‘Für ewig’: gli intellettuali, la democrazia, il popolo
di LUCA RUSSI (FSI Arezzo)
In questi giorni bui per la democrazia e per la nostra Repubblica mi sono imbattuto nella ennesima giravolta di uno degli intellettuali più confusi della storia recente del nostro Paese, quell’Alberto Asor Rosa il quale ancora nel 2011 auspicava (contro Berlusconi) che “la democrazia si salvasse “forzando le sue stesse regole”, e che in un articolo su “Micromega”, a proposito della clamorosa esondazione di Mattarella dall’alveo di quelle che sarebbero le sue prerogative in materia di nomina dei ministri (in base agli artt. 92, e secondo Asor Rosa, 54 e 95), si spinge alla seguente affermazione:
«Sembra evidente che una eventuale scelta di uscire dall’euro attenga alle scelte politiche di governo e non sia in conflitto con la Costituzione, che ha bensì recepito l’obbligo di pareggio di bilancio ma solo nell’ambito dell’adesione all’euro, adesione che non può configurarsi für ewig, poiché la sovranità di cui all’articolo 1 ne risulterebbe minata».
L’ associazione tra l'”intellettuale di sinistra” per antonomasia, Asor Rosa, e il gramsciano für ewig, da lui adoperato fuori contesto ed esclusivamente per intellettualistico vezzo, mi ha provocato un vero e proprio tsunami di suggestioni e considerazioni, di cui proverò qui a rendere conto.
Per chi lo ignorasse, c’è una lettera di Antonio Gramsci alla cognata Tanja datata marzo 1927 – periodo in cui egli è detenuto nelle carceri giudiziarie di Milano – che è giustamente divenuta celebre perché in essa è, per l’appunto, delineato il concetto di für ewig (lett. “per l’ eternità”), mutuato dalle letture di Goethe, che il grande pensatore e uomo politico sardo usa per riferirsi ad un suo intendimento maturato a causa della sua condizione di prigioniero politico nelle carceri fasciste:
«Sono assillato (è questo fenomeno tipico dei carcerati, penso) da questa idea: che bisognerebbe fare qualcosa für ewig, secondo una complessa concezione di Goethe, che ricordo aver tormentato molto il nostro Pascoli. Insomma, vorrei, secondo un piano prestabilito, occuparmi intensamente e sistematicamente di qualche soggetto che mi assorbisse e che centralizzasse la mia vita interiore. Ho pensato a quattro soggetti finora, e già questo è un indice che non riesco a raccogliermi, e cioè: 1º, una ricerca sulla formazione dello spirito pubblico in Italia nel secolo scorso; in altre parole, una ricerca sugli intellettuali italiani, le loro origini, i loro raggruppamenti secondo le correnti della cultura, i loro diversi modi di pensare ecc. ecc.
Argomento suggestivo in sommo grado, che io naturalmente potrei abbozzare solo nelle grandi linee, data l’ impossibilità di avere a disposizione l’ enorme mole di materiale che sarebbe necessaria. Ricordi il rapidissimo e superficialissimo scritto sull’Italia meridionale e sull’importanza di B. Croce? Ebbene, vorrei svolgere ampiamente la tesi che avevo allora abbozzato, da un punto di vista “disinteressato”, für ewig […]», eccetera eccetera.
La primissima suggestione che si è affacciata alla mia mente è questa: sarebbe oltremodo interessante indagare su come si sia arrivati a dover assistere, soprattutto dopo la Brexit, allo spettacolo davvero avvilente della cosiddetta intelligencija di “sinistra” – di cui comunque continua a fare parte a pieno titolo il succitato Asor Rosa – che lancia strali contro il popolo ignorante, brutto, sporco e cattivo, con cadenza oramai pressoché quotidiana e con manifestazioni di parossismo assoluto sempre più frequenti. Tanto per fare il primo esempio che mi sovviene, un personaggio come Corrado Augias ha firmato una vergognosa recensione, il cui passo più significativo campeggia in bella vista sulla fascetta promozionale che adorna il libro di Jason Brennan (dal titolo eloquente Contro la democrazia, ed. Luiss): “La tesi è forte, i rischi numerosi, ma il tema è indubbiamente da discutere… Un libro provocatorio e importante”.
La deriva è in atto da tempo, in realtà, e si basa sulla progressiva affermazione di un retroterra culturale ormai ampiamente acquisito e consolidato, in base al quale si vorrebbe dare ad intendere che ci siano presunte “Verità” politiche di cui codesti intellettuali sarebbero i custodi depositari, “verità” che, quasi fossero scienza, siano oggettivamente inconoscibili dal popolino ignorante.
