La falsa sfida di Lega&Cinquestelle all’Unione europea E la vera sfida da lanciare al governo, all’Ue e ai “mercati”
di SINISTRA IN RETE (Cuneo Rosso)
Ci siamo: la Commissione europea boccia la finanziaria del governo Salvini/Di Maio e i due demagoghi a pettinfuori (o quasi) giurano: non retrocediamo di un millimetro. Su tutto possiamo transigere, sulla difesa dei poveri e dei pensionandi no. Prima i proletari! Salvini-Di Maio/Lega-Cinquestelle in armi contro la perfida UE, dunque. Avanti fino in fondo, sia quel che sia. E boia chi molla.
Che c’è di vero in questa sceneggiata meneghino/napoletana?
Per l’essenziale, nulla.
Perché:
1) il Fiscal Compact, il patto strangolatorio inserito in Costituzione che impone il pareggio di bilancio e il dimezzamento del debito di stato, non viene in alcun modo messo in discussione. Anzi non viene neppure nominato;
2) perché il Def (Documento di economia e finanza) del governo in carica garantisce per i prossimi anni l’avanzo primario; garantisce cioè, al pari dei precedenti governi, che lo stato spenderà meno di quanto incasserà. E lo farà per tutelare al meglio i suoi grandi creditori-piranha (quest’anno incassano 62 miliardi di interessi), cioè proprio i famigerati mercati e/o investitori, quelli di cui i “nemici” Juncker e Moscovici sono portaborse e portavoce;
3) perché lo stesso Def “sovranista” prevede, esattamente come impongono le regole europee, la riduzione progressiva del deficit annuale: 2,4% nel 2019, 2,1% nel 2020, 1,8% nel 2021. Con tanto di rassicurazioni da parte dei suddetti guerrieri di cartapesta che l’obiettivo è comunque quello di ridurre l’indebitamento statale nell’arco del triennio (da non dimenticare che i 5S si sono impegnati ad abbatterlo dal 130% al 90% del pil in due legislature, con tagli da 800 miliardi di euro);
4) perché nel Def è stata inserita una clausola di salvaguardia, che obbliga il governo a intervenire nel corso del 2019 se, com’è certo, non saranno rispettate le previsioni fatte e il deficit crescerà più del previsto. Ad intervenire con una manovra correttiva composta di nuove tasse (ad esempio l’aumento dell’Iva caro a Tria, e solo rinviato) e nuovi tagli al welfare (Libero del 15 novembre ipotizza addirittura un’altra “riforma” pensionistica più dura della odiosa Fornero);
5) perché si mette in cantiere una nuova megasvendita dei beni immobili di proprietà statale per l’ammontare di 18 miliardi di euro – la cifra è esagerata, l’intenzione però è reale. Ancora privatizzazioni, quindi, come impongono le direttive europee agli stati più indebitati. In ballo ci sono, oltre migliaia di immobili, terreni, spiagge, anche quote di Cdp, Poste, Ferrovie, Finmeccanica-Leonardo, Rai, Poligrafico, etc. In ogni caso, nuovi lucrosissimi affari in vista per i fondi di investimento, le banche e i grossi capitali esteri (a proposito di “sovranità”…) ed interni;
6) perché sulla scia dei vari Letta, Renzi e Gentiloni, che ottennero una flessibilità di 40 miliardi, anche gli attuali governanti pregano l’UE di considerare fuori deficit i 3,5 miliardi per gli interventi legati alle calamità naturali;
7) perché contestualmente al varo del Def, il governo lega-stellato annuncia, con il suo socio di maggioranza Salvini, che tutte le “grandi opere” infrastrutturali messe in cantiere dai precedenti governi d’accordo con l’Europa, si faranno, e che si faranno anche una caterva di inceneritori: altri affaroni per le mega-imprese italiane ed estere, e per la criminalità organizzata (l’ha detto Di Maio, e una volta tanto gli è scappato di dire il vero).
