Terre rare: le risorse per cui si combatteranno le guerre di domani?
di L’INDRO (Francesco Snoriguzzi)
Il Primo Mondo teme il vantaggio che, con le politiche dagli anni ’90, ha fornito ai cinesi
Il recente caso della Malesia che, pur di non rischiare di essere fagocitata dall’economia cinese, ha rinunciato agli affari legati all’estrazione delle cosiddette ‘terre rare‘, ha riportato in primo piano le questioni legate a questi minerali che, seppur poco conosciuti dal grande pubblico, hanno acquisito in pochi anni un’importanza tale da divenire strategici: in nome della protezione dell’ambiente, il Governo malese ha infatti spinto l’azienda specializzata australiana ‘Lynas‘ a sospendere le attività nel Paese. Quella malese è una posizione estrema che difficilmente sarà adottata da altri Paesi; nonostante questo, però, si inserisce in un dibattito che riguarda l’intera economia globale e, di conseguenza, gli equilibri geopolitici mondiali. Secondo alcuni analisti, infatti, la tensione sull’accesso alle terre rare sarebbe uno dei nodi principali alla base della guerra commerciale in atto tra Stati Uniti d’America e Repubblica Popolare Cinese.
Prima di tutto bisogna capire che cosa sono queste terre rare e perché sono così importanti. Le terre rare sono un gruppo di diciassette elementi chimici, i quali presentano caratteristiche che li rendono indispensabili per una grande quantità di prodotti tecnologici. Individuati per la prima volta nel 1787, gli fu dato il nome di ‘terre rare’; con il passare degli anni, si scoprì che questi elementi non solo non erano così rari come si pensava, ma avevano anche un grande potenziale tecnologico.
Oggi le tecnologie più avanzate si basano proprio su questi elementi: dalle fibre ottiche ai superconduttori, dai moderni magneti alle tecnologie touch-sceen, dalla produzione di energie rinnovabili al largo uso in campo militare. Questa larga possibilità di utilizzo rende le terre rare estremamente preziose. Anche se, come detto in precedenza, non si tratta di elementi realmente rari, la loro estrazione e la loro lavorazione sono estremamente difficoltose, oltre a presentare numerose incognite dal punto di vista ambientale.
È stato calcolato che il nostro pianeta ha delle riserve di terre rare che si aggirano attorno ai cento milioni di tonnellate: di queste, circa trentasei sono in territorio cinese, diciannove nelle ex-Repubbliche sovietiche, tredici negli USA; ve ne sono, poi, quantità non indifferenti in Australia, Sudafrica, Brasile, Vietnam, Canada, Malesia e India.
In un primo momento, quando ancora non si comprendevano le enormi potenzialità di questi materiali, gli unici Paesi ad estrarli erano, Sudafrica, Australia, Brasile e India a cui, in seguito, si aggiunsero gli USA. I cinesi, hanno iniziato ad estrarre terre rare solo a metà degli anni ’80 del XX secolo ma, nel giro di pochi anni, Pechino ha compreso l’importanza di tale mercato. Nel 1992, l’ex-Presidente della Commissione Consultiva Centrale ed ex-Presidente della Commissione Militare Centrale, Dèng Xiăopíng, di fatto l’uomo più potente della Repubblica Popolare Cinese, affermò che nel giro di pochi anni le terre rare avrebbero rappresentato per Pechino ciò che il petrolio rappresentava per i Paesi del Golfo Persico: la profezia di Dèng si è ampiamente avverata superando, se possibile, le previsioni del politico cinese. Nel 2009, infatti, il 97% dell’estrazione mondiale di terre rare veniva dalla Cina. Questo perché, nel frattempo, i Paesi che tradizionalmente erano dediti all’estrazione di questi materiali avevano abbandonato la produzione a fronte dei costi non vantaggiosi (soprattutto se paragonati a quelli offerti dal mercato cinese): questa tendenza è riconducibile a quel fenomeno di delocalizzazione che, a partire dagli anni ’90 e per tutto il primo decennio del XXI secolo, ha interessato quasi tutti gli ambiti dell’economia, provocando uno spostamento della produzione dai Paesi industriali verso Paesi in via di sviluppo. Oggi gli squilibri provocati da quel fenomeno di massiccia delocalizzazione sul piano della politica interna dei Paesi del cosiddetto Primo Mondo sono piuttosto chiari; nel caso delle terre rare, però, questo squilibrio ha ripercussioni geopolitiche che, evidentemente, all’epoca non vennero previsti. Per correre ai ripari, negli ultimi anni molti Paesi (in particolare USA, Canada e Australia) hanno ripreso le estrazioni, tanto che, nel 2017, la percentuale di terre rare estratte in Cina è scesa a circa l’80% .
