di Mariangela CirrincioneEuropa, signori, è Politica Agricola Comune. Mercato comune dei prodotti agricoli, garanzie di adeguato reddito per gli agricoltori, promozione dello sviluppo sostenibile attento alla salute ambientale trovano nobile fonte nel Trattato istitutivo della Comunità Economica Europea. Era l’anno 1984 quando i produttori italiani venivano catapultati nel tortuoso e pericoloso meccanismo delle “quote”, complessa trovata economica di controllo del mercato lattiero-caseario, coerente figlia della PAC e colonna delle “politiche di strutture” dell’Europa, consistenti nell’elaborazione di piani strategici volti a modificare numero, organizzazione, dimensioni e localizzazione delle unità produttive. Dalla prima metà degli anni ottanta il problema delle quote del latte condenserà su di sé dibattiti e fatiche politiche tese ad arginare l’illogica carneficina economica di Stato dalle quote causata.
Dell’esigenza di controllo del mercato lattiero-caseario in Italia si era iniziato a parlare almeno dagli anni ’50. Nel 1968 il Reg. 804 aveva posto le basi di un’organizzazione comune del mercato avente come obiettivi lo sviluppo della produzione e l’uniformità del prezzo nella Comunità Europea. Nel ’77 la CE era intervenuta con il Reg. 1076 imponendo al produttore un “prelievo di corresponsabilità” fissato ad un’aliquota uniforme per litro di latte, provvedimento che spingeva gli allevatori ad aumentare la produzione, in modo da coprire l’esborso mantenendo così invariato il guadagno. Si venne a creare una situazione ancor più insostenibile che avrebbe presto portato all’introduzione delle quote con il Reg. 856 del 1984.
Le quote latte sono oggi il principale strumento di politica agraria del c.d. regime comunitario del prelievo supplementare che impone agli allevatori europei un prelievo finanziario per ogni chilogrammo di latte prodotto oltre il limite dettato dalla propria quota. La ratio del provvedimento è la regolazione dell’offerta attraverso un’azione di ‘contingentamento’ della produzione, scoraggiata oltre la quota dall’esosità del prelievo stabilito. La misura della quota latte per l’Italia è stata fissata in base al latte ufficialmente prodotto nel 1983, calcolato in circa nove milioni di tonnellate. La quantità fu fortemente sottostimata e per tale ragione subito sollevò contestazioni dalle associazioni di categoria, che bene avevano colto la pericolosità dell’errore. L’”orrore” di calcolo ha avuto – com’era pronosticabile – conseguenze devastanti per le imprese zootecniche, i cui destini infelici vanno letti in considerazione di un dato nazionale preciso: l’Italia è un Paese il cui fabbisogno di latte ha sempre superato di gran lunga la produzione nazionale, così da rendere inevitabile l’acquisto di latte estero ai fini del soddisfacimento della domanda. Il folle paradosso ci impone di approfondire alcuni aspetti.
La Relazione della Commissione governativa d’indagine sulle quote latte chiariva che per ‘quota’ debba intendersi «una sorta di autorizzazione amministrativa a commercializzare il latte senza pagare penale» e non già una concessione giuridica a produrlo, e di fatti, l’allevatore può produrre e commercializzare latte anche oltre la propria quota – facoltà garantitagli dall’art. 41 della Costituzione – ma sarà consapevole di incorrere nel pagamento della ‘penale’ che è il prelievo supplementare. É sugli acquirenti di latte che ricade l’obbligo di fungere da sostituti di imposta, di monitorare le consegne di latte dei produttori propri conferenti e nel momento in cui questi ultimi superano la quota latte di trattenere – dall’importo che periodicamente liquidano ad essi come pagamento per il latte acquistato – il prelievo stabilito dalle norme comunitarie. Il regolamento istitutivo è stato sostituito dal regolamento 3950 nel 1992, poi dal regolamento 1788 nel 2003, mentre nel 2008 a Bruxelles è stata rinegoziato un aumento della produzione italiana.
