Tutta la nostra intelligenza
di GLI INDIFFERENTI (Lorenzo Ferrazzano)
La cultura «Ѐ organizzazione, disciplina del proprio io interiore, è presa di possesso della propria personalità, è conquista di coscienza superiore, per la quale si riesce a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri.» Queste parole sono state scritte da Antonio Gramsci (1891-1937) ed elaborate in Socialismo e cultura, articolo apparso su Il Grido del Popolo il 29 gennaio 1916.
Nato ad Ales, in Sardegna, Gramsci condusse una vita segnata da una malattia che condizionò la sua esistenza, ma che non gli impedì di svolgere quell’incessante attività di studio che fece di lui uno dei pensatori maggiori del ventesimo secolo. Trascorse una giovinezza povera che lo costrinse a degli studi irregolari che tuttavia lo portarono – tra infinite difficoltà – ad iscriversi all’Università di Torino, una città fondamentale per il suo percorso politico e intellettuale. Nel capoluogo piemontese frequentò gli operai e visse l’esperienza socialista, qui tentò di riprodurre l’esperienza dei soviet russi ed realizzò la convinzione che non può esserci rivoluzione socialista senza rivoluzione culturale. Fu uno dei fondatori del Partito Comunista e delle riviste La Città Futura e Ordine Nuovo, riviste di vera e propria formazione culturale e morale del proletariato, negli anni drammatici del primo dopoguerra e dell’avvento della dittatura fascista.
“I mutilati chiedono il pane al governo”, immagine simbolo del sentimento di abbandono e di dolore del primo dopoguerra
«Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare», pare abbia detto il pubblico ministero che lo condannò per attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe. Durante i quasi dieci anni di prigionia, resi ancor più terribili a causa della malattia che lo aveva condizionato fin dalla nascita, Gramsci scrisse i preziosissimi Quaderni dal carcere e le famose Lettere che hanno fatto di lui uno dei pensatori politici fondamentali del novecento. «Antonio Gramsci è, ad oggi, il pensatore italiano più studiato nelle università di tutto il mondo, […] e paradossalmente più letto all’estero che in patria.» Con queste parole inizia Tutta la nostra intelligenza. Il concetto di egemonia in Gramsci, scritto da Salvatore Schinello e pubblicato per la GOG Edizioni, un libro che ripercorre la genesi e gli sviluppi di quella che è una delle pietre basilari del pensiero gramsciano.
Schinello descrive per prima cosa le condizioni storiche e politiche in cui Gramsci ha elaborato il concetto di egemonia, pensato durante gli anni della prigionia – sulla base di una concezione non ortodossa dell’ideologia marxista – relativamente alla specifica situazione italiana del primo dopoguerra: un paese in cui la grave situazione di instabilità aveva reso infinitamente più complicato quel processo di democratizzazione delle istituzioni che l’avvento del fascismo avrebbe poi impedito. Un’Italia che Gramsci considerava divisa in due classi fondamentali, quella degli oppressori e quella degli oppressi: gli industriali e gli operai al nord, i latifondisti e i contadini al sud.
Schinello sintetizza con queste parole il concetto di egemonia culturale:«Se la società politica basa il controllo sociale sulla coercizione, l’egemonia ne crea il presupposto logico, la legittimazione, mediante un’opera di direzione culturale atta a sviluppare le condizioni affinché si crei il consenso necessario alla classe dominante per la conservazione del potere». Un’egemonia che permette alla classe dominante di conservare, dunque, una determinata concezione dell’esistenza e dei rapporti di forza sociali, precise abitudini sociali e interpretazioni della realtà affinché il suo dominio politico e ideologico possa restare intangibile. Il concetto di egemonia culturale nasce dal fallimento dell’esperienza nelle fabbriche di Torino, in cui Gramsci – ispirandosi ai soviet – cercò di trasformare le Commissioni interne in realtà autonome in cui tutti gli operai, non solo quelli sindacalizzati, cioè selezionati e autorizzati, avrebbero potuto avere una funzione partecipativa nella vita di fabbrica che fosse affrancata dalla mediazione esclusiva dei sindacati. Il tentativo fallì per la mancanza di una guida politica e culturale. Ѐ sulle ceneri di questo fallimento che Gramsci si rende conto che una rivolta politica non può prescindere da una profonda maturazione culturale che renda coscienti gli operai e i contadini di appartenere organicamente ad un’unica classe, e la più influente nel processo produttivo.
