Un saggio su fascismo e antifascismo (3a parte)
di MARINO BADIALE e MASSIMO BONTEMPELLI
[segue da qui]
5. Che fare?
Dopo questo esame sulla natura del fascismo, riprendiamo l’esame della situazione italiana. La domanda naturale, a seguito delle analisi fin qui svolte, è naturalmente: che fare? Come opporsi al pericolo effettivo di dissoluzione della società italiana? Se tale pericolo fosse quello del fascismo, la risposta sarebbe chiara e dettata dalla storia: di fronte al pericolo fascista occorre una politica di unità antifascista, quel tipo di politica che ha permesso la lotta del CLN e il trionfo dell’antifascismo. È in sostanza questo il modello che viene continuamente richiamato da molti antiberlusconiani. Noi riteniamo che questo modello sia oggi del tutto inapplicabile.
Come l’attuale capitalismo feudal-criminale, del quale il berlusconismo è l’espressione più chiara, non è fascismo, così l’opposizione alle dinamiche distruttive di tale capitalismo non può definirsi antifascismo. Si può anzi affermare che nell’attuale fase storica l’antifascismo (in quanto, beninteso, pratica politica, e non assunto etico-culturale) non sia più attuale.
La tesi sull’esaurimento di senso politico, nella realtà contemporanea, dell’opposizione fascismo/antifascismo, si argomenta in maniera molto semplice. L’antifascismo è definito dall’essere opposizione e contrasto al fascismo e al nazismo. Ma il fascismo e il nazismo sono stati sconfitti nella Seconda Guerra Mondiale, e da allora non hanno più alcuna esistenza storicamente significativa. Non c’è, da più di sessant’anni, nessun fascismo da contrastare, e l’antifascismo non ha quindi nessun senso.
Le obiezioni a questa tesi possono assumere forme molto diverse, ma in sostanza si riducono a due: in primo luogo, si contesta l’assunto che oggi non esista più alcun fascismo storicamente rilevante. In secondo luogo, si obietta che difendere l’attualità dell’antifascismo significa in realtà difendere gli ideali che hanno ispirato la lotta antifascista e che sono depositati nella Costituzione Italiana. Per cui chi riconosce il valore di tali ideali (e fra questi vi sono gli autori di questo saggio) perciò stesso riconosce l’attualità e il valore dell’antifascismo. Esaminiamo allora queste due obiezioni.
La discussione sul fascismo svolta in precedenza ci permette di capire in che senso affermiamo che oggi non esiste nessun fascismo storicamente rilevante. Vogliamo dire che non esiste nessun movimento politico storicamente rilevante che si proponga un obiettivo di controllo politico totalitario della società diretto alla mobilitazione e attivizzazione permanente delle masse con lo scopo di coinvolgere le masse stesse in una attiva politica di conquiste imperialistiche.
Ovviamente, ci sono oggi fascisti e nazisti, ma si tratta di piccole realtà insignificanti. Nei casi in cui l’estremismo di destra è stato coinvolto in progetti eversivi si è sempre trattato di piccole realtà completamente subalterne a strategie organizzate e portate avanti da forze di tutt’altra natura. La risposta a questi dati di fatto, da parte di chi sostiene l’attualità dell’antifascismo, sta in sostanza in un cambiamento del significato dei termini, per cui si chiama “fascismo” ogni forza politica e ogni tendenza culturale che abbia in comune col fascismo propriamente detto alcune caratteristiche come la violenza, il rifiuto della democrazia e dell’universalità dei diritti umani, il maschilismo, il sospetto nei confronti della libertà della cultura e dell’elaborazione intellettuale.
Si tratta di una mossa abituale nella sinistra italiana, nella quale è sempre stata operante la comoda tendenza a qualificare come “fascista” chiunque esprimesse punti di vista diversi da quelli egemoni all’interno della sinistra stessa. Questa impostazione è chiaramente espressione di un errore logico, paragonabile a quello contenuto nel seguente pseudo-ragionamento: “tutti i salmoni sono pesci, quindi tutti i pesci sono salmoni”.
