di ANTONIO PERCOCO (FSI Brescia) e MARCELLO VEZZOLI (FSI Brescia)
Il D.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, altrimenti noto come Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro, fin dalla data della sua entrata in vigore è stato dipinto a reti unificate come un prestigioso fiore all’occhiello del nostro ordinamento giuridico. Il sentire di gran lunga prevalente, in merito a tale strumento normativo, è condensabile grosso modo nella seguente opinione: “Il Decreto 81 personifica un grande traguardo storico raggiunto dalla nostra legislazione, ma ahinoi risulta costantemente disatteso e aggirato da un sistema mistificatore e deviato. Se esso fosse attuato fedelmente, le cose andrebbero certamente per il meglio”.
Stando così le cose, potremmo anche considerare concluso il nostro intervento e salutarci, scontenti, ma alleviati dal tarlo del dubbio. In fondo, in quest’ottica si tratterebbe della solita tiritera sulla disonestà, corruzione e sulle proverbiali inefficienze nostrane, con buona pace della tribù giustizialista di estrazione qualunquista e pentastellata.
Purtroppo, la situazione, per come la discerniamo noi, ancorché prima facie si presenti tutt’altro che complessa, in realtà lo è, eccome!
Anzitutto, in via preliminare, ci premuriamo di esordire rammentando ai lettori, e a noi stessi, una considerazione giuridica di valenza universale: il monumentale Decreto 81 (306 articoli e 51 allegati), al pari di ogni altro dispositivo normativo, deve certamente essere l’oggetto teorico di un’attenta esegesi dottrinale, ma, ancor più, al fine di esser compreso al meglio in tutte le sue implicazioni, necessita di esser vissuto al suo interno, calandone l’impianto normativo nella totalità sociale, economica, giuridica, di cui è partizione integrante ed espressione istituzionale.
Addentrandoci più a fondo nel merito del tema, rileviamo che uno dei jolly concettuali, più inflazionisticamente giocati dai suoi entusiasti estimatori, riposa nel refrain retorico secondo cui il gran vanto epocale di questa importante fonte normativa si situerebbe presuntivamente nella mirabile svolta, propinataci con toni altisonanti come rivoluzionaria, costituita dall’aver finalmente coinvolto i lavoratori medesimi, direttamente interessati, nel registro delle responsabilità principali attinenti alla cura dei beni pubblici della sicurezza e della prevenzione (e quindi del loro stesso diritto alla salute), elevandoli finalmente al proprio legittimo rango di protagonisti, tanto che, al termine della sviolinata, ci sentiremmo quasi incitati a gridare coralmente “fiat lux”.
Lungi dal farci incantare dalle tante cerimonie e sventolii di bandiere mainstream, riteniamo piuttosto doveroso interrogarci sull’effettivo inverarsi di questa apparentemente decisiva novità e, in caso affermativo, su quanto essa abbia concretamente recato servigio al bene degli stessi lavoratori e della collettività nazionale, potenziando di diritto e di fatto il livello delle protezioni complessive.
Senza far troppi misteri, anticipiamo subito seccamente come la nostra valutazione a questo riguardo sia assai negativa.
La tesi che abbiamo scelto di caldeggiare (nell’economia della quale questo intervento vuole essere piccola anticipazione, a mo’ di preludio in vista di futuri approfondimenti) maturata sulla scorta di una ventennale esperienza sul campo, dapprima nelle sole vesti di operai, successivamente anche in quelle di RLS (Rappresentante dei lavoratori sulla sicurezza) e di Rappresentanti sindacali, è volta a suscitare il dubbio che questa peculiarità, spacciata sovente per punto di forza baricentrico del Testo Unico, nonché suo cuore pulsante, tale da essere assimilata ad un virtuoso traguardo autotutelare messo a disposizione del popolo dei lavoratori, sia invero una minacciosa sofisticheria che, all’ombra dei propositi dichiarati, tradisce mortalmente gli stessi, costituendone, invece, gravissimo vulnus.
