Liberalismo, Democrazia, Sovranità
di SINISTRA IN RETE
Moreno Pasquinelli intervista Alessandro Somma
Alétheia si confronta con il noto professore di Diritto Comparato autore di “Sovranismi”
Alessandro Somma è stimato professore ordinario di Diritto comparato all’Università di Ferrara. Per DeriveApprodi ha appena pubblicato il saggio Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale. Si tratta di un testo ad alta densità teorica che, dopo aver ricostruito il dibattito filosofico e politico sul concetto di sovranità, giunge sino alla nascita degli Stati costituzionali di diritto, quindi all’oggi. Somma considera che la Costituzione della Repubblica italiana rappresenta uno dei momenti più alti del costituzionalismo moderno, poiché i suoi capisaldi sono la democrazia economica e l’eguaglianza sostanziale. Proprio per questo, essa è fatta oggetto di un’aggressiva decostruzione da parte delle forze neoliberiste. Va dunque difesa, non per un mero ritorno al già stato, ma poiché sulle sue basi è di nuovo possibile immaginare un’alternativa all’ordine sociale e politico esistente.
Alétheia ha intervistato Somma, intanto per rendere esplicito ciò che sembra implicito in Sovranismi, poi per comprendere quale sia il suo giudizio sul delicato momento politico che attraversa il nostro Paese.
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La Costituzione del ’48 è in assoluto la protagonista del tuo libro. Sembra di capire che tu ritenga che contiene il punto geometrico di equilibrio tra democrazia e capitalismo, altrimenti destinati a confliggere. Davvero possono coabitare capitalismo e democrazia?
Penso che la Costituzione individui un punto di equilibrio ottimale tra capitalismo e democrazia, ma penso anche che si tratti di un equilibrio assolutamente instabile: destinato a essere messo in crisi e a produrre il superamento del capitalismo o quello della democrazia. Sul finire dei ’30 gloriosi si sono intrapresi passi significativi nella prima direzione, tanto che poi si è subito imposta la seconda, significativamente descritta in termini di ritorno alla normalità capitalistica.
Restiamo alla Costituzione. Tu ritieni che la Carta sia un risultato avanzato di quello che definisci “Stato (costituzionale) di diritto” dal momento che respinge l’idea liberista del “mercato autoregolato” e contiene invece impliciti i concetti di “democrazia economica” e di “democrazia sostanziale”. Cosa intendi per “democrazia economica” e “democrazia sostanziale”?
È noto che il fascismo aveva azzerato le libertà politiche, ma solo riformato quelle economiche. Le aveva funzionalizzate al mantenimento dell’equilibrio e alla promozione dello sviluppo di un ordine capitalista, in quanto tale incentrato sulla concorrenza e la proprietà privata (non certo un ordine spontaneo, bensì una costruzione bisognosa di incisivi interventi dei pubblici poteri). Il tutto in linea con il pensiero neoliberale, sorto nel corso degli anni ’30 per affermare il dovere dello Stato di sostenere il funzionamento del mercato, e di farlo a qualsiasi costo: incluso l’azzeramento della democrazia politica.
La Costituzione è antifascista nella misura in cui, oltre a recuperare la democrazia politica, crea anche le condizioni per lo sviluppo della democrazia economica. Riorienta cioè l’azione dei pubblici poteri, chiamati a promuovere l’emancipazione della persona se del caso contro il funzionamento del mercato, che cessa di rappresentare l’orizzonte di senso dell’azione politica. In particolare, se l’ordine economico neoliberale chiedeva allo Stato di azzerare il potere economico per consentire il funzionamento della concorrenza, lo Stato costituzionale di diritto promuove lo sviluppo di contropoteri per contrastare l’esito del suo funzionamento (ad esempio tutela l’organizzazione sindacale per sottrarre la relazione di lavoro al principio del libero incontro di domanda e offerta). È questo il senso del principio di uguaglianza in senso sostanziale, che attiene alla costruzione di un ordine politico incentrato sulla giustizia sociale e a monte sulla valorizzazione del conflitto redistributivo come motore della democrazia economica.
I marxisti ortodossi potrebbero obiettare che finché esistono capitale da una parte (con le sue intrinseche leggi di movimento) e lavoro salariato dall’altra, non potrà mai esserci effettiva eguaglianza sociale, col che la “democrazia” resterebbe solo una finzione giuridico-formale.
Certo, ma il punto è come uscirne. Sono convinto che occorra conflitto sociale democratico (il conflitto redistributivo nel senso appena chiarito), che sia questo il modo di resistere alla forza attrattiva della normalità capitalistica e prima o poi uscire da capitalismo. Non vedo altre soluzioni.
Nella tua perorazione dello “Stato (costituzionale) di diritto” affermi, agganciandoti alla Chantal Mouffe, che esso è “la cornice comune entro cui sviluppare il conflitto (sociale e di classe, Ndr), equiparandolo ad un confronto tra avversari anziché tra nemici, ad un agonismo anziché ad un antagonismo”. La cosa lascia pensare che escludi la rottura rivoluzionaria ed il socialismo come alternativa al capitalismo, da cui verrebbe fuori che lo “Stato (costituzionale) di diritto” sarebbe non la forma più avanzata di Stato borghese, ma forma statuale più compiuta e definitiva. Non ti pare che un simile costrutto rassomigli ad uno “Stato corporativo” all’ennesima potenza?