Se è chiaro l’errore contenuto nella frase appena enunciata, dovrebbe anche essere chiaro come un errore dello stesso tipo sia contenuto negli pseudo-ragionamenti di chi afferma che, poiché il fascismo attacca la democrazia, allora chi attacca la democrazia è fascista (per concludere magari che Berlusconi è fascista), e poiché il fascismo è violento, allora chi è violento è fascista, e poiché il fascismo è maschilista, allora chi è maschilista è fascista. Questo errore logico porta ad un sostanziale svuotamento della nozione di “fascismo”, ridotta ad una astrazione priva di determinazioni storiche.
L’altro argomento fondamentale di chi difende l’attualità politica dell’antifascismo sta, come si è detto, nel rivendicare l’attualità e il valore dei principi ideali che hanno ispirato la lotta antifascista. Questo argomento ha un nocciolo di verità (che è, appunto, il valore più che mai attuale dei principi emersi nella lotta antifascista e trasfusi nella nostra Costituzione), ma si può mostrare come anch’esso contenga un errore logico, dovuto in questo caso alla confusione di piani diversi.
È lo stesso errore che commetterebbe chi, volendo difendere il valore dell’unità italiana, si definisse oggi antiaustriaco, con la motivazione che storicamente l’unità d’Italia è stata ottenuta con la lotta contro l’Austria. L’errore sta nel confondere l’attualità di un certo insieme di valori ideali con la contingenza storica nella quale quei valori si sono concretamente affermati. È verissimo che in Italia alcuni valori fondamentali di libertà si sono storicamente affermati nella lotta antifascista, come è pure vero che il valore dell’unità italiana si è affermato nella lotta contro l’impero austroungarico. Ma da questo non ne discende che chi ritiene attuali i valori in questione debba dichiararsi antifascista o antiaustriaco.
L’attualità di un insieme di valori va difesa contro chi li minaccia, ma la minaccia può essere diversa nelle diverse fasi storiche. Così, chi oggi difende l’unità e la sovranità italiane si dichiarerà forse antileghista, forse antieuropeista, o forse qualcos’altro ancora: ma certamente non antiaustriaco. Allo stesso modo, chi difende i valori che hanno ispirato la lotta antifascista, e che sono stati depositati nella Costituzione italiana, deve difenderli contro chi li minaccia: ma poiché, come s’è detto, non c’è oggi nessun fascismo che minacci quei valori, non ha senso che chi in essi si riconosce basi la sua identità politica attuale sull’antifascismo.
Non è difficile indicare concretamente da dove vengono le minacce agli ideali che hanno animato la lotta contro il nazifascismo. Basta ricordare che si tratta dei valori fondamentali che si sono depositati nella nostra Costituzione: da una parte i diritti liberaldemocratici tipici della tradizione moderna dello Stato di diritto, dall’altra i diritti sociali rivendicati dalle lotte popolari e socialiste. Per cui nella nostra Costituzione compaiono da una parte la sovranità popolare e i diritti individuali, dall’altra, in varie forme, i principi della giustizia sociale e l’idea che l’economia deve svolgersi rispettando principi di coesione sociale. Ricordiamo infine il ripudio della guerra di aggressione, stabilito dall’art.11 della nostra Costituzione. Esso contiene un rifiuto dell’imperialismo, visto che quest’ultimo non può mai prescindere dall’uso o dalla minaccia dell’aggressione militare.
Poniamoci la domanda: da dove vengono oggi le minacce a questi valori? Abbiamo visto in questi ultimi decenni, in Italia e nei paesi occidentali, un attacco generalizzato alle conquiste che i lavoratori e in generale i ceti subalterni avevano ottenuto nella fase precedente, quella del trentennio seguito alla Seconda Guerra Mondiale. La direzione in cui si è mosso il nostro mondo, con velocità diverse a seconda dei luoghi e dei tempi, e in ogni caso accresciute dalla recente crisi economica, è quello del ritorno ad un crudele capitalismo disegualitario del tipo precedente appunto alla Seconda Guerra Mondiale.