Anzitutto, volendoci meglio addentrare nei contenuti, alla domanda se sia stata in effetti incorporata nel Testo Unico questa supposta previsione di maggior coinvolgimento nella sfera delle responsabilità della classe lavoratrice subordinata, rispondiamo affermativamente. Contrariamente, all’interrogativo se tale mutamento abbia recato effettivo giovamento alla stessa, purtroppo, non potremmo rispondere in altro modo che negativamente.
Osserviamo, in prima battuta, come lo statuto concettuale fatto proprio dalla vulgata miri a propagandare surrettiziamente la tesi secondo cui, a lavoratori maggiormente coinvolti nelle proprie vicende sensibili (quali sicurezza, igiene e prevenzione in materia di salute psicofisica), essendo essi i principali attori interessati, sarà riconosciuta l’effettività del sacrosanto diritto di salvaguardare i suddetti beni, elevando le persone fisiche coinvolte a quel che si presume essere il tanto sospirato ruolo di decisori di ultima istanza. Ambiziosa e lodevole conquista, verrebbe da sentenziare! Quale lavoratore, infatti, non avvertirà come pregnante l’interesse a proteggere se stesso, la propria integrità psicofisica, il proprio benessere e, quindi, la stessa sua vita? Di più: laddove il soggetto non operasse correttamente seguendo questo virtuoso indirizzo, non sarebbe forse congruo, anche moralmente, incorresse almeno in parte nelle conseguenze legalmente previste?
Argomentazioni a colpo d’occhio suggestive e niente affatto facili da smontare, nondimeno, come ben sappiamo, il diavolo gioca a nascondino proprio nei dettagli. Giunti a questo punto, suggeriremmo di arretrare di un passo e rifocalizzare l’attenzione sull’affermazione di principio pronunciata dianzi, la quale, ricordiamo, ci ha esortato ad aver sempre cura di contestualizzare, qualsivoglia fonte normativa, nella vastità della propria cornice di riferimento. Ragion per cui, è altamente raccomandabile volgere lo sguardo all’effettivo contesto, complessivamente inteso, nella fattispecie riservando un particolare riguardo al paesaggio giuslavoristico nostrano.
In vista di questo scopo, riteniamo utile riflettere attentamente su come, nell’intimo di una dimensione autotutelare funzionale a perseguire una sorta di virtuosa autodeterminazione dei soggetti, sia di necessità postulata la libertà del soggetti stessi di poter esercitare, senza condizionamenti di sorta, i propri diritti e, si badi bene, anche i propri doveri, per cui, in virtù di tale asserto, ci domandiamo: potrebbe forse dirsi abilitato a rivendicare tale condizione di autonomia decisionale un attore che, putacaso, non godesse della piena libertà, ma essa si trovasse per lui in qualche modo materialmente contratta, limitata o addirittura esclusa?
Orbene, prendendo in esame il nostro ordinamento, è utile ricordare fino alla noia come esso sia addivenuto, a seguito di un’escalation legislativa ultraventennale progredita a tambur battente, a uno stato di dilagante “flessibilizzazione” del mercato del lavoro, mediante un burrascoso proliferare di tipologie contrattuali, benché marginalmente diversificate, tutte quante puntualmente caratterizzate dal comune denominatore della determinazione di durata (i cosiddetti contratti a termine) integranti una vera e propria esondazione del fenomeno della precarizzazione a tappeto (non men gravi i recenti sciagurati smantellamenti chiamati eufemisticamente riforma dell’Art. 18, rubricati con la scandalosa dizione “Tutele crescenti”) colpevoli di avere impotentemente esposto enormi masse di lavoratori (via via rese sempre più sterminate dal copioso rimpolpamento dell’esercito industriale, a seguito dei ben noti oceanici flussi migratori) all’arbitrio del capitale globalizzato e allo strapotere della rendita finanziaria.