Il “modello di società” legastellato
Insomma, il Def e il governo Lega-Cinquestelle non rompono affatto con la logica del neo-liberismo a cui è ferreamente legata l’UE; tanto meno rompono con i meccanismi di funzionamento fondamentali della società capitalistica di cui la Commissione di Bruxelles è il presidio istituzionale – a cominciare dallo sfruttamento intensivo e dalla precarizzazione della forza-lavoro. La loro “sfida” si riduce a qualche modesta misura di provvisorio tampone del malessere sociale prodotto da decenni di politiche di sacrifici imposti ai lavoratori; misura pagata – lo vedremo – dalla classe lavoratrice nel suo insieme.
Sostiene invece Jacques Sapir, uno dei guru dei “sovranisti”, che l’attuale confronto tra la Commissione europea e il governo italiano è qualcosa di molto serio: non è “un dibattito su cifre o percentuali”, bensì “un dibattito fondamentale per determinare in che società vogliamo vivere“. Bum! Nel chiacchiericcio del momento su sovranità e sovranismi alimentato dallo stesso Sapir e da altri dotti fessi o fessi dotti del suo genere (fate voi), nel frastuono che ne deriva, si fa fatica a restare sul terreno dei fatti che rimane comunque, per noi, il terreno decisivo. Se ci atteniamo ai fatti, nulla, proprio nulla, dei pilastri della legislazione anti-operaia degli ultimi 40 anni è stato toccato in questi mesi, né verrà toccato in futuro, dall’alleanza Lega-Cinquestelle: dalla soppressione della scala mobile al Jobs Act. Il tipo di società in cui vogliono vivere i Salvini&Di Maio non differisce da quella esistente oggi.
Al contrario, le misure fiscali prese nel Def con le quali si privilegiano le partite Iva, le piccole imprese, le start-up innovative (mentre c’è qualche piccola riduzione degli incentivi per le grandi imprese), confermano e perfino radicalizzano la scelta di fondo compiuta nei decenni passati dai governi di centro-destra (di cui la Lega era parte) e di centro-sinistra: il modello di società ultra-capitalistica dell’asse Lega-Cinquestelle punta sulla piccola–media impresa, in specie su quella esportatrice. Punta quindi sull’ulteriore abbassamento del costo medio della forza-lavoro, diretto e indiretto, e sulla scomparsa della conflittualità sui luoghi di lavoro e di ogni forma di organizzazione sindacale. In modo implicito ma chiaro, Lega&Cinquestelle hanno preso atto del ridimensionamento del capitalismo nazionale nel mercato mondiale avvenuto dai primi anni ’90 in poi, e ritagliano per l’azienda-Italia un ruolo in cui gli investimenti e l’innovazione tecnologica avranno una parte di secondo piano rispetto allo schiacciamento sempre più feroce della forza-lavoro.
È proprio a questo che serve l’aggressione ai rifugiati, ai richiedenti asilo, ai proletari immigrati incarnata dal decreto-Salvini. Un decreto che si sposa totalmente con le direttive europee in materia, confermando il ruolo dell’Italia come avanguardia del razzismo di stato europeo, assunto con la Bossi-Fini che anticipò l’inasprimento delle politiche migratorie dell’intera Unione dopo il 2001. Per questa ragione slegare il Def dal decreto-Salvini è da galoppini, volontari o no, del governo Conte. O da esperti settoriali che, avendo i paraocchi tipici degli “specialisti”, analizzano la politica del governo a spicchi, anziche come un tutto unitario quale in effetti è. E non riescono a vedere che il decreto-Salvini con i suoi dispositivi finalizzati a produrre immigrati irregolari e a stroncare le lotte, è inseparabile dal Def e viceversa.