Un altro fenomeno al quale abbiamo assistito negli ultimi decenni è quello del tentativo statunitense di consolidare la propria egemonia mondiale, sempre più debole sul piano strettamente economico, attraverso un rinnovato militarismo aggressivo, che ha coinvolto l’intero Occidente in guerre di aggressione. Questi due aspetti del mondo moderno sono in chiara contraddizione con gli ideali della lotta antifascista, depositati nella nostra Costituzione. Un altro fenomeno di questi decenni è l’emergere del problema ecologico. Si tratta di una tematica recente e quindi non presente nella Resistenza antifascista.
Possiamo però affermare che la lotta contro la distruzione ambientale è coerente con l’ispirazione che sta alla base della Costituzione e dei documenti fondamentali dell’ONU ispirati dalla lotta antifascista: la difesa della dignità umana e dei diritti dei popoli e dei gruppi oppressi implica in modo naturale la difesa dell’ambiente nel quale vivono gli esseri umani.
Infine, per quanto riguarda l’Italia, i fattori di crisi di civiltà che abbiamo fin qui elencato si innestano su antichi problemi del nostro paese (scarso senso dello Stato, sudditanza a potenze straniere, tolleranza verso illegalità e corruzione, per dirne solo alcuni) che non sono mai stati affrontati. L’effetto combinato delle dinamiche internazionali e dei difetti nazionali crea nel nostro paese una situazione di profonda disgregazione morale e civile nella quale gli attuali ceti dirigenti (politici ed economici) cercano solo il proprio tornaconto personale. Simbolo di tutto questo è l’oscena casta politica italiana.
La conseguenza di queste considerazioni è che chi voglia combattere in nome dei valori che furono della Resistenza antifascista deve combattere contro le dinamiche socioeconomiche dell’attuale capitalismo mondializzato, contro l’imperialismo statunitense, contro la casta politica italiana. Questi sono i nemici. Ha senso chiamare “fascismo” l’insieme di questi nemici? Evidentemente no. Il capitalismo di per sé non è fascista, e sicuramente gli USA non sono un paese fascista. Allo stesso modo, la classe dirigente italiana non è fascista, nella sua grandissima maggioranza, ma anzi proviene da partiti antifascisti. La conclusione è molto semplice: se la difesa dei valori che furono della Resistenza antifascista implica oggi il contrastare nemici che fascisti non sono, non ha senso che tale difesa si caratterizzi come “antifascista”.
6. L’unità antifascista
Un’azione di difesa del paese dal processo di dissoluzione incipiente non può quindi trovare fondamento nel modello dell’unità antifascista. Finora abbiamo portato gli argomenti teorici, vediamo adesso qualche ulteriore argomento più legato alla pratica politica.
La politica dell’unità antifascista è stata la politica giusta nella situazione storica degli anni Trenta e Quaranta. Questo fatto dipende però da quegli aspetti del fascismo che abbiamo sopra esaminato, in sostanza dal suo essere una forma di totalitarismo politico (per quanto non perfettamente realizzata). Il totalitarismo politico per definizione è un controllo totale di ogni forma di espressione politica. Ma allora chiunque esprima pubblicamente, in qualsiasi forma, il proprio antifascismo, sta già introducendo fessure nel monolite totalitario e quindi sta già rischiando di persona. È questo il fondamento dell’unità antifascista: tutti gli antifascisti possono unirsi, dai monarchici ai comunisti, perché ciascuno, per il semplice fatto di prendere posizione pubblica contro il regime, mette in crisi un elemento essenziale del regime stesso (il totalitarismo) e ciascuno per questo rischia la repressione.
Per dirla in un altro modo, in un regime di totalitarismo politico non si può essere critici interni al regime. Il totalitarismo impone che chi vuole fare politica deve scegliere: o la piena integrazione ai dettami del regime o l’opposizione aperta. Questo si può vedere confrontando le vicende di Galeazzo Ciano e Ivanoe Bonomi.