La necessità di una ridefinizione della quota trovava la sua ragion d’essere nella situazione di emergenza che vedeva appunto moltissimi allevatori prossimi al fallimento, o falliti, nell’impossibilità economica di corrispondere il prelievo. Si è già detto come la quota complessiva comunicata all’UE fosse stata frutto di una sottostima gravissima, e in effetti il ministro alle Politiche agricole in carica nel 1984 Pandolfi – si legge in un articolo del Corriere della Sera del 19 gennaio del 1997, a firma di Arturo Guatelli – aveva stabilito l’ammontare «basandosi su dati statistici forniti dall’Istat. Dati sbagliati per difetto, ma che il ministero dell’Agricoltura e le autorità di Bruxelles presero per buoni. Gli allevatori italiani e le loro rappresentanze sindacali, la Coldiretti e la Confagricoltura, capirono subito che era stato commesso un errore grossolano. Ma le loro proteste affogarono nel mare della più bieca demagogia ministeriale. Filippo Maria Pandolfi assicurò che le multe non sarebbero mai state applicate all’Italia, un Paese il cui fabbisogno superava di gran lunga la produzione». Un Paese il cui fabbisogno superava di gran lunga la produzione nazionale!
Il contributo giornalistico in questione fu magnificamente titolato: “I guai dell’Italia verde: quelle tante colpe dei ministri pasticcioni, ovvero incapaci di «offrire le garanzie necessarie per dare credibilità alle cifre che ogni anno portavano a Bruxelles» e di «creare un ente autonomo incaricato di redistribuire equamente la quota nazionale, di effettuare i singoli controlli di produzione e di calcolare le eventuali multe». Dalle promesse di Pandolfi, il ministro che si fece scappare di mano la situazione, alla lobby del Sud, quella guidata dalla Poli Bortone presto ministro di Berlusconi e secondo Bruxelles avvantaggiata dal provvedimento del ’93 di cui si sta per dire. L’altalena dei numeri, i dati fasulli, quelli trasmessi dall’Italia all’Europa nel ‘creativo’ e infelice tentativo di arginare gli esosi prelievi, e il favore che ci fece
l’Europa nel ’93”, ossia l’aumento della quota da circa 9 a 9,9 milioni di tonnellate annue ottenuto a Lisbona e faticosamente mantenuto.Per il periodo che va dal ’91 al ’95 – spiegava Guatelli – l’Italia avrebbe dovuto pagare circa 7.800 miliardi, e dopo avere ottenuto uno sconto del 50%, fu proprio lo Stato a farsi carico del pagamento rinunciando ogni anno a circa mille miliardi di benefici comunitari, tolti in sostanza ad altri settori agricoli. La Corte di Giustizia del Lussemburgo presto intervenne a rimarcare che la soluzione al “superprelievo” costituiva un’inammissibile – e ovvia – distorsione della concorrenza: lo Stato non poteva sostituirsi ai produttori nel pagamento. La decisione inappellabile della Corte costituirà l’inizio della fine per la storia produttiva di moltissime aziende pilastro del settore zootecnico. Le multe arrivarono, tantissimi allevatori chiusero i battenti, ma a seguire anche qualche anno di quiete apparente, di virtuoso rientro in quota. Chi è rimasto in piedi, tuttavia, non è detto che sia stato in regola, e forse anche chi invece ha chiuso ha ancora conti da regolare.