Ѐ in questo momento che Gramsci capisce che la formazione culturale, politica e morale del proletariato debba essere affidata ad un partito, che sarà il Partito Comunista d’Italia, che deve costituirsi come scuola e laboratorio politico in cui l’operaio non solo viene rappresentato politicamente, ma in cui acquisisce quella cultura intesa da Gramsci non «come sapere enciclopedico, in cui l’uomo non è visto se non sotto forma di recipiente da empire e stivale di dati empirici» ma come «disciplina del proprio io interiore», condizione essenziale per riconoscere sé stessi prima come individuo e poi come massa organizzata, l’unica capace di realizzare, come scrive Schinello «un’egemonia culturale proletaria alternativa a quella borghese» – la premessa fondamentale per la realizzazione della rivoluzione socialista – e «se il partito politico della classe operaia, il Partito Comunista […] diviene la guida politica del proletariato, la guida culturale non può che essere affidata a coloro i quali ricoprono una forte influenza nella società civile e nella formazione dell’opinione pubblica: gli intellettuali.»
Il saggio prosegue così attraverso una ricostruzione attenta della figura dell’ «intellettuale» nel pensiero gramsciano. Per Gramsci, l’intellettuale è sempre espressione della classe sociale d’estrazione ed ha un ruolo attivo nelle dinamiche dei rapporti sociali. In questo senso è sempre organico. Intellettuale è colui che media tra il lavoratore e l’intellettuale egemone per eccellenza, l’industriale: si tratta di «legislatori, commercialisti, ragionieri, ingegneri e tecnici di fabbrica» oppure colui che media tra i contadini e l’amministrazione dello Stato come i «preti, avvocati, maestri, notai, medici ecc.» Gramsci rimprovera all’intellettuale il fatto di tenersi a lunga distanza dal popolo, ritagliandosi in questo modo uno spazio esclusivo nell’egemonia culturale del tutto inaccessibile alla grande maggioranza della popolazione. La distanza culturale, sociale e politica che separa gli intellettuali dalle masse è dovuto anche all’istruzione scolastica: Gramsci considera la scuola uno degli «strumenti dell’egemonia». La divisione del lavoro avrebbe comportato infatti alla specializzazione dell’istruzione e alla nascita delle scuole tecnico-professionali, contrapposte alle scuole umanistiche alle quali poteva iscriversi soltanto quella «èlite di signori e di donne che non devono pensare a prepararsi un avvenire professionale».
La scissione profonda tra intellettuali e popolo è dovuta innanzitutto al linguaggio, una spaccatura linguistica e sociale che Gramsci fa risalire al Medioevo. Scrive Schinello:«Questa frattura linguistica fu causata soprattutto dal carattere cosmopolita degli intellettuali italiani, i cui scritti erano indirizzati all’Europa dotta e cristiana e non alla massa popolare italiana condannata dal monopolio ecclesiastico dell’istruzione ad una condizione di forte analfabetismo». Partendo dunque dalla necessità di formare culturalmente il proletariato e dal riconoscimento del fatto che l’intellettuale sia l’unico in grado di assumere un ruolo di tale portata, Gramsci elabora la figura di un nuovo tipo di intellettuale che sia espressione non più delle classe dominanti ma della classe operaia, unica destinataria della sua attività. Il nuovo intellettuale dovrà combinare la fatica dello studio con il pragmatismo dell’azione, la solitudine della riflessione con la collettivizzazione delle idee: un intellettuale che si metta al servizio del proletariato, che lo formi e che lo conduca progressivamente al riconoscimento di sé stesso in quanto classe sociale, e quindi al ribaltamento dell’egemonia culturale.