Dopo che l’alleanza fra Hitler e Mussolini è ormai acquisita, Ciano acquisisce la convinzione soggettiva che tale alleanza sia un clamoroso errore e decide di fare quanto è possibile per ostacolarla. Ma in pratica non può fare nulla: non può intervenire sulla stampa criticando le scelte politiche di Mussolini, non può esplicitamente discutere le proprie idee all’interno del partito, non può fare in sostanza nulla che Mussolini non voglia. La sua volontà di opposizione non può tradursi in azione politica. Ivanoe Bonomi, invece, tenta in vari momenti, negli anni Trenta, di condizionare Mussolini, e lo fa a partire da idee non dissimili da quelle di Ciano (in sostanza: sottrarre l’Italia all’alleanza con la Germania e alla guerra, accettare di dare spazio politico ad un antifascismo moderato). Ma poiché Bonomi fa, o tenta di fare, effettive azioni politiche, è immediatamente emarginato e di conseguenza spinto verso l’antifascismo vero e proprio.
Ripetiamo il punto essenziale: in un regime di totalitarismo politico, non si può essere un oppositore parziale, un critico interno. È questo a rendere efficace all’epoca la politica dell’unità antifascista: in un regime di totalitarismo politico la scelta di opporsi al governo è la scelta di opporsi al complesso del potere, ed è quindi tutto quello di cui c’è bisogno. Dovrebbe allora essere chiara la differenza con la situazione odierna.
Il regime di feudalesimo criminale che domina oggi in Italia non ha nulla di totalitario nella sfera politica. Si pensi, per capire la differenza, ai contrasti interni al PdL, che sono contrasti fra feudi di malaffare e corruzione contrapposti. Contrasti di questo tipo ve ne sono naturalmente anche nel fascismo e nel nazismo, ma qui essi sono costretti entro una corazza rigida: non è certo permesso a nessuno, nell’Italia o nella Germania degli anni Trenta, di separarsi dal PNF o dal NSDAP per formare un altro partito, per quanto alleato dei primi.
Lo stesso succede, naturalmente, in quell’altra forma di totalitarismo politico che è il regime staliniano: ai congressi dei Partiti Comunisti la relazione del Segretario è sempre approvata in maniera unanime, poi ognuno la interpreta come giudica più conveniente. Insomma, in tutti questi casi di totalitarismo politico vi è, al di sopra dei potentati in lotta, un arbitrato vincolante che invece nel PdL non c’è.
Proprio questa situazione mostra come manchino le basi per una politica di unità antifascista: il semplice dichiararsi oppositore di Berlusconi non mette in questione l’attuale regime, a differenza dell’epoca fascista, quando dichiararsi oppositore di Mussolini significava già contrapporsi al regime allora esistente. Al tempo del fascismo anche un oppositore liberale moderato è fuori del sistema, nel nostro tempo del feudalesimo criminale garantito dalla Casta politica anche un Vendola è interno al sistema.
Che cosa si ricava da questa differenza? Che oggi pensare all’unità antifascista contro Berlusconi non solo è sbagliato, perché Berlusconi non è fascista, ma è disastroso per gli alleati che ci si può ritrovare. Si pensi a quanto abbiamo detto nel paragrafo precedente su quali siano i veri nemici che dobbiamo combattere. Nessuno è fascista: non lo sono gli Stati Uniti, non lo sono le élites politiche ed economiche del mondo attuale, non lo è la casta politica italiana. Una politica di unità antifascista porterebbe dunque oggi all’alleanza con tanti che sono i nemici più veri e pericolosi di chi voglia combattere l’incipiente crisi di civiltà. È per questo che la tesi dell’attualità dell’antifascismo in senso politico è, oggi, ben più che un errore intellettuale.