Redistribuzione? No, è una partita di giro
Quanto allo sbandierato reddito di cittadinanza, hanno detto bene G. Commisso e G. Sivini: tanto rumore per poi finire con l’adottare, riveduto in peggio però, il sistema Hartz-IV. Infatti verrà introdotto un armamentario di norme che servirà ad allargare l’area del lavoro sotto-pagato e/o totalmente gratuito (vedi le 8 ore obbligatorie alla settimana per i comuni). E servirà anche a ricattare i disoccupati più deprivati che non potranno rifiutare più di tre lavoretti, avendo poi l’obbligo di cercare attivamente il lavoro per almeno due ore al giorno. Di più: se il burattino del padronato Renzi ha abolito anche formalmente, con l’art. 18, la giusta causa per i licenziamenti padronali, il suo degno erede Di Maio vuole introdurre la seguente clausola contro i proletari in gravi difficoltà di sopravvivenza: perde il reddito di cittadinanza il salariato che “a seguito di impiego o reimpiego receda senza giusta causa dal contratto di lavoro, per due volte nel corso dell’anno solare” (cfr. www.money.it/reddito-cittadinanza-come-funziona-date-importi). Dunque, ai lavoratori poveri con reddito di sudditanza sarà concesso di “auto-licenziarsi” solo per giusta causa. Se questo non è il più abietto ordoliberismo europeista declinato al ribasso, diteci cos’è.
L’impianto grillino di questa misura è poliziesco/repressivo, da sorvegliare-e-punire: ricordate la minaccia dei 6 anni di carcere fatta da Di Maio per abusi in materia di reddito di sudditanza e le sanzioni per le spese “immorali”? ricordate l’assicurazione della Castelli: “incroceremo le banche dati per impedire truffe”? Su un impianto del genere, per i marpioni della Lega è stato un gioco da ragazzi inserirsi per delineare le ancora fumosissime modalità di erogazione. Ed ecco Salvini proporre di conformarlo al reddito di autonomia della Lombardia che a suo dire “funziona bene” – 1.800 euro per 6 mesi da spendere in corsi di formazione, per i disoccupati da almeno 3 anni, privi di altra integrazione. Ma arrivati a questo punto, ha glossato il suo amico Siri, quello che ha al suo attivo una bancarotta fraudolenta, è meglio darlo direttamente alle imprese, che le truffe non sanno neppure dove stanno di casa, così si può essere certi che non sarà sprecato in videogiochi, sigarette elettroniche, coca cola, o divani su cui stravaccarsi, etc.
Sulla edizione italiana di Jacobin, che a prima vista ci pare alquanto girondina, D. Corradi e M. Bertorello vedono nel Def alcuni aspetti di redistribuzione del reddito (dal capitale al lavoro). Non siamo d’accordo. Perché se assommiamo i molteplici condoni fiscali (che non beneficiano di certo i proletari), le agevolazioni fiscali per le imprese che investono in ricerca e/o assumono a tempo indeterminato, un primo assaggio di flat tax, la cedolare secca per le locazioni commerciali e industriali, non ci pare proprio che il carico fiscale complessivo sul capitale (grande, medio e piccolo) crescerà, nonostante la soppressione dell’Ace (se davvero resterà). Tutt’al più ci sono maggiori vantaggi per le piccole-medie imprese che per le grandi, le quali però si sono abboffate per decenni. La spesa per il reddito di sudditanza verrà fuori, quindi, da una partita di giro interna alla classe lavoratrice, sarà sottratta dalla quota complessiva del prodotto globale che va alla classe lavoratrice nel suo complesso. Misuriamone anzitutto l’esatto importo, ammesso che resti tale: si tratta di 9 miliardi di euro come sparano i professionisti delle fake news al potere? No. Perché bisogna sottrarre i 2,5 miliardi del Rei (il reddito di inclusione) e 1,5 miliardi della Naspi (l’indennità di disoccupazione). Si tratta perciò di 5 miliardi nuovi, il resto è già nel bilancio per decisione dei governi precedenti. Dai 5 miliardi va detratta la quota, presumibilmente non piccola, che andrà nelle tasche di tanti piccoli accumulatori che sono evasori totali – l’allarme l’hanno lanciato non i soliti tagliatori Boeri o Cottarelli, bensì il sindaco di Crotone, facendosi forse un autogoal nell’indicare un problema vero. L’Italia infatti è l’unico paese in cui – a stare alla dichiarazione dei redditi – gli operai hanno un reddito più alto degli imprenditori. Ovunque, e massimamente al Sud.