Si tratta, in ogni caso, di una percentuale altissima che mette Pechino in una posizione di forza indiscussa. La decisione cinese di dichiarare le estrazioni di terre rare un’attività strategica e, di conseguenza, di introdurre restrizioni sull’esportazione di tali prodotti (tra il 2010 e il 2011, le quote di terre rare destinate all’estero sono diminuite di una percentuale che, a seconda dei casi, varia dal 32% al 54%), ha aumentato la preoccupazione di quei Paesi che, essendo altamente tecnologizzati, dipendono abbondantemente dalla disponibilità di queste materie.
La decisione cinese è certamente motivata dalla crescita della propria produzione tecnologica (ad oggi la Cina ha superato il Giappone nella quantità di terre rare prodotte). La preoccupazione, però, è che Pechino possa decidere, in caso di contrasti politici, di tagliare le forniture di terre rare al Paese avversario: una preoccupazione che, naturalmente, tocca da vicino gli Stati Uniti, che si sentono pressati dalle aspirazioni di Pechino ad essere la nuova Super-Potenza mondiale, ma anche dal Giappone e dall’Unione Europea, le cui industrie tecnologiche e in particolare la ricerca nel campo delle energie pulite subirebbero gravi danni.
Tra il 2010 e 2011, si è già avuto un assaggio di quello che potrebbe essere uno scenario futuro in caso di conflitto. Nell’ambito del contrasto politico tra Pechino e Tokyo per il possesso delle Isole Senkaku, in seguito allo sconfinamento di un peschereccio cinese e al sequestro da parte dei nipponici, la Repubblica Popolare decretò il blocco delle forniture di terre rare verso le aziende del Sol Levante e impose restrizioni delle esportazioni di queste fondamentali materie. Solo dopo molti anni ed alcuni ricorsi all’Organizzazione Mondiale per il Commercio, i cinesi hanno parzialmente ridotto queste restrizioni.
Alla luce di questi fatti, lo scontro commerciale che vede contrapposti USA e Cina si arricchisce di nuovi particolari. Dopo la crisi del 2011, infatti, i Paesi interessati hanno cominciato a prendere le loro contromisure: nel caso di UE e Giappone, queste consistono nel ricercare accordi con altri Paesi, nel sondare nuove aree di estrazione e nell’accelerazione sul riciclaggio; negli USA, invece, si sono riaperti vecchi siti di estrazione e lavorazione (soprattutto in California) ed è stato varato il National Strategic and Critical Minerals Policy Act, volto a limitare la dipendenza dall’estero.
Con la Presidenza di Donald Trump, il livello dello scontro tra Washington e Pechino si è alzato e, nonostante la gran parte dei media non abbia parlato molto di terre rare, queste risultano essere al centro della questione: tra i materiali su cui, lo scorso 10 luglio, è stato imposto un aumento del 10% sui dazi, infatti, figurano anche le terre rare. In questo modo, nelle intenzioni di Trump, si dovrebbe favorire il ritorno della produzione di terre rare su territorio USA. Secondo molti analisti, però, l’introduzione dei dazi al 10% non sarà sufficiente per limitare la dipendenza statunitense dalle terre rare cinesi.
Dall’altra parte, i cinesi, tramite la limitazione delle esportazioni di terre rare, sembrerebbero puntare a rendere le industrie tecnologiche statunitensi dipendenti da loro, da un lato, e puntare allo sviluppo di un’industria tecnologica locale avanzata, dall’altro: secondo i piani del Governo di Pechino, infatti, entro il 2025 la Repubblica Popolare dovrebbe essere in grado di produrre internamente il 70% del proprio fabbisogno tecnologico.
Siamo di fronte, insomma, ad una corsa verso il controllo di materie prime che, nel mondo odierno, risultano sempre più importanti. Se in passato gli Stati si fronteggiavano in guerre sanguinose per l’accesso a giacimenti di oro o argento, rame o ferro, carbone o petrolio, sembra che le guerre del futuro verranno combattute per avere accesso alle scorte di terre rare necessarie a mantenere alto il livello tecnologico di un Paese. Per ora siamo solo di fronte a guerre commerciali e l’interdipendenza economica tipica di questa epoca rende più difficile lo scoppio di guerre combattute sul campo. In ogni caso, è necessario non perdere di vista l’evoluzione degli equilibri nella produzione e nell’accesso alle terre rare.
Fonte: https://www.lindro.it/terrerare-le-risorse-per-cui-si-combatteranno-le-guerredi-domani/
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