Un’ultima osservazione: nell’ambito della sinistra, “fascista” non è un termine scientifico che descrive una certa realtà storica, è piuttosto un termine carico di significati emotivi. Qualificando qualcosa come “fascista” si intende squalificarla sul piano morale, si intende manifestare il proprio rifiuto morale. “Fascista” è un termine peggiorativo, per cui, simmetricamente, se noi diciamo che Berlusconi non è fascista, sembra che questo voglia significare che lo stiamo difendendo o che stiamo dicendo che non è così malvagio come molti pensano a sinistra. Non è questa la nostra intenzione. Dire di qualcosa che “non è fascista” non è da parte nostra una difesa. Si può benissimo affermare che il totalitarismo dell’economia abbinato all’insignificanza della politica, che è la sostanza del nostro tempo, delinea una realtà sotto certi aspetti anche peggiore del fascismo.
7. Alcuni esempi
Il gravissimo errore rappresentato, nella realtà del dopoguerra, dal mantenimento dell’antifascismo come criterio attuale dell’azione politica lo si può capire da vari esempi. Uno dei più evidenti è la politica del compromesso storico perseguita dal Partito Comunista Italiano negli anni Settanta. Ricordiamo di cosa si tratta.
L’11 settembre 1973, in Cile, un colpo di Stato militare, sostenuto dagli Stati Uniti, abbatte il governo democraticamente eletto delle sinistre di Unidad Popular, uccide il presidente Salvador Allende e instaura la feroce dittatura di Augusto Pinochet. Questi avvenimenti hanno una forte eco in Italia, perché l’esperienza cilena di una alleanza delle sinistre capace di esprimere un governo progressista aveva suscitato nella sinistra italiana grande simpatia e senso di affinità. Il fatto che tale esperienza venga soffocata dalla violenza di un colpo di Stato sembra rappresentare un cupo monito per la sinistra italiana.
Il gruppo dirigente del PCI legge questa vicenda come la sanzione dell’impossibilità per una alleanza politica delle sinistre di arrivare al governo dell’Italia, o di rimanervi, e propone allora una alleanza fra le sinistre e la forza politica che aveva governato l’Italia nel dopoguerra, cioè la Democrazia Cristiana. Si tratta di una scelta politica che avrà effetti disastrosi per la sinistra e per l’Italia. In quel momento in Italia, sotto l’effetto dei grandi movimenti degli anni Sessanta, vi è una fortissima spinta al cambiamento, e i partiti di governo, e in particolare la Democrazia Cristiana, appaiono screditati e incapaci di tenere il passo coi mutamenti nella società.
Proponendo una politica di compromessi e alleanze con i partiti al potere il PCI dilapida nel corso degli anni Settanta il proprio prestigio di partito di opposizione e l’intero capitale di spinta al cambiamento che agitava la società italiana di quegli anni. Il fallimento della politica del compromesso storico è totale: il PCI non riuscirà nemmeno ad accedere al governo, partiti corrotti come la DC avranno ancora almeno un decennio di tempo per continuare la loro opera di corruzione, prima di essere travolti da Mani Pulite all’inizio degli anni Novanta, e in Italia non si riuscirà ad avviare un mutamento del paese in senso progressista, come era sembrato allora possibile.
Non ci sembra eccessivo affermare che molti dei mali attuali del nostro paese derivino dalla disgraziata politica del compromesso storico, sostenuta dal PCI negli anni Settanta [5]. Ma come è stato possibile che un rovesciamento radicale di politica, dalla contrapposizione frontale alla DC alla proposta di alleanze e compromessi, venga accettato dal corpo dei militanti e dall’opinione pubblica influenzata dal PCI? È qui che interviene, a nostro avviso, l’errore teorico dell’antifascismo e dell’unità antifascista.
Infatti il colpo di Stato cileno viene visto come espressione di fascismo, il pericolo di un colpo di Stato militare in Italia viene visto come un “pericolo fascista”, e la politica di compromesso storico viene letta come una politica di unità antifascista che serve a impedire la possibilità di un colpo di Stato fascista. È solo inserendosi in questo meccanismo ideologico di immediata presa sulle persone di sinistra, che la politica di compromesso storico viene fatta accettare.