Le derive drammatiche di questo inglorioso capitolo storico, hanno conclamato e coronato definitivamente la luttuosa stagione del tramonto dei diritti sociali, trafiggendo il cuore del diritto sociale per eccellenza; il sancta sanctorum dei diritti sociali, condizione imprescindibile, asse portante e volano virtuoso, posto a garanzia dell’effettività di tutti gli altri diritti, ossia IL DIRITTO AL LAVORO, il quale, svuotato della sua linfa assiologica, diviene LAVORO SERVILE A TUTTI GLI EFFETTI, in quanto tale intimamente desostanzializzato della sua vitale radice di libertà, costituzionalmente considerata.
Volendo tirare le prime somme, approssimandoci verso la conclusione del ragionamento e sempre orientati verso una visione olistica, nel caso di specie, non nascondiamo la nostra propensione a sposare la tesi dell’esplosività dirompente, distruttiva, generata dal combinato disposto tra l’innegabile devitalizzazione dell’anzidetta libertà di autodeterminarsi (patita appunto dal lavoratore massificato e globale moderno, stabilmente precario) e la fonte normativa in discorso (all’opposto improntata e retta formalmente dal principio guida della libertà del lavoratore di autodeterminarsi) garantendogli impositivamente, senza se e senza ma, autonoma tutela della propria persona, tramite l’estrinsecazione del diritto/dovere di controllo, vigilanza, segnalazione e finanche rifiuto di rendere la prestazione, in caso sia presente un “oggettivo” rischio.
Ebbene, a ragion veduta, enunciamo quanto tale binomio si sia dimostrato esiziale, integrando una gravissima è subdola forma di discrasia tra diritto formale e diritto sostanziale, responsabilizzando proditoriamente la massa dei soggetti lavoratori, resi sempre più precari ed esposti in qualità di detentori della sola nuda vita, ad agire obbligatoriamente in via personale, mettendoci per così dire la faccia, pur non disponendo affatto dei mezzi stessi della libertà in quanto aggiogati al carro dell’arbitrario potere decisionale padronale. Lavoratori, perciò stesso, resi indifesi dinanzi allo scontato, quasi inevitabile, verificarsi dei bombardamenti ritorsivi di chi li comanda, perpetrabili dietro l’egida di una impenetrabile guarentigia di impunità.
Tali riscontri documentano, altresì, il logico imporsi, nei procedimenti istruttori di infortunio, di responsabilità giuridiche ultradiluite la cui massa critica andrà, peraltro, a gravare sempre più con maggiore incidenza sugli anelli deboli della catena socio produttiva, i quali, strangolati in questa tagliola e incalzati dalla pressione di ritmi produttivi sempre più vertiginosi, in ragione di tali motivazioni, non potendosi non accollare i suddetti rischi legali, saranno incrementalmente sempre più soggetti al deprecabile accadimento di infortuni lavorativi, accettando per soprammercato di spalmare anche su se stessi responsabilizzazioni indebite, che, a rigor di logica, dovrebbero gravare preponderantemente (ovviamente salvo i casi particolari di dolo e colpa grave) su una classe datoriale sempre più prepotentemente dotata di potere decisionale e disciplinare.
Proseguendo, accusando ancor maggiore preoccupazione segnaliamo che, per quanto concerne la sfera delle patologie professionali, i dipendenti saranno ancor più drasticamente impossibilitati a mettere in campo una qualsivoglia forma di efficace salvaguardia, poiché, se è pur vero che nell’ambito del singolo evento traumatico infortunante (pur con tutte le riserve inferibili dal nostro discorso) le responsabilità e le dinamiche saranno, almeno potenzialmente, rintracciabili contestualmente (rendendo possibili brillanti istruttorie, almeno nei casi più eclatanti) contrariamente, in costanza di malattie professionali cronico degenerative, sprovviste appunto della visibilità di un momento patogenetico incriminato, bene identificabile, si subirà la conseguenza di rendere irrilevante e irrintracciabile l’episodio causale nella genesi della malattia (il cosiddetto nesso eziologico) proprio a causa della ovvia indeterminatezza di esordi patologici proiettatati in un futuro inconoscibile e sperdutisi nell’oblio del passato, una volta avvenuti.