Ebbene, l’autorizzazione contenuta nel Def Lega-Cinquestelle ad accrescere i tributi locali, che sono i meno progressivi di tutti, si mangerà ampiamente questa cifra (i 5 miliardi scarsi). I tributi locali erano nel 1975 appena lo 0,9% del carico fiscale totale; sono cresciuti al 5,4% nel 1995, per poi esplodere fino al 16,5% nel 2014. Un percorso inverso a quello seguito dalle tasse incamerate dal governo centrale scese dal 62,7% del 2005 al 53,4% nel 2015 (il sole 24 ore, 30 novembre 2016). Si tratta della normale conseguenza del federalismo fiscale che comporta, attraverso i tributi locali, un aggravio fiscale sui lavoratori salariati. I tributi locali erano rimasti fermi per un triennio; il governo Conte ne ha deciso lo sblocco, ed è parecchio curioso che i commentatori di Jacobin analizzino il Def e i suoi effetti senza tener conto di questo “particolare”, che inciderà, e come, sui bilanci delle lavoratrici e dei lavoratori.
Quanto alla quota 100 per andare in pensione, staremo a vedere come andrà a finire. Difficile che con le penalizzazioni previste (dal 5 al 34%) risulti appetibile agli operai comuni. È molto più probabile che lo sia invece per i dipendenti statali o para-statali con stipendi medio-alti (i medici delle Asl, per esempio). Di sicuro non dispiace a un certo numero di industriali che contano di disfarsi di dipendenti anziani con vecchi contratti collettivi di lavoro e produttività declinante per soppiantarli con stagisti o precari da superspremere e sottopagare. Una sostituzione che riduce comunque la massa totale dei salari operai a favore della massa totale dei profitti.
Quando parliamo di partita di giro, intendiamo dire che un certo numero di proletari/e in condizioni di povertà (vedremo quanti) riceverà qualche modesta integrazione, molto condizionata e molto condizionante, del proprio magrissimo reddito; alcune decine di migliaia di operai logorati dallo sfruttamento padronale potranno anticipare la loro meritatissima pensione (con una decurtazione della stessa); ma la copertura delle relative spese statali sarà comunque a carico della classe lavoratrice nel suo insieme, della massa totale dei salari, diretti e indiretti poiché il governo non ha accresciuto il prelievo sul capitale. Anzi, il dono alle partite IVA e i con-doni per gli accumulatori evasori seriali sono anticipi di futuri abbattimenti di tasse generalizzati per questa platea di non proletari, molto spesso aggressivamente anti-proletari.
E scommettiamo che nel passaggio in parlamento le lobbies dei grandi padroni, delle banche, delle assicurazioni sapranno ungere le ruote giuste per ottenere parte almeno dei “miglioramenti” che vogliono. Sentite cosa dice uno dei due demagoghi: “siamo pronti a dismissioni di immobili (…), siamo pronti a maggiori tagli agli sprechi, siamo eventualmente anche pronti a clausole di salvaguardia che mettano al riparo dallo sforamento del deficit. (…) Noi con la nostra ricetta stiamo cercando di andare incontro a quello che Draghi vuole come obiettivo: se riusciamo a abbassare il debito, riusciremo anche a tranquillizzare i mercati” (intervista di Di Maio al Corriere della sera, 18 novembre). Fin qui le parole, seguiranno i fatti. Si è già visto cos’è diventato, per strada, il celebre decreto-dignità che doveva incenerire il Jobs Act e ridare dignità ai lavoratori (!?) – a proposito, qualcuno se lo ricorda più?
