Dal pubblico alla bontà: come la sinistra è divenuta la peggior destra liberista
di STEFANO D’ANDREA (ARS Abruzzo)
La critica dello stalinismo, della quale gli ultimi epigoni del comunismo avvertono ancora il bisogno, evidentemente dando a tale critica un senso, è per molti diventata critica dello statalismo.
La critica dello statalismo non è critica della mistica dello stato o, al contrario, della inefficienza; è da tempo critica del concetto di stato e di quello di popolo, reputato inconsistente.
Paradosso e schizofrenia sono perciò divenuti condizioni naturali, sistemiche e fisiologiche degli uomini della sinistra italiana: si perora la causa del pubblico volendo al contempo distruggere lo Stato italiano, in vista della mitica scomparsa degli stati nazionali o dell’irrealizzabile Europa politicamente unita. A un certo punto si è persino dimenticata l’originaria contestazione di Maastricht e l’Unione europea è stata accettata come fatto, pur avendo essa la funzione di distruggere il pubblico statale, senza volerlo sostituire con un pubblico-mega statale.
Che le funzioni pubbliche e i servizi pubblici siano più importanti dei consumi privati nessuno osa dirlo. Al più si asserisce che funzioni, servizi e opere pubbliche sono importanti; ma che siano più importanti dei consumi privati questo no: non lo pensa e dice nessuno.
L’ulteriore cedimento – l’ultimo – è la definitiva sostituzione del pubblico con il comune – la “teoria” dei beni comuni, che si risolverà in aria fritta.
Così il gioco è fatto: il percorso è interamente compiuto. La “sinistra” è diventata un covo di liberal buonisti; a conti fatti una destra liberista “buona“, perché dotata di una ideologia (un frasario) buonista che è pura falsa coscienza. La sinistra è divenuta la peggiore destra liberista.
[articolo apparso su “Appello al Popolo” il 14.11.2012]
Concordo parola per parola.
La teoria del bene comune non è aria fritta. Storicamente nasce nel medioevo x permettere la gestione collettiva di vasti territori – di solito pascoli o foreste – che sarebbero andati incontro al degrado se lasciati inmano a singole famiglie. Negli anni queste “regole” come venivano chiamate sull arco alpino riuscirono a vedersi riconosciuti dei diritti dai feudatari prima e dalla nuova borghesia rivoluzionaria poi. È grazie ai “beni comuni” che realtà rurali di montagna ssono riuscite a sopravvivere durante la rivoluzione industriale che in francia e inghilterra – utilizzando l arma del diritto formale di matrice liberale – gettava sul lastrico popolazioni intere in nome del “progresso” garantendosi la fornitura di manodopera a basso.costo per l industria.
Oggi le asuc come vengono chiamate dove ancora esistono dovrebbero venire difese piuttosto che attaccate. Per esempio si potrebbe contestare l idea che gli usi civici siano tenuti a rispettare i vincoli del patto di stabilità interno che obbliga le PPAA a lasciare in banca ogni anno qualcosa come l 8 o il 9 Per cento del Proprio bilancio annuale.
http://www.lanostraautonomia.eu/2013/08/gli-usi-civici-come-origine-dellautogoverno/
Per carità, ne parlava anche Marx: raccolta delle castagne; raccolta delle spighe, ecc.
Si tratta di battaglie giuste ma assolutamente marginali. Nulla a che vedere con l’operazione subculturale di sostituire il pubblico o lo stato con “il comune”. Ti assicuro che i “teorici” del comune o dei beni comuni non vogliono “sentir parlare dello stato”. E poi è aria fritta quando si parla di “lavoro bene comune” “paesaggio bene comune” “ambiente bene comune”, “acqua bene comune”. Tutto diventa un bene comune, categoria che allora non designa più niente perché si sostituisce a beni pubblici e per certi versi supera questa ampia categoria (vedi lavoro bene comune). Ora siccome l’imputazione allo Stato è qualcosa di simbolico che però risponde alla logica di prevedere un promotore, gestore e responsabile, beni pubblici va benissimo. Poi si possono dare e in taluni casi forse si devono dare gestioni in concessione. Ma sempre di beni pubblici si tratta. Quando poi ci si riferisce al lavoro bene comune siamo davvero all’aria fritta.
Quelle “raccolte delle castagne”, per quanto marginali, hanno avuto il merito di attenuare
moltissimo gli effetti devastanti di una prima “globalizzazione” e di lasciare un importante
sedimento a livello di memoria condivisa sull’importanza della dimensione collettiva dell’agire.