Ciò autorizzerebbe i suddetti sacerdoti a bollare con riflesso pavloviano qualsiasi manifestazione di dissenso, identificata per l’ appunto come ignoranza tout court e perciò stigmatizzata, derisa e violentemente ostracizzata a prescindere da qualsivoglia forza o logica argomentativa. Secondo questa concezione apertamente elitaria, che arriva ad affermare che la democrazia non può più passare dalla maggioranza, gli unici portatori di queste presunte verità “politico-scientifiche” sarebbero, oltre agli stessi intellettuali, i famosi “tecnici” che tanto piacciono alle lobby dell’establishment, ai grandi cartelli industriali multinazionali, all’alta finanza speculativa e cosmopolita, ovvero alla oligarchia di quelli che una volta si chiamavano i “poteri forti”.
Conforta sapere che secondo una delle poche menti lucide rimaste forse in questi anni “a sinistra”, lo storico Luciano Canfora, “la tentazione dei liberali è sempre la stessa: togliere il voto alla gente”, e che quindi le polemiche, già latenti da anni ma esplose con particolare virulenza nel dopo-Brexit sulla opportunità o meno che debbano votare “anche gli ignoranti”, rivelino solo l’ ennesima finestra di Overton vòlta a preparare il terreno per l’avvento del vecchio sogno dei liberali di neutralizzare la democrazia.
Ovviamente tutto ciò è stato lungamente preparato, e non può certo essere considerato estraneo ad esso il processo di progressiva estromissione della rappresentanza popolare operato per mezzo dell’introduzione del sistema maggioritario quale sistema elettorale ormai universalmente considerato migliore per assicurare la “governabilità”, essendo quest’ultima il vero cavallo di Troia di questi decenni. Gli stessi presunti pericolosissimi “populisti” che vanno tanto per la maggiore in questi giorni – e che in realtà sono anch’essi autentici liberali doc – si preparano, novelli “Danaos dona ferentes”, a portarlo in dono al loro elettorato di riferimento sotto le mentite spoglie di forme di “democrazia diretta” variamente declinata, una volta come elezione popolare del Presidente della Repubblica e l’altra sotto forma di una ormai celeberrima piattaforma digitale.
Qust’ultima, non a caso, porta il nome di un famoso pensatore dell’ Età dei Lumi, il quale, come non tutti forse sanno, al fondo dubitava fortemente di qualsiasi possibilità di piena realizzazione di una autentica democrazia rappresentativa: “L’unico modo per formare correttamente la volontà generale è quello della partecipazione all’attività legislativa di tutti i cittadini, come accadeva nella polis greca: l’idea che un popolo si dia rappresentanti che poi legiferano in suo nome è la negazione stessa della libertà”. (J.-J. Rousseau, Il contratto sociale, III, 15).
La sovranità, dunque, non può essere assolutamente essere rappresentata per la medesima ragione per cui non può essere alienata, per Rousseau. Però gli stessi rappresentanti (o meglio, “cittadini eletti”) targati 5 Stelle, tra una votazione e l’altra, tra una polemica e un attacco hacker, sono attualmente anche tra i più accaniti sostenitori del maggioritario con annesso premio di maggioranza, secondi solo a quella destra di cui fa parte a pieno titolo quella Lega presentatasi in coalizione unitaria con FI e con il partito della Meloni, assieme al quale a partire dalla data simbolica del 2 giugno, ha incominciato a raccogliere le firme per l’ elezione diretta del Presidente della Repubblica, in piena e massima coerenza con la logica del maggioritario e della “governabilità”.
Non furono in molti, venticinque anni fa, ad intuire che sarebbe stata proprio l’introduzione del maggioritario nel nostro Paese, in quanto sistema che tende giocoforza allo schiacciamento dell’elettorato verso il centro “moderato”, l’elemento che, una volta introiettato dalla cosiddetta opinione pubblica (ossia la cittadinanza resa passiva da decenni di propaganda liberale e conseguente mancanza di partecipazione popolare), avrebbe consentito in futuro di teorizzare la apparentemente paradossale (ma in realtà assolutamente conseguente) messa in stato di accusa della democrazia come sistema di governo basato sulla sovranità popolare, cioè su una opportuna miscela di rappresentanza e maggioranza.
Questo perché avrebbe surrettiziamente introdotto l’idea (proprio grazie all’intimamente connesso disvalore della governabilità) che la democrazia stessa sia in realtà un sistema di per sé intrinsecamente ed irrimediabilmente imperfetto per governare la società. L’idea, oggi nemmeno più sottaciuta, è che fino a quando verrà consentita una partecipazione popolare sempre e nonostante tutto “eccessiva”, lo schiacciamento della maggioranza (concepita non più nell’accezione di “popolo”, ma divenuta o meglio ridivenuta “massa”) verso posizioni “moderate” – schiacciamento massimamente funzionale proprio alla cosiddetta “governabilità” , in quanto annacqua la rappresentanza e deprime la partecipazione – sarà per costoro sempre fortemente a rischio.