Ma allora, perché tutto questo casino?
Se le cose stanno così, viene da chiedersi perché mai il FMI, la BCE, la Commissione europea, la ventina di banche e fondi di investimento che comandano sullo spread (insieme a Draghi), le agenzie di rating statunitensi, la Confindustria, Macron, il governo olandese, gli amici di Salvini Orban e Kurz, etc., abbiano inviato a Roma una serie di minacce, moniti e consigli.
La preoccupazione che unisce questi circoli e funzionari del capitale è la seguente: l’economia mondiale è seduta su un campo minato di bombe disseminate ovunque e pronte ad esplodere a catena – i segni che vengono da almeno un mese da Wall Street, e proprio dalle regine del web (Google, Facebook, Apple), sono inequivocabili. Il debito di stato italiano è una di queste bombe. La situazione generale globale è così critica che può bastare una manovra speculativa di una qualche entità sull’Italia per provocare una sequenza incontrollabile di reazioni tali da precipitare il mondo, che già soffre di una gigantesca sovrapproduzione nascosta, in una recessione globale più devastante di quella del 2008-2009. Per cercare di evitarlo, la ricetta quasi-universale è comprimere, comprimere, comprimere il valore e i diritti democratici della forza-lavoro. In questo modo, è fuori dubbio, si accresce la sovrapproduzione, che si può tentare, però, di tamponare con l’indebitamento privato, utile anche ad incatenare i salariati a una fatica crescente. Gli apprendisti stregoni si ingegnano a rinviare lo show down, non disponendo di altre soluzioni ai propri guai. Queste sono le leggi, sovrane (qui il termine è appropriato) e cieche, di funzionamento antagonistico del capitalismo. Leggi che non è dato cambiare con decisioni politiche, pure se portano con certezza matematica al caos generalizzato. Che è sempre più dietro l’angolo. Dunque il governo Lega-Cinquestelle deve stare molto attento a non essere l’innesco dell’esplosione a catena.
Fin qui la preoccupazione comune dei pescecani sopra elencati. Siamo tuttavia ben lontani da un assedio globale al farlocco “sovranismo” del duo Salvini-Di Maio per la loro difesa intransigente del “popolo italiano”. Dalla Russia e dalla Cina sono arrivate aperture di credito, e caute disponibilità ad acquistare un po’ di Bot (ma non certo per perderci). Da Washington, che conta ancora qualcosa nel mondo, giusto?, né minacce, né moniti, né consigli. Al contrario, un incoraggiamento. E un premio speciale: essere esentati per 6 mesi dalle sanzioni contro l’Iran. Forse l’amministrazione Trump è intervenuta anche sulle corrottissime agenzie di rating yankee perché non calcassero troppo la mano con gli Italian good boys dal momento che per Trump, Bannon e i sagaci ministri di Goldman Sachs sono un utile grimaldello per logorare e scassare l’UE. A tutt’oggi pure i padroni dello spread hanno agito con una certa moderazione. L’impennata vorticosa dello spread a 400 punti e oltre, invocata a gran voce da Repubblica, dal Pd e da Forza Italia, non c’è stata. Non c’è stata grazie anche alla posizione presa dalla BCE, dove Draghi sta dando un buon aiuto al governo italiano con il prospettare la continuazione del QE. Quanto al padronato di Confindustria, ha alternato aperture a posizioni più dure delle strutture provinciali del Nord che temono la rottura con il nucleo forte dell’UE dove esportano le loro merci. Una rottura che gli industriali del Nord Est non vogliono, ma potrebbe avvenire per effetto di processi che sfuggono di mano a chi li ha attivati.