Se riprendiamo in esame l’evento che ha fornito lo spunto iniziale alla politica del compromesso storico, cioè il colpo di Stato in Cile, cominciamo a capire dove sta l’errore della lettura “antifascista”. Il punto fondamentale è che il golpe cileno è certamente opera di forze interne al Cile, ma tali forze possono vincere solo grazie al fatto che si fanno strumento della volontà statunitense. Sono gli Stati Uniti l’attore principale, e il golpe è il risultato della volontà statunitense di affossare l’esperienza di Unidad Popular. Le forze politiche cilene più vicine agli USA, come la Democrazia Cristiana cilena, in sostanza appoggiano il golpe (la DC cilena passerà all’opposizione solo più tardi).
Torniamo allora all’Italia. C’era in Italia in quel momento la possibilità di un colpo di Stato come quello cileno? Probabilmente sì. Ma si sarebbe appunto trattato di un evento come quello cileno, cioè di un colpo di Stato voluto dagli USA e operato dalle forze politiche locali alleate dagli USA, cioè, in Italia, essenzialmente dalla DC (o da parti della DC) e dai suoi alleati, eventualmente con la collaborazione subalterna di neofascisti veri e propri.
È questo il punto cruciale: la politica del compromesso storico, proposta allo scopo di evitare un possibile colpo di Stato, da una parte non individuava con chiarezza il motore ultimo di un eventuale colpo di Stato (gli USA), dall’altra proponeva l’alleanza proprio con le forze politiche che sarebbero stati gli strumenti italiani del colpo di Stato stesso. Si trattava di una evidente assurdità, che rendeva completamente assurda, e destinata al fallimento, la politica del compromesso storico. Ma questa assurdità ha potuto essere accettata da buona parte dell’opinione pubblica di sinistra proprio perché rientrava nello schema dell’antifascismo.
Si vede qui con chiarezza come questo schema rappresenti ormai un diaframma che impedisce di cogliere la realtà, un vero e proprio ostacolo cognitivo, e come esso generi di conseguenza drammatici errori politici. L’esempio appena svolto della politica di compromesso storico del PCI degli anni Settanta ci permette di capire uno dei punti cruciali della discussione che stiamo svolgendo.
Il punto cruciale è il ruolo degli Stati Uniti. Abbiamo detto sopra che la politica imperiale statunitense rappresenta oggi una delle principali forze che spingono il mondo in una direzione opposta a quella indicata dagli ideali che hanno ispirato la lotta antifascista, ideali depositati nella nostra Costituzione. Chi si ispira a quegli ideali deve dunque contrastare la politica imperiale statunitense. Anche se gli Stati Uniti non sono un paese fascista. Prendendo in considerazione problemi politici di maggiore attualità, l’insufficienza dell’antifascismo come criterio di azione politica risulta confermata.
Consideriamo ad esempio le aggressioni statunitensi a Irak e Afghanistan. Si tratta di guerre imperialistiche che vanno nettamente contrastate da chi abbia a cuore gli ideali espressi dalla lotta antifascista degli anni Trenta e Quaranta: i diritti dei popoli ad opporsi all’oppressione, il rifiuto della guerra di aggressione. Ma ha senso opporsi a queste guerre in nome dell’antifascismo? Da una parte, gli USA in queste guerre assumono la figura dell’aggressore imperialista, e in questo senso ricordano certamente la Germania nazista.
Dall’altra parte con queste guerre gli USA hanno abbattuto regimi politici che certamente non erano democratici, e questo ricorda ovviamente il ruolo avuto dagli USA nella Seconda Guerra Mondiale nell’abbattere i regimi fascisti europei. Ma allora gli USA in queste guerre sono fascisti o antifascisti? Evidentemente non sono né l’una né l’altra cosa, e ciò che questo esempio mostra è appunto il fatto che non ha senso pensare alla realtà contemporanea secondo lo schema fascismo/antifascismo. Se si rimane all’interno di tale schema, semplicemente non si capisce più nulla della realtà attuale.
