Perché l’isteria sul Def italiano non ha senso
di VOCI DALL’ESTERO (Rododak)
Gli organi di informazione, con sprezzo del ridicolo, lanciano quotidianamente l’allarme rosso sugli sforamenti di qualche punto di indici economici da ben pochi davvero compresi nel loro complesso calcolo e funzionamento. Ottimo dunque questo articolo pubblicato sul sito dell’Institute for New Economic Thinking, che mostra come, se si stenta a capire il senso dei parametri imposti dall’Unione europea è, molto semplicemente, perché questo senso non c’è. Formule e modelli basati su presupposti economici sbagliati servono più che altro a confondere e distrarre l’opinione pubblica, che discutendo a perdifiato (e spesso anche a vanvera) su cifre e percentuali perde la sostanza che c’è sotto: una strategia economica fondata su modelli irrealistici, ormai smentiti anche a livello accademico, al servizio di un disegno politico.
Di Orsola Costantini, 10 ottobre 2018
Le reazioni alle cifre inserite nel documento programmatico di bilancio si basano su ipotesi screditate e tradiscono un fondamentale fraintendimento della crescita economica e dell’austerità.
In questi giorni, niente accende gli animi come un nuovo documento programmatico di bilancio. Se poi è presentato dal governo più controverso (o forse al secondo posto) in Unione europea, quello italiano del Movimento Cinque Stelle e Lega, l’agitazione è garantita.
Il 27 settembre il ministro delle Finanze italiano Giovanni Tria ha comunicato alla Commissione europea l’intenzione di apportare modifiche al programma di bilancio stabilito dal precedente governo. “Il nuovo programma genererebbe un rapporto deficit/ PIL del 2,4% nel 2019, implicando un saldo strutturale di bilancio in rapporto al PIL di -0,8%, ossia una deviazione programmata dell’1,4% rispetto all’obiettivo.
I mercati finanziari e i media hanno reagito duramente. Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici e finanziari, e il presidente della Commissione europea Jean Paul Juncker hanno entrambi espresso forte scontento, mentre i rendimenti dei titoli decennali sono saliti al di sopra del 3,5% per la prima volta in quattro anni. Il vice primo ministro e leader del movimento Cinque stelle, Luigi Di Maio, ha commentato che “C’è qualche istituzione europea che con le dichiarazioni gioca a far ballare lo spread, a far terrorismo sui mercati“. Il 5 ottobre, la lettera ufficiale di risposta della Commissione al ministro ha espresso “seria preoccupazione“ per i cambiamenti previsti, generando ulteriori turbolenze sui mercati. Il 9 ottobre, il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca centrale italiana si sono uniti al coro con nuovi ammonimenti.
I leader del governo italiano hanno risposto fermamente che non avrebbero fatto marcia indietro sul programma e hanno criticato in modo esplicito e aperto l’establishment europeo. Anche il volto moderato della coalizione, il premier italiano Giuseppe Conte, ha alzato il tiro, mettendo in discussione le priorità della Commissione europea, della Banca d’Italia e del Fondo monetario internazionale: ha assicurato che il suo governo resta impegnato a contenere il debito pubblico e a mantenere la stabilità fiscale, ma ha affermato che l’obiettivo è impossibile da raggiungere senza crescita economica. Il ministro per gli Affari europei, l’economista Paolo Savona, ha affermato addirittura che sarebbe necessario un rapporto deficit/PIL superiore al 2,4%.
In effetti, reazioni così accese al nuovo programma di bilancio sono ingiustificate. In realtà gli obiettivi stimati che il nuovo programma non rispetterebbe (in misura minima) non sono attendibili e si basano su principi macroeconomici errati. Inoltre, a dispetto delle accuse di prodigalità, l’Italia in realtà ha un importante avanzo primario (differenza tra spesa pubblica ed entrate al netto del pagamento degli interessi sul debito), e continuerà ad averlo anche se il governo confermerà i suoi piani (vedi figura 1). Se qualcosa dovrebbe generare una “seria preoccupazione”, piuttosto, è il fatto che il Paese continui sulla strada dell’austerità, che si è dimostrata recessiva; ha bloccato il Paese nella stagnazione e ha esposto il suo sistema bancario a una dose di stress ancora maggiore. Con gli investimenti pubblici a livelli storicamente bassi, la disoccupazione ancora superiore al tasso del 2008 in tutte le regioni e un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%, è ben difficile non vedere i validi motivi a sostegno della necessità di uno stimolo fiscale.