Lo Stato costituzionale di diritto è l’antidoto contro il prevalere del capitalismo sulla democrazia, quindi il primo passo perché possa prima o poi emergere un’alternativa all’ordine capitalista. Lo è perché impedisce l’isolamento dell’individuo di fronte al mercato (o se preferisci di fronte allo Stato al servizio del mercato), perché promuove lo sviluppo di contropoteri in quanto presupposto per dar vita a un conflitto redistributivo equilibrato. Mi pare che questo sia uno schema radicalmente alternativo a quello corporativo, che invece mira allo scioglimento dell’individuo nell’ordine economico (o politico interprete dell’ordine economico). Non è un caso se lo schema corporativo si è sviluppato assieme all’ideale tecnocratico tanto caro al neoliberalismo, che attiene al confronto volto a far emergere il modo migliore di amministrare l’esistente. Laddove il conflitto cui prelude lo Stato costituzionale di diritto è anche quello volto a mettere in discussione il modo di essere dell’ordine economico, quello capace di scardinare la funzionalizzazione delle condotte umane cui mira il dispositivo neoliberale.
La tua condanna dell’architettura dell’Unione europea in quanto liberista ab origine – lo segnali parlando dei Trattati di Roma del 1957- è inequivocabile. Tuttavia, ad un certo punto, quando immagini un “europeismo costituzionale”, parli di “riavvolgere il nastro”, perorando un ritorno “alle idealità precedenti lo spirito di Maastricht”. Ci trovo una contraddizione.
I Trattati di Roma non sono certo estranei alla volontà di edificare l’Europa come dispositivo neoliberale. Sono del resto una prosecuzione della logica inaugurata con il Piano Marshall, per cui si concedeva assistenza finanziaria in cambio di un saldo ancoraggio all’occidente capitalista. E tuttavia quei Trattati recano tracce del loro tempo, ovvero degli schemi tipici dei Trenta gloriosi: parlano di stabilità dei prezzi, ovvero di controllo dell’inflazione e dunque di limiti alla spesa pubblica, ma anche di piena occupazione e quindi di sostegno della domanda. Inoltre, sino al principio degli anni Settanta, si affermava in termini espliciti che l’individuazione di una politica monetaria comune sarebbe giunta solo dopo la definizione di politiche fiscali e di bilancio comuni, ovvero solo dopo avere scelto se era più importante stabilizzare i prezzi o promuovere la piena occupazione. Infine, sebbene i Trattati parlino fin da subito di libera circolazione dei capitali, nel corso dei Tenta gloriosi nessuno aveva pensato di attuare questo principio: era ancora prevalente l’idea secondo cui lo sviluppo delle aree più povere si realizza con forme di redistribuzione della ricchezza, anziché con politiche destinate ad attrarre gli investitori.
Il quadro che ho qui riassunto esemplifica ciò che ho detto a proposito del fragile equilibrio tra democrazia e capitalismo, e la sua evoluzione quanto descritto in termini di forza attrattiva della normalità capitalistica. Maastricht ha impresso una notevole accelerazione a questa forza innanzi tutto attuando il principio della libera circolazione dei capitali: principio che ha imposto agli Stati di fare tutto il possibile per attrarre investitori stranieri, a partire dall’abbattimento dei salari e della pressione fiscale sulle imprese, misure incompatibili con la possibilità di sviluppare il conflitto redistributivo. Tornare a prima di Maastricht significa riaprire i giochi: cosa che, so bene, non comporta certo la possibilità di vincerli.
Comunque sia, reputo che la costruzione europea così come la conosciamo sia oramai irriformabile, sicché il tempo prima di Maastricht indica solamente alcune delle caratteristiche che potrebbe avere un ordine internazionale interessato, almeno inizialmente, a promuovere un accettabile compromesso tra democrazia e capitalismo.
Contro quelle che chiami “chiusure nazionaliste” avanzi l’idea di “un altro europeismo”, un’unione geopolitica di stati nazionali sovrani. Parli addirittura di estendere l’unione ai paesi della sponda sud del Mediterraneo. Qual è la differenza con l’idea gollista della “Europa confederativa delle patrie”?
Diciamo che le patrie cui guardava De Gaulle non sono esattamente le patrie a cui guardo io: strumenti per la promozione della democrazia politica ed economica. E diciamo anche che l’attuale Unione europea non è distante dall’idea di Europa delle patrie coltivata dal Generale: si occupa solo di sostenere l’ordine economico, e lo fa con un approccio intergovernativo. Dico questo non solo pensando alla circostanza che i Trattati considerano il Consiglio europeo, composto dai Capi di Stato e di governo, il principale organo dell’Unione, a cui si demanda la definizione degli indirizzi politici generali e l’indicazione delle priorità dell’azione politica. Di matrice intergovernativa sono anche i fondamenti dell’Europa intesa come dispositivo neoliberale, a partire dal Fiscal compact e dal Meccanismo europeo di stabilità (il cosiddetto Fondo salva-Stati).