Certo, c’è tensione tra Roma e la Commissione europea, in particolare con alcuni suoi membri. Ad esempio l’Austria del governo “sovranista” e fascisteggiante di Kurz è in prima fila nel chiedere sanzioni all’Italia perché aspira, nel caso il caos aumenti, a rimettere le mani sul Trentino-Alto Adige, mentre manovra per portare in Carinzia, con offerte di agevolazioni fiscali da sballo, intere fette dell’apparato produttivo del Nord Est. L’Olanda, che insieme al Lussemburgo è il paradiso fiscale n. 1 in Europa (è lì che la Exor della famiglia Agnelli ha trasferito la sua sede legale e fiscale), non intende permettere a Roma di contenderle tale primato facendo deficit. La Parigi di Macron, della Total, di Axa e Société Générale ha ingaggiato una lotta a coltello con l’Italia e l’Eni per il controllo della Libia e altri grandissimi affari di petrolio, e sogna, accrescendo la destabilizzazione della situazione italiana, di arraffare Mediobanca e, soprattutto, Generali.
In un’Europa in stagnazione, in continua perdita di colpi e di spazi sul mercato mondiale, in un’Europa che nonostante tutto continua a essere una giungla di nazionalismi, sono in molti a giocare contro il governo Lega-Cinquestelle. Ma l’oggetto del contendere non è lo scontro tra differenti politiche economiche, ordoliberismo contro keynesismo, e meno ancora tra amici dei padroni (la UE) e amici dei lavoratori (i fasciostellati): è tra interessi nazionali (dei rispettivi capitali nazionali) e delle grosse imprese/banche che sono divergenti e sempre più difficili da conciliare.
Se la Commissione di Bruxelles sanziona l’Italia dopo aver socchiuso gli occhi su simili violazioni da parte di Germania e Francia, è solo perché prevale al suo interno l’interesse di più paesi a creare tensioni in Italia. Noi “lavoriamo affinché ci sia pace sociale nella società“, sostiene Di Maio nella sua intervista al Corriere. Lo dice in riferimento al vasto e profondo malcontento sociale che si è accumulato per decenni tra i proletari e in vaste aree dei ceti medi, e ne teme la possibile reazione nel caso in cui i due pilastri del successo grillo-leghista, reddito di sudditanza e superamento della Fornero, dovessero crollare. Ma l’identico problema, impedire che esploda lo scontento sociale diffuso ovunque e in via di acutizzazione (vedi Francia), turba i sonni degli altri governi europei. Quindi: mors tua, vita mea. La regola vale pure per i cosiddetti “sovranisti”. Orban non accetta un solo immigrato approdato in Italia. Kurz strepita perché l’Italia venga punita (a vantaggio dell’Austria). Le Pen e Melenchon abbozzano ma – sia chiaro – in nome della Francia-prima-di-tutto, e così via.
Né “sovranismo”, né europeismo…
Insomma ai due demagoghi professionali (Salvini fa politica di mestiere da trenta anni trenta, Di Maio è il figlioccio di un demagogo professionista quale Grillo, e pure lui non ha fatto altro nella vita) strepitare contro l’UE serve da un lato a difendere gli interessi del capitalismo italiano, dall’altro ad attribuire a nemici esterni la colpa per il mancato miglioramento della situazione degli “strati popolari” che li hanno investiti di fiducia. Per i lavoratori, invece, questo “sovranismo” da pagliacci è insieme truffa e veleno. Perché truffa ci sembra di averlo spiegato. Ma anche veleno perché serve esclusivamente a scatenare ostilità tra proletari autoctoni e immigrati, tra proletari italiani e proletari degli altri paesi europei, mentre abbiamo interesse ad unirci, per lottare insieme contro gli sfruttatori nazionali, la BCE, la Commissione UE, il FMI e quant’altri succhiano il nostro sangue. L’investitura di fiducia (in prevalenza passiva) data da molti proletari ai Salvini e ai Di Maio per la giusta disillusione verso tutti gli altri, e anzitutto verso il Pd, è mal posta. Il loro finto “sovranismo” gli farà solo del male. È il caso di rottamarlo il prima possibile.