A questo punto Schinello tratta di quelli che Gramsci considerava gli strumenti dell’egemonia: dalla scuola all’educazione, dal giornalismo alla letteratura e al teatro, rimarcando anche l’inaspettata dimenticanza – da parte del pensatore sardo – nei confronti di quelli che erano già veri e propri formidabili mezzi di propaganda come la radio e il cinema. Per ognuno di questi strumenti, Gramsci propone una rielaborazione complessa, partendo dal presupposto che gli unici strumenti utili a rovesciare l’egemonia siano gli stessi strumenti dell’egemonia. Opporre ad una scuola che conserva la subordinazione della classe operaia una scuola che sappia formare gli alunni sia umanisticamente che professionalmente; combattere il giornalismo di regime con un giornalismo intelligente e intelligente riformato nella struttura della redazione e del giornale; levare alla letteratura borghese il primato della dignità letteraria riconsiderando la letteratura nazional-popolare. Rovesciare l’egemonia culturale con una nuova egemonia culturale, combattere gli strumenti dell’egemonia con i suoi stessi strumenti. Per questo, dice Gramsci:«Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza».
Il saggio di Salvatore Schinello, gramscianamente, non si riduce però alla sola esposizione schematica di questi argomenti così importanti, cosa che avrebbe ridotto Gramsci a citazionismo memorialistico nudo e crudo come abitudine di gran parte di quel ceto intellettuale «autorevole», orgogliosamente liberal-progressista. Al contrario, la proposta finale del libro è quella di utilizzare le categorie gramsciane come filtro interpretativo dei nostri giorni e dell’egemonia culturale conservata dall’odierna classe dominante. Per questo motivo Schinello fa un ritratto dell’intellettuale moderno – espressione di quell’élite globalista per cui predica e applica il Verbo – che definisce «intellettuale cosmopolita». Un intellettuale che, al contrario da quanto espresso da Gramsci nei suoi scritti, è del tutto staccato da ogni realtà nazional-popolare o comunitaria che pure pretende di rappresentare, in cui dice di identificarsi, ma dalla quale ovviamente non viene accettato. Oltre a George Soros, il finanziere difensore della «società aperta», piena espressione del globalismo dominante, Schinello cita Bernard-Henri Lèvy, il filosofo francese e ancella dell’imperialismo che influì nell’opinione pubblica in maniera determinante per legittimare le guerre degli ultimi trent’anni, dai Balcani alla Libia.
Avvicinandosi alla fine, il libro tratta di un elemento fondamentale per capire come si realizza l’egemonia culturale ai nostri giorni: si tratta del Soft Power, una teoria elaborata da Joseph Samuel Nye Jr., politologo alla corte di Clinton e Obama. Questa Potere Morbido deve rimediare alla crisi dell’Hard Power, cioè la guerra e l’uso della forza militare per imporre l’egemonia politica e militare. Scrive Schinello:«Occorre pertanto, suggerisce Nye, operare uno spostamento di risorse economico-finanziarie dal settore “Hard” della guerra a quello “Soft” dell’industria culturale, delle nuove tecnologie, della ricerca, in modo da agire a livello psicologico sugli altri popoli e spingendoli ad aderire al proprio modus operandi». Ѐ quello che è avvenuto, per citare il caso più evidente, con l’americanizzazione dell’Occidente, o ancor prima con l’occidentalizzazione di quei popoli orientali che sono stati dominati dalla parte, così si dice, civilizzata del pianeta. Ancora, un altro esempio di Soft Power si può vedere in quell’opera di propaganda e di convincimento dell’opinione pubblica che le guerre imperialiste – Yugoslavia, Afghanistan, Iraq, Somalia, Libia, Siria, Ucraina – sono necessarie per piegare pericolosi «Stati Canaglia», o per convincerci che quello neoliberista sia il migliore dei mondi possibili.
L’intellettuale, oggi come allora, deve ribaltare le narrazioni ufficiali e le prediche degli intellettuali di coorte. Questo è il significato che chi scrive dà all’importante saggio di Schinello: rileggere Gramsci per decostruire tassello dopo tassello il castello di menzogne all’ombra del quale conduciamo la nostra esistenza quotidiana. Nell’unica maniera gramsciana possibile: studiare.
«Conoscere sé stessi vuol dire essere padroni di sé stessi, distinguersi, uscire dal caos, essere un elemento di ordine, ma del proprio ordine e della propria disciplina ad un ideale. E non si può ottenere ciò se non si conoscono anche gli altri, la loro storia, il susseguirsi degli sforzi che essi hanno fatto per essere ciò che sono, per creare la civiltà che hanno creato e alla quale noi vogliamo sostituire la nostra». Antonio Gramsci.
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