuramente non è questo l’esito gradito ai poteri che si sono ora orientati a scalzare Berlusconi ed a favorirne la successione. Per tali poteri, però, l’unica opzione confacente ai propri interessi, e praticabile di fronte all’attuale crisi economica, è quella di salvare se stessi e abbandonare i ceti medi e bassi alla devastazione sociale. Al di là delle loro intenzioni, quindi, essi produrranno tale esito.
Su un periodo più lungo, questa opzione non potrà essere gestita all’interno delle forme istituzionali, anche soltanto esteriori, che hanno contrassegnato l’Italia del secondo dopoguerra. Lo sbocco finale di questa strada, se fosse percorsa per intero, sarebbe quindi uno stravolgimento autoritario che farebbe passare l’Italia da una specie di Somalia ad una specie di Cina, dove un potere forte verso i deboli e gerarchicamente coeso al suo interno, impone regole limitatrici degli scontri di potere ai vertici, e promotrici di uno sfruttamento feroce delle classi lavoratrici. In sostanza, se non interviene una decisa rivolta del popolo italiano contro gli attuali ceti dominanti, le uniche prospettive che abbiamo di fronte sono, nel breve periodo, quella di una dittatura berlusconiana da una parte e di governi antiberlusconiani, ma incapaci di arrestare la decadenza del paese, dall’altra.
Nel medio-lungo periodo entrambe queste opzioni porteranno, per strade diverse, ad una soluzione di tipo “cinese”. Lo scenario che abbiamo fin qui delineato è chiaramente uno scenario da incubo, nel quale viene messa in questione la stessa sopravvivenza della società italiana. Ma questo incubo non è fascismo. Per capire questo punto, e discutere le altre questioni di cui abbiamo accennato all’inizio, dobbiamo adesso discutere cosa debba intendersi per fascismo.
[continua qui]
[1] Si veda per esempio M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, Massari 2007, in particolare alle pagine 169-175.
[2] Maggiori dettagli in M.Badiale, M.Bontempelli, La sinistra rivelata, cit.
Fonte: badiale-tringali.it, 29.3.2015
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