Rottamarlo sia nelle versioni di destra che in quelle di sinistra. Abbiamo ascoltato la registrazione dell’intervento di Sapelli, un altro guru dei “sovranisti” nostrani, al convegno milanese di Patria&Costituzione dell’ex-Pd Fassina. Sembrava di stare negli anni ’50 del secolo scorso. Ah, quanto è stata grave la perdita del Pci. Ah, quanto è attuale la politica di Togliatti e Amendola di blocco tra classe operaia e piccole-medie imprese. Ah, quanto sarebbe da recuperare il concetto rivoluzionario di patria. Peccato che il corso storico del capitalismo abbia spianato in Europa i partiti riformisti a base operaia ovunque; che la politica di Togliatti e Amendola abbia contribuito a questo risultato; che le basi di un “nuovo compromesso” tra capitale e lavoro in Europa, e in specie in Italia, siano venute meno per la concorrenza spietata degli Stati Uniti e per l’avanzata travolgente della Cina e dei nuovi capitalismi; che siamo entrati da decenni nell’era del capitale finanziario globale al cui feroce dominio non si può sfuggire creandosi un cantuccio protetto, da cosa poi, da barriere doganali? Il passato totalmente idealizzato da Sapelli e altri minori di lui, non può tornare, non tornerà. Il terreno dello scontro tra capitale e lavoro è più che mai internazionalizzato, e lungi dall’essere alla vigilia di un nuovo spettacolare “miracolo economico”, siamo dentro la più profonda e sconvolgente crisi dell’intera storia del capitalismo, che un po’ alla volta sta erodendo le basi anche del “miracolo cinese”.
Del resto basterebbe vedere come sta affondando nel caos e nel ridicolo quella Brexit che, a stare ai suoi promotori, doveva riportare Londra ai fasti dell’impero coloniale. E si ritrova invece con ministri dimissionari o in lacrime, furiosi accoltellamenti nel partito conservatore, rinnovate pulsioni separatiste di Scozia e Irlanda del Nord, pil ai minimi in Europa, il crollo della sterlina, banche che traslocano a Francoforte, famosi atenei che temono perdite miliardarie, gente comune che comincia a fare scorta di medicinali, cibo, carburanti, con gli infermieri che scarseggiano a causa della stretta sull’immigrazione e la Spagna che s’impunta su Gibilterra. Ovviamente, è ciò che più ci interessa, dei formidabili benefici promessi ai lavoratori britannici non si vede neppure l’ombra. È stata una truffa in piena regola, come avevamo predetto. E sembra che settori di lavoratori se ne stiano rendendo conto.
Ripudiare allora il sovranismo per una qualche forma di europeismo? Un europeismo che abbia nel suo programma di democratizzare l’Europa, di trasformare l’autocratica e autoritaria Europa germano-centrica delle banche e delle super-burocrazie in una Europa dei popoli, rappresentativa, partecipata, federale, portatrice al mondo di un “New Deal internazionalista”, capace di generare dalla propria testa, come Minerva, una nuova “Primavera europea”, l’Europa mitica che è nei sogni di Varoufakis e De Magistris? Neanche per idea. Si tratta solo di illusioni senza sostanza e senza futuro, già bruciate dalla storia reale della costruzione europea degli ultimi 70 anni, andata non per caso nella direzione diametralmente opposta, e dalla storia del tardo-capitalismo reale che prepara e annuncia catastrofi, altro che primavere!
…internazionalismo di lotta!
A questo punto della storia dell’Europa e del mondo capitalistico la sola primavera possibile è quella della rivoluzione sociale anti-capitalista che sradichi i molteplici antagonismi di cui si nutre il capitale: l’antagonismo capitale-lavoro, capitale-natura, capitale-genere femminile, capitale imperialista-supersfruttati di colore. E la sola via che può realmente farci incamminare in questa direzione e uscire dall’interminabile tunnel dei sacrifici è quella della lotta: la lotta contro il governo Lega-Cinquestelle, contro l’Unione europea e contro i “mercati globali” incardinata nella prospettiva dell’internazionalismo proletario.