Ed allora, mentre a destra torneranno in voga le tentazioni dell'”uomo forte” e/o del balcone di P.zza Venezia 2.0 (il Blog o la piattaforma sulla mitica Rete, dove “uno vale uno” ma c’è sempre qualcuno “più uno” degli altri), in una “sinistra” divenuta oramai irrimediabilmente liberal faranno invece presa tesi estremistiche rispetto alle quali quarant’anni fa sarebbe stata dall’altra parte della barricata.
Tali tesi, guarda caso, erano alla base di un celeberrimo testo intitolato Crisis of democracy – Rapporto sulla governabilità delle democrazie, commissionato a metà degli anni Settanta a tre politologi, i cui nomi sono oggi sconosciuti ai più, da quella stessa Trilaterale i cui rappresentanti vengono ricevuti con tutti gli onori al Quirinale da un Presidente della Repubblica eletto in Parlamento con i voti “della sinistra” (lo studio in Italia uscì nel 1977 con la prefazione di un certo Gianni Agnelli).
Ma io ho parlato pocanzi di “opinione pubblica come cittadinanza depotenziata e resa passiva dalla mancata partecipazione in questi anni di “democrazia liberale”; e l’ ultima suggestione che mi propone il filo di questo mio ragionamento, partito dal tradimento dei chierici novant’anni dopo, riguarda naturalmente l'”altra”opinione pubblica, quel “popolo della Rete” idealmente contrapposto alla opinione pubblica formata invece dalla tv, dai “giornaloni”e, insomma, dal mainstream, che però in massima parte è – ahimè – ugualmente e vorrei dire specularmente, passivo ed inerte.
E qui torno a scomodare il für ewig del grande uomo politico, al cui cervello «indubbiamente potente», come lo definì lo stesso Mussolini, fu vanamente «impedito di funzionare per almeno venti anni» (queste, secondo quanto riferì Togliatti, furono le parole con cui il pubblico ministero pronunciò la sentenza di condanna). Lo farò con le parole del Dizionario Gramsciano, 1926-1937 che ho trovato in rete:
“La scrittura diviene per il prigioniero una forma di resistenza in primo luogo perché consente di reinserire il tempo in una dimensione progettuale, in una tensione costruttiva. Non solo, dunque, la necessità, l’assillo di trovare un soggetto che centralizzi la propria vita interiore come forma di resistenza a quel processo molecolare di autodistruzione che può essere indotto dalla routine carceraria. La scrittura diviene anche – appunto für ewig – forma di resistenza alla morte, una forma di «immortalità» intesa «in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie e come un incorporarsi di esse, all’infuori della nostra volontà, al processo storico universale».
In questo senso i riferimenti letterari, così come l’aggettivo «disinteressato», che nei passaggi successivi G. usa, a “tradurre” quel “per sempre” in chiave esplicativa del suo für ewig, non valgono a suggerire un ripiegamento estetico, e ancor meno un disimpegno, ma al contrario, per G. in carcere, la forma possibile di una presenza, di un intervento, di una funzione nella storia: un piano di studi come piano d’azione, una ricerca svincolata da esigenze immediatistiche come strumento della battaglia egemonica nella guerra di posizione, un dialogo differito, probabilmente consegnato alla posterità, in assenza di interlocutori, nell’impossibilità di un dialogo immediato”. (Dizionario Gramsciano 1926-1937, a cura di Guido Liguori e Pasquale Voza, Carocci, 2009; http://www.academia.edu/5481349/Dizionario_gramsciano_Fur_ewig )
«Für ewig», dunque, come antidoto alla miseria intellettuale di chi, avendo fallito la sua missione di una vita, che sarebbe stata quella di contribuire con la forza del proprio pensiero a cambiare la società, si accuccia a fare da cane da guardia a quel There Is No Alternative di infausta memoria con cui gli epigoni del liberalismo si apprestano a chiudersi nel loro ultimo bunker, certo.
Ma «für ewig» anche come sferza per chi, nonostante abbia intuito quali siano le forze che si fronteggiano e quale sia la reale posta in gioco, rimane alla finestra ad aspettare passivamente che il cadavere passi sul fiume, o peggio, in un osceno controcanto al “Fate presto!” del nemico, urla (rivolto non si sa bene a chi) “sbrigatevi, unite le forze, non c’è tempo!”, al contempo guardandosi bene dall’uscire dal guscio della propria dimensione personale ed egoistica.
La dimensione propria di chi non riesce che a guardarsi le scarpe, invece di calarsi nell’unica dimensione possibile della Politica: quella “eterna” della Storia, in cui ciascuno di noi – nel proprio piccolo e secondo le sue possibilità – sarebbe chiamato a lasciare comunque un segno, per sé stesso e per quelli che verranno dopo.
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