La diabolica ripercussione, in quest’ultima classe di casistiche, sarà che la palude dei lavoratori precari, ufficialmente informata di tutto e sulla carta pienamente legittimata ad astenersi da esposizioni nocive o operazioni usuranti (mentali o fisiche, non fa differenza) ove dovesse zelantemente procedere in via autotutelare, con ogni probabilità si esporrebbe a petto nudo al fuoco nemico, venendo fatta oggetto di ingiuste rappresaglie, dal cont assai salato ma indimostrabili giudizialmente (si voglia considerare anche lo spettro inquietante del mobbing, tanto dibattuto in dottrina e giurisprudenza) giusto perché liberamente esperibili da linee gerarchiche aziendali dotate della licenza assoluta di colpire i malcapitati perché pienamente legittimate in tal senso, per esempio non rinnovando contratti di lavoro senza esser legalmente tenute ad addurre la benché minima motivazione.
Avremo, quindi, ciò che di fatto abbiamo già e che misuriamo quotidianamente sulla nostra pelle e su quella martoriata di ciò che resta del violentato sistema di diritto in cui viviamo: esseri umani vessati senza riparo, che, paralizzati, patiscono giorno dopo giorno l’impossibilità di esercitare i diritti e i doveri sanciti e prescritti ipocritamente da quello stesso sistema farisaico che, nel momento stesso in cui concedeva alla parte privilegiata di menare le mani a proprio piacimento, ammanettava quelle della controparte, Cenerentola concretamente passibile di essere bastonata e umiliata, solo per aver correttamente scelto di esercitare i diritti/doveri di cui sopra. Una sorta di perverso scacco matto, se vogliamo; appunto una palude di sabbie mobili, dove la scelta ultima, pendente come una mannaia sul collo della parte più indifesa e numerosa, sarà unicamente dettata da considerazioni scandite dal classico calcolo costi-benefici, in cui il beneficio sotteso è un po’ assimilabile concettualmente alla dimensione del “prestito” concesso dall’usuraio alla vittima.
Per il precario che se ne sta incastrato tra incudine e martello, è preferibile rischiare di ammalarsi gravemente tra uno, cinque, dieci o vent’anni (perdendo eventualmente anche l’idoneità alla mansione, con relativo licenziamento) ma intanto avere quell’unico lavoro, oppure rifiutarsi di assumere rischi indebiti, nella quasi certezza di perdere il posto, poiché annusato come lavativo? Meglio correre il rischio di un infortunio, perfino grave o mortale, assoggettato per giunta all’incombente aggravante del concorso di responsabilità colposa, ma intanto almeno poter sbarcare il lunario e tirare a campare, oppure mettersi a far storie contro i mulini a vento, per poi ritrovarsi puntualmente con il ben servito, allo sbando e per giunta con una pala tra i denti? È facile parlare, ma per i tantissimi che con famiglia a carico abbiano scelto di vivere onestamente, la decisione non lo è altrettanto. Mai!
L’epilogo della presente riflessione ci riporta al titolo che le abbiamo voluto assegnare, curiosamente suggeritoci dalle considerazioni suscitate in noi a seguito di un colloquio avuto con un dermatologo di nostra conoscenza: “vedete, tantissimi nei, molto brutti esteticamente, e apparentemente sospetti, in realtà sono innocui. Quelle potenzialmente molto pericolose, sono spesso proprio formazioni che passano inosservate, giusto perché hanno un aspetto anonimo e del tutto tollerabile”.
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