8. Uso politico
È evidente infatti che oggi l’accusa di “fascismo”, privata di ogni concretezza storica, è solo uno strumento di lotta fra frazioni contrapposte della nefasta casta politica che ci affligge, in particolare è uno strumento della casta di centrosinistra nella sua lotta contro la casta di centrodestra [6]. Si tratta di uno strumento perfettamente simmetrico a quello rappresentato dall’accusa di “comunismo”, frequentemente lanciata dai politici di centrodestra, e in particolare da Silvio Berlusconi [7], nei confronti del centrosinistra.
Ci si può chiedere perché centrodestra e centrosinistra continuino ad agitare immagini fantasmatiche di realtà storiche morte e sepolte, come appunto comunismo e fascismo. Il punto qui è rappresentato dal fatto che la casta politica, di destra, centro o sinistra, non può parlare della realtà effettiva del paese, dei problemi reali che affliggono il popolo italiano, perché da una discussione seria su questi temi emergerebbe il carattere parassitario e distruttivo della casta stessa, assieme alla sostanziale futilità delle sue contrapposizioni interne (fra centrodestra e centrosinistra).
Le due frazioni della casta si inventano allora gli inesistenti “comunisti” o “fascisti” per spostare il dibattito dal piano della realtà, nella quale i ceti popolari sono attaccati dalle devastanti politiche portate avanti dai governi di ogni colore, mentre destra e sinistra fanno tranquillamente i loro affari litigando sulla spartizione del bottino, a un piano onirico nel quale il popolo di sinistra può sognare di essere l’ultimo baluardo contro il fascismo, e il popolo di destra può sentirsi protetto, grazie a Berlusconi, dai pericolosissimi comunisti.
Per combattere la crisi di civiltà cui questo sistema ci sta portando, e al suo interno la gravissima crisi morale, sociale, politica ed economica del nostro paese, bisogna per prima cosa ricominciare a parlare della realtà, e contrapporsi frontalmente all’insieme della casta politica italiana, in tutte le sue fazioni. È urgente oggi la nascita di un’area culturale e politica di radicale opposizione nei confronti delle dinamiche mortifere del capitalismo contemporaneo, delle politiche imperiali statunitensi, dell’insieme della casta politica italiana. Agitare lo spettro del fascismo, chiamando all’unità antifascista, ha esattamente lo scopo di impedire la nascita di un’area di questo tipo e di mantenere legate al ceto politico di centrosinistra quelle fasce di opinione pubblica che si stanno da esso distaccando.
Genova-Pisa, fine 2010-inizio 2011
[fine]
[5] Questo giudizio deve essere precisato nel senso seguente. In primo luogo i tanti mali attuali del nostro paese hanno sotto certi aspetti radici più lontane, sotto altri più recenti, rispetto agli anni Settanta del Novecento: ciò che è sfuggito, in quegli anni, è l’occasione di un’autentica politica riformatrice che cominciasse ad affrontarli. In secondo luogo, nessuno può ovviamente sapere se una diversa politica da parte del PCI avrebbe avuto successo oppure no. Di certo, la politica del compromesso storico ha significato non tentare neppure una battaglia per un rinnovamento dell’Italia di cui il PCI era, evidentemente, strutturalmente incapace.
[6] Un paio di esempi recenti dell’uso della nozione di “fascismo” in senso antiberlusconiano: sul “Fatto Quotidiano” del 21 maggio 2010 Paolo Flores D’Arcais afferma che la legge sulle intercettazioni rappresenta “un primo tassello di un vero e proprio FASCISMO” (scritto proprio così, con le maiuscole). Su “Repubblica” del 25 agosto 2010 Dario Franceschini fa un esplicito paragone con la Resistenza per sostenere la necessità di una “grande alleanza” antiberlusconiana.
[7] Chi volesse prendere sul serio le parole di Berlusconi, dovrebbe concludere che si tratta dell’unico importante uomo politico occidentale che crede nell’esistenza del comunismo.
Qui e qui rispettivamente la prima e seconda parte dell’articolo.
Fonte: www.badiale-tringali.it
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