Certo se ci si ferma alla pura dimensione economica della questione la si liquida come un’innocuo
passatempo da popolino che niente può fare di fronte all’emergere incontrastato del progreSSo tecnocratico ,
sia esso quello di stampo liberal-liberista, sia esso quello staliniano del sol dell’avvenire. Che
poi oggi i teorici (appunto) del “bene comune” siano più o meno sovrapponibili a quelli della
“fine dello stato nazione”, non cambia di una virgola la questione. Liquidare un’idea come sbagliata
solo perchè chi la sostiene porta avanti anche altre istanze che non condividiamo è il primo passo
per trasformare l’agire politico in un affare di opposte tifoserie lobotomizzate.
Ma anche visto da un approccio puramente economicista il fenomeno ha comportato nel lungo periodo
effetti tutt’altro che marginali. Posso fare – per aver vissuto tanti anni in entrambe –
il paragone tra due zone molto simili per conformazione del territorio: la provincia di Bergamo e
quella di Trento. Le valli bergamasche, lasciate in mano a un organizzazione privatistica dell’economia
di sussistenza, hanno perso oggi qualsiasi attrattiva e la deindustrializzazione degli ultimi anni
sta costringendo moltissimi giovani a guardare lontano per progettare il proprio futuro. Invece
l’importanza data alla questione ambientale dai trentini figli delle “regole” permette oggi a molti
ragazzi di rimanere ancorati alle proprie radici grazie all’occupazione creata nel settore turistico.
Enrico credo di essermi spiegato male.
Il tentativo di elaborare una teoria dei beni comuni, che comprenda innumerevoli beni pubblici e anche valori come il lavoro è logicamente insensata, politicamente fallimentare e ha la funzione principale di coltivare la fuga dal “pubblico”.
La categoria dei beni comuni può essere utilizzata, invece, per designare particolari proprietà collettive o usi collettivi di alcuni beni. Ma si tratta di norme e istituti che esistevano, che nessuno ha mai contestato, sui quali non si fonda una nuova teoria e una nuova prassi politica e che non possono essere elevati ad ‘archetipo di istituti che rivoluzionino la vita civile.
Quindi, teoria e prassi politica dei beni comuni sono fanfaronate, slogan vuoti, categorie che comprendono realtà molto eterogenee. Gli istituti che prevedono usi comuni, appropriazioni di frutti caduti o spighe lasciate a terra, o possibilità di cacciare sui terreni di proprietà altrui, e in parte gi usi civici, sono tutti istituti importanti per le comunità montane ma non sono né il grimaldello di una rivoluzione, né quello di una riforma strutturale. Sono quello che sono.
“Gli istituti che prevedono usi comuni, appropriazioni di frutti caduti o spighe lasciate a terra, o possibilità di cacciare sui terreni di proprietà altrui, e in parte gi usi civici, sono tutti istituti importanti per le comunità montane ma non sono né il grimaldello di una rivoluzione, né quello di una riforma strutturale. Sono quello che sono.”
Esatto. DEgli istituti con una loro dignità – che oggi probabilmente rischia di andare
persa – e che per quelle comunità hanno un significato profondo. Se si vuole attaccare l’uso strumentale
che i teorici dell’abolizione dello stato ne fanno bisognerebbe quanto meno avere l’accortezza
di mostrare considerazione per i risultati che queste tradizioni hanno conseguito. Si tratta
spesso di risultati tutt’altro che intangibili: gli abitanti di Fisto, una frazione della Val
Rendena si trovano tutti gli anni (pardon, si trovavano fino a qualche anno fa, non sono aggiornatoa) tutti gli anni qualcosa come 10 quintali di legna da ardere pronta fuori dalla porta di casa come contropartita del taglio dei loro boschi da parte di privati (segherie), per fare un esempio che conosco. Parlare in questo modo
di quelle tradizioni significa allontanare da noi sia i loro sostenitori che i loro beneficiari diretti.
“Parlare in questo modo
di quelle tradizioni significa allontanare da noi sia i loro sostenitori che i loro beneficiari diretti”
Ma non mi sembra di aver fatto ciò. Se rileggi il post, il tema era la sinistra. E i passaggi erano: dalla critica allo stalinismo alla critica dello statalismo e quindi del concetto di popolo, alla fiducia nell’europa, fino alla sostituzione del bene pubblico con il bene comune.
Quanto ai sostenitori, se accettano che si tratta di istituti vigenti che non hanno alcun carattere rivoluzionario, ci servono. Altrimenti non ci servono. Purtroppo, o per fortuna, il nostro è un messaggio, romantico nella istanza, ma razionale nello svolgimento. E ancora per molto tempo, chi non è capace di questo equilibrio (perché non è capace di romantisismo o si abbandona al soloro manticismo) dovrà essere oggetto delle nostre bacchettate.