Sostieni che “il ripristino della democrazia deve necessariamente passare dal recupero della dimensione nazionale” e aggiungi “dell’identità nazionale”. Tuttavia svolgi una dura critica degli identitarismi nazionalistici basati su fattori come etnia, religione, lingua. Cos’è dunque per te l’identità nazionale? E’ stabilita soltanto dal demos?
Il richiamo all’identità fondata sull’etnia e la religione è tipica dei dispositivi neoliberali: evocare valori premoderni serve per sterilizzare i conflitti prodotti dalla modernità capitalistica, per sciogliere l’individuo nell’ordine economico. Diversa è l’identità che invece preserva e anzi alimenta il conflitto sociale, che riguarda le modalità scelte per gestirlo e soprattutto per tradurre in pratica politica l’esito di quel conflitto. Anche questa identità attiene alla nazione, nel senso con cui questa espressione viene utilizzata nella Costituzione, dove compare come sinonimo di popolo: un popolo che rappresenta lo Stato-comunità contrapposto allo Stato-apparato, e che soprattutto non costituisce un’entità indivisibile. Tanto che l’esercizio della sovranità popolare presuppone la promozione dell’uguaglianza sostanziale, ovvero la redistribuzione della ricchezza cui mira il conflitto democratico (e che di quel conflitto costituisce il presupposto).
Critichi giustamente il cosmopolitismo (compreso quello “di sinistra”) in quanto oramai interno al discorso neoliberista. Habermas, sulla scia di Kelsen, è sicuramente uno dei padri del “globalismo giuridico”, una scuola che qui in Italia ha avuto ed ha come massimi esponenti Bobbio e Ferrajoli. Mi ha stupito che tu non abbia mai citato Danilo Zolo, quello che considero il massimo critico del “globalismo giuridico”, quindi del “vincolo esterno”, dell’idea cosmopolitica della dissoluzione degli stati nazionali. Invece citi più volte il liberale Dahrendorf.
Mi interessava mettere in luce il conflitto tra liberalismo economico e liberalismo politico, e Dahrendorf è un esponente importante di quest’ultimo (non a caso è anche un teorico del conflitto sociale, della sua utilità per il funzionamento degli ordini democratici). E come ho già detto reputo il liberalismo politico fondamentale per prevenire lo scioglimento dell’individuo nell’ordine economico, e comunque per ricavare spunti per elaborare forme di resistenza alla funzionalizzazione dei comportamenti umani al sostegno del suo equilibrio e alla promozione del suo sviluppo. Certo, Dahrendorf non si spinge a dire ciò cui miro: una società con molte libertà politiche e poche libertà economiche, ovvero fondata sulla combinazione opposta a quella che ha dato vita al fascismo. Ma se citassi solo chi ha scritto cose condivisibili in toto, finirei per citare solo me stesso… forse.
Riconosci che occorre fare una distinzione tra “il nazionalismo delle classi dominanti e il sentimento nazionale delle classi subalterne”. D’accordo, tant’è che noi riteniamo si debba opporre alla narrazione nazionalista, in quanto da tempo colonizzata dal fascismo, il patriottismo che ha in Italia radici antiche non solo democratiche ma socialiste. Patriottismo democratico versus revanchismo nazionalista (risorgente oggi nelle vesti di certo populismo di destra). Convieni che questa sfida per l’egemonia dev’essere portata collocandosi dentro lo stesso “campo populista” e giammai in connubio con l’élite neoliberista?
Diciamo che al momento la lotta politica è monopolizzata da uno scontro tutto interno al pensiero neoliberale: quello tra neoliberalismo globalista, incarnato al meglio dall’Unione europea, e neoliberalismo nazionale, ora rappresentato dai Paesi che si sono inventati la globalizzazione (Stati Uniti e Regno Unito). E diciamo che non trova spazio, almeno per ora, ciò di cui abbiamo bisogno: non certo una lotta tra Stati per la conquista dei mercati, bensì una lotta di Stati per combattere i mercati. È probabile che guardare al campo populista aiuti a raggiungere questo obiettivo, se non altro perché non ci sono molte alternative (almeno se si pensa che per larga parte della cosiddetta sinistra radicale la prospettiva sovranista è un odioso esercizio di rossobrunismo).
Non bisogna però nascondersi le difficoltà anche teoriche di un percorso che passi dal populismo. Non è un caso se uno dei punti più dibattuti delle teorie di Laclau è quella che attiene alla combinazione di populismo e l’imprescindibile riconoscimento dei conflitti interni al popolo: riconoscimento senza il quale non si intaccano lo scioglimento dell’individuo nell’ordine economico, ovvero un fondamento primo del neoliberalismo. Insomma, il populismo ci potrà aiutare, almeno per un pezzo di strada, ma solo se non diventa interclassismo.
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