Figura 1 Fonte: BCE Statistical Data Warehouse
Quanto alle lettere spedite al governo dalla Commissione europea, non rappresentano nulla di straordinario: la corrispondenza fa parte delle procedure di monitoraggio fiscale dell’Unione europea, rigorosamente pianificate e regolamentate. Neanche il giudizio negativo contenuto nella lettera della Commissione è una novità per un governo italiano. Nell’ottobre 2017, per esempio, la Commissione ha inviato una lettera analoga all’allora ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan, in risposta al programma proposto dal governo per il 2018 e gli anni successivi, contestando il fatto che il piano si sarebbe discostato di 0,4 punti percentuali dall’obiettivo concordato per il 2018:
“Per il 2018 [il programma di bilancio provvisorio] prevede uno sforzo strutturale (di riduzione del deficit, ndT) dello 0,3% del PIL, che una volta ricalcolato dai servizi della Commissione […] rappresenta lo 0,2% del PIL. Questo sforzo strutturale è inferiore all’impegno per almeno lo 0,6% del PIL richiesto in base […] al patto di stabilità e crescita […]. “ La Commissione concludeva: “Questo indica il rischio di una significativa deviazione dagli impegni richiesti nel 2017 e nel 2018 insieme. Accetteremmo quindi volentieri ulteriori informazioni sulla composizione precisa dello sforzo strutturale previsto [nel programma di bilancio provvisorio].”
Ciò che è più interessante è la lettera di risposta allora inviata da Padoan, che esprimeva preoccupazione riguardo alla metodologia concordata per la stima delle cifre in discussione:
“L’Italia sta ancora vivendo condizioni cicliche difficili, sebbene in miglioramento. L’output gap è stimato a -2,1% del PIL potenziale nel 2017 e -1,2 nel 2018. Le stime della Commissione nelle Previsioni di primavera erano pari a -0,8% per il 2017 e 0,0 per il 2018. In previsione di una probabile revisione delle proiezioni di crescita del PIL reale nelle prossime “Previsioni d’autunno”, queste cifre indicano un gap positivo nel 2018, un risultato che ci sembra in contrasto con tutte le evidenze macroeconomiche disponibili […] “
Alla fine, la Commissione e il Consiglio hanno accettato il programma di bilancio e non hanno avviato una procedura formale per disavanzo eccessivo (che potrebbe portare a sanzioni). Ma le domande sul metodo sollevate da Padoan sono rimaste fondamentalmente senza risposta. Sono ancora valide oggi?
L’Unione europea utilizza diversi indicatori di solidità fiscale per giudicare se un paese stia progredendo verso il suo obiettivo di medio termine. Questi sono, in generale: il rapporto debito/PIL, deficit/PIL, saldo primario/PIL e saldo strutturale/PIL.
Le previsioni sulla dinamica del debito e sul rapporto tra deficit e PIL implicano già un certo grado di incertezza in merito alla crescita delle entrate e alle sue componenti. Ma quando si tratta di saldo strutturale e output gap, ovvero di quella che era la preoccupazione sollevata da Padoan, la storia diventa ancora più complicata. Queste stime equivalgono a capolavori di travestimento statistico.
Richiedono infatti una valutazione di quanto il paese sta crescendo rispetto alla sua crescita potenziale. Ma quest’ultima, ovviamente, non è osservabile. Per questo la sua stima richiede un modello per stabilire come la politica fiscale e, più in generale, le politiche pubbliche influenzino la crescita.