Fantasie? Ai nostri critici “sovranisti” a cui questa prospettiva appare come qualcosa di idealistico, di astratto, obiettiamo: orbi, non vedete che sono già iniziati gli scioperi internazionali dei lavoratori di Amazon, di Ryanair, di Google? non vedete che da due anni esiste un movimento internazionale delle donne partito dalle due Americhe? non vedete come si è internazionalizzata la marcia dei coraggiosi emigranti centro-americani che sta ora sfidando la fortezza di Trump? non vedete che in Italia il più energico movimento di lotta, quello dei proletari della logistica stretti intorno al SI Cobas, è internazionale già nella sua stessa composizione e sempre più si sta proiettando verso iniziative internazionaliste? non vi dice nulla che sei-sette anni fa, istintivamente, le masse oppresse del mondo arabo cercarono di muoversi insieme all’unisono contro i propri tiranni interni sostenuti dai satrapi del capitale globale, perché solo su questa grande scala possono avere chance di vittoria? e c’è forse una soluzione che non sia globale al precipitoso degrado dell’ambiente? si può fermare il montante militarismo altro che con una battaglia internazionalista delle classi sfruttate contro il montante pericolo di una nuova spaventosa cerneficina mondiale?
Venendo all’Europa di Bruxelles e alle sue pluridecennali politiche anti-operaie, come si fa a non capire che la battaglia per spezzare le catene del Fiscal Compact, del debito di stato, delle politiche di sacrifici senza fine, è una battaglia da dare unitariamente come proletari che vivono in Europa? All’europeismo che, in un modo o nell’altro, mette in concorrenza e contrappone i proletari dell’Europa a quelli degli Stati Uniti, della Cina, della Russia; al “sovranismo” che scaglia i proletari italiani contro i proletari immigrati, e accentua la loro concorrenza con i proletari delle altre nazioni, in Europa e fuori; opponiamo la prospettiva del fronte unico di lotta degli sfruttati internazionale e internazionalista per riconquistare il terreno perduto in termini di salari, orari, diritti, dignità, organizzazione della nostra forza.
Una prospettiva di attesa fin che non si decidono tutti i proletari a partire nello stesso istante con gli orologi sincronizzati? Che obiezione puerile (fu fatta da Cremaschi)! Sosteniamo al contrario che non sarà mai troppo presto tornare alla lotta per rompere la pace sociale cara a Salvini/Di Maio, al padronato italiano e alla UE, per imporre forti aumenti salariali egualitari sganciati dalla produttività e dalla competitività, per conquistare altrettanto forti riduzioni generalizzate di orario, per tagliare il nodo scorsoio del debito di stato, per rimandare al mittente l’assalto ai più elementari diritti strappati con la lotta dalle donne, per segare le spese militari e ritirare tutte le missioni di guerra attive nel mondo, per imporre la sola “grande opera” utile alla società, la messa in sicurezza del fragile territorio, e per tutto il resto.
Qualcosa ha iniziato a muoversi dopo la forte manifestazione del 27 ottobre a Roma. Non accontentiamoci di risposte parziali, della sola lotta al razzismo di stato o al ritornante patriarcalismo. Battiamoci per una risposta generale, unitaria all’intero fronte dei nostri nemici. Che stanno anzitutto lungo l’asse Roma/Milano, palazzo Chigi/Viminale/Borsa. E poi, certo, a Francoforte, a Bruxelles, a Washington, ovunque ci sono presidii militarizzati del capitale globale (i circoli dominanti di Mosca e Pechino ben inclusi nel mazzo). Una risposta, perciò, internazionale e internazionalista, che si saldi con le altre spinte di lotta che stanno in più paesi manifestandosi.
È questa la vera sfida da lanciare e da vincere!
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