Lo spettro della recessione modificherà il paradigma economico europeo?
di POLIKOS (Dario Stefano Lioi)
Uno spettro si aggira per l’economia globale: una nuova recessione. L’onda d’urto della crisi finanziaria iniziata nel 2007 non ha mai arrestato la propria marcia, proseguendo imperterrita il suo cammino nonostante alcune iniziative di politica economica adottate dai governi delle più importanti economie mondiali.
Il calo degli indici di produzione industriale a cui stiamo assistendo, legati a una diminuzione dei tassi di crescita dei prodotti interni lordi, sono segnali di allarme nitidi. Se da un lato Stati Uniti e Cina indirizzano le proprie politiche economiche lungo direttrici interventiste, con al centro l’azione propulsiva dello Stato, dall’altro un’Unione Europea attanagliata da imminenti elezioni e dalla fuoriuscita del Regno Unito, sconta un grave ritardo nel contrasto a deflazione ed alta disoccupazione, combinato disposto che rende estremamente fragile l’economia continentale.
È delle ultime settimane la carrellata di dichiarazioni ufficiali dei massimi vertici di Francoforte e Bruxelles in merito alla necessità di un’inversione di tendenza rispetto alla tradizionale politica economica dell’Unione, non votata più alle teorie dell’austerità del bilancio, bensì all’espansione della domanda aggregata. Una presa d’atto non da poco, seppur ancora legata a semplici dichiarazioni e non ad atti concreti, che vede messo sul banco degli imputati l’intero sistema trattatistico ed economico del modello export led, adottato secondo la tradizione tedesca della massimizzazione del profitto mediante l’aumento delle esportazioni. Il surplus commerciale perseguito da questa strategia ha come fragilità strutturale quella di essere legato alla domanda estera di beni.
Proprio la Germania sta diventando per gli analisti finanziari un’osservata speciale. Secondo Il Sole 24 Ore a novembre il dato della produzione industriale tedesca (-4,7% su base annua, il peggior risultato dal 2009) rende concreto il rischio di una recessione tecnica (due trimestri consecutivi di calo del prodotto interno lordo), per effetto in particolare del brusco arretramento della produzione di automobili, scesa di ben il 20% nell’ultimo bimestre del 2018.
La saturazione dei mercati interni per azzeramento della crescita dei consumi induce le economie nazionali a scontare un pesante arresto dei prezzi e, dunque, contemporaneamente, della produzione, la quale si riversa in un aumento dei tassi di disoccupazione.
La volatilità del mercato dei capitali, totalmente liberalizzato durante la presidenza Clinton, ha di certo acuito la crisi del sistema mondo, impedendo il giusto controllo da parte dello Stato delle operazioni speculative compiute ai danni delle economie nazionali. Si parla in questo caso dei tristemente celebri attacchi ai debiti sovrani, divenuti, lì dove non esistono Banche centrali pronte automaticamente a garantirne sicurezza e solvibilità, rischio e non risparmio per i piccoli investitori, con conseguenze nefaste per l’incremento della spesa pubblica per investimenti e per la garanzia dei sistemi di welfare.
I dati e le cronache politiche tendono a ricordare molto le vicende che caratterizzarono la drammatica crisi del ‘29 nel secolo scorso, con un conseguente ritorno allo scontro paradigmatico, dal punto di vista economico, tra le teorie marginaliste e quelle keynesiane. All’epoca vinsero le seconde. Esistono i medesimi presupposti economici per cui ciò possa riavverarsi?
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