Inutile dire che in economia non esiste un consenso su quale modello usare. Molti studiosi affermati, come Olivier Blanchard, ex capo economista del FMI, hanno criticato la metodologia infine adottata dalla Commissione europea. La Commissione stessa sembra un po’ confusa riguardo ai risultati, viste le continue revisioni dell’output gap per l’Italia, come sottolinea Padoan nella sua lettera (figura 2).
Figura 2. Stime dell’0utput gap per l’Italia da parte della Commissione in momenti diversi. I colori mostrano l’anno in cui la stima viene effettuata, i punti indicano gli anni a cui si riferisce.
Fonte: Direttore europeo della commissione Affari generali, economici e finanziari, Valutazione del programma di stabilità dell’Italia dal 2014 al 2018 (Stime di primavera)
Ma oltre alla inaffidabilità, questa formula ha un problema più sostanziale: nella sua costruzione assume che la spesa pubblica in deficit non possa avere un impatto strutturale sulla crescita. Ciò significa che un aumento del deficit non può stimolare una crescita senza inflazione e che una diminuzione del deficit non ha effetti depressivi. Di conseguenza, qualsiasi diminuzione del tasso di crescita non può mai, per definizione, essere interpretata come conseguenza dell’austerità.
Questa ipotesi è in contrasto con ciò che ormai affermano anche economisti mainstream di spicco.
Quindi, che cosa determina la crescita potenziale, secondo la Commissione? Una componente importante, alla quale possiamo probabilmente tutti fare riferimento, è il tasso di disoccupazione strutturale, o “tasso di disoccupazione di equilibrio, tale da non generare pressioni salariali” (NAWRU – Non Accelerating Wages Rate of Unemployement), ovvero il più basso tasso di disoccupazione cui si può arrivare senza provocare la crescita dei salari e dell’inflazione. La figura 3 mostra come quest’ultima costruzione ipotetica si comporta in relazione al tasso di disoccupazione reale. La differenza tra le due serie è rilevante: maggiore è la differenza, maggiore è l’output gap e quindi lo spazio di flessibilità fiscale concesso a un paese.
Ma, guarda caso, più alto è il tasso di disoccupazione reale, più è alto anche il tasso di disoccupazione strutturale, il che lascia sostanzialmente invariato l’output gap.
Figura 3. In blu il tasso di disoccupazione reale e in rosso il NAWRU, dati scaricati da AMECO nel 2013, al culmine della crisi del debito sovrano. La Commissione stimava allora che la Spagna avesse un tasso di disoccupazione ottimale del 24%.
La logica è chiara: l’ipotesi è che la disoccupazione sia dovuta a fattori strutturali, come la rigidità del mercato del lavoro, e che i deficit fiscali possano raramente essere d’aiuto. Anche se fossimo d’accordo, sarebbe ben difficile spiegare perché la Spagna nel 2004 abbia avuto un tasso di disoccupazione strutturale del 10,4%, mentre nel 2013 del 24%, dato che il mercato del lavoro nel frattempo era diventato più flessibile. In Italia, il tasso di disoccupazione per il 2018 è attualmente del 10,8% e la stima del NAWRU è del 9,94%.
Lasciamo da parte i dibattiti tecnici: la decisione è in ultima analisi politica. Le formule oscure e i modelli traballanti si prestano proprio a questo: a giustificare ciò che viene deciso a porte chiuse. Nel frattempo, tuttavia, la contesa sulle cifre avrà distolto l’attenzione dei cittadini europei da una discussione sugli ampi obiettivi sociali che l’Europa dovrebbe raggiungere.
Tuttavia, resta difficile capire perché, in un contesto politico che minaccia la fondazione stessa dell’UE, la Commissione europea abbia deciso di evocare lo spettro di una catastrofe finanziaria per un aumento dell’1,4% rispetto a una stima che si è dimostrata ripetutamente inaffidabile e che la maggioranza degli economisti contesterebbe.
Fonte: http://vocidallestero.it/2018/10/21/perche-listeria-sul-def-italiano-non-ha-senso/
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