È di qualche giorno fa infatti l’annuncio della Commissione Europea dell’avvio della procedura di infrazione, ad un anno dalla lettera di messa in mora dell’Italia, per «recuperare dai produttori di latte, che tra il 1995 e il 2009 hanno superato le quote loro assegnate, multe per un totale stimato in almeno 1,4 miliardi di euro, in gran parte ancora non riscossi» a completamento del pagamento dei 2,265 miliardi di sanzioni accumulate. «L’incapacità dell’Italia ad assicurare il recupero effettivo di queste multe – ammonisce la Commissione UE – compromette gli sforzi europei per stabilizzare il mercato dei prodotti lattieri, provocando distorsioni di concorrenza con gli altri produttori europei ed italiani, che hanno rispettato le quote di produzione o che hanno pagato le loro multe». Le somme sono attese da duemila produttori (seicento dei quali multati per somme superiori a 300mila euro) e dovrebbero rimpinguare le casse dello Stato «affinché i contribuenti italiani non ne escano perdenti».
La morosità dei destinatari del provvedimento, anche sanzionati con il blocco dei pagamenti della PAC 2012-2013, secondo una Coldiretti fiduciosa nel “cambio di passo” dell’attuale esecutivo nazionale, comporta una «concorrenza sleale alla stragrande maggioranza dei 36mila allevatori italiani e mette a rischio le casse dello Stato». Per il ministro delle Politiche agricole, Mario Catania, la riscossione che sarà operata da Equitalia e da Agea porterà «a una rapida sistemazione della maggior parte delle pendenze» mentre all’orizzonte, dopo due anni di produzione in linea con la quota assegnata, si paventa nuovamente il rischio di uno sforamento che potrebbe comportare un prelievo potenziale di 85 milioni a fine anno. Vi è ancora un capitolo della storia da scrivere, di cui al momento però possiamo fornire solo alcuni elementi.
La fine del regime di quote, dunque la liberalizzazione del mercato europeo del latte, è prevista per il 1° aprile 2015. Non basta tuttavia l’amara esperienza pregressa per fare della scadenza una notizia felice. Le aziende zootecniche, smantellato il regime del prelievo supplementare, dovranno fare i conti con le (spietate?) regole concorrenziali del libero mercato. A temer catastrofi Spagna e Polonia, unici due stati che si sono opposti al provvedimento, ma non è escluso – scrivono i siti del settore – che il fronte del ‘no’ sia comunque presto ampliato dai Paesi non autosufficienti che temono «l’arrivo dei surplus dei paesi eccedentari», dei Paesi il cui fabbisogno supera di gran lunga la produzione nazionale! Inoltre «è sentore comune che, nonostante l’assurda gestione svolta dall’Italia, la maggior parte dei produttori non sarebbero favorevoli all’abolizione delle quote, il cui acquisto ha comportato negli anni esborsi notevolissimi e, a questo punto, assolutamente improduttivi».
Preoccupanti sono gli scenari possibili. Alla positive dinamiche del prezzo rilevate per questi anni e riportate nel rapporto della Commissione “Development of the dairy market situation and the operation of the ‘Milk Package’ provisions” si contrappongono statistiche che ipotizzano, a regime disattivato, un calo del prezzo del latte riconosciuto al produttore pari al 15%. Il futuro, come il passato, non sembra affacciarsi roseo.
Con buona pace degli innamorati di quest’Europa dalle regole pensate uniformi per un territorio vasto e dalle condizioni difformi, con buona pace di chi non si è mai sognato di mettere in discussione siffatti meccanismi aziendicidi, si fuggirà dalla tentazione di presentare ulteriori letture. L’illogicità delle dinamiche, la contraddittorietà delle soluzioni propinate che sempre paiono spingere a scegliere solo un male minore, sono già eloquenti, come eloquente è il disinteressamento politico, quando non è addirittura complicità in chiave anti-italiana. Gli italiani acconsentono, hanno acconsentito, che le leggi del mercato euro-imposte portino allo sfascio il tessuto produttivo nazionale. Hanno acconsentito di comprare latte tedesco e di versare nel Po il latte italiano. Acconsentono, rinunciando alla sovranità economica ed alimentare, che siano le aziende ‘altre’ a fiorire e quelle di casa propria a fallire. Nella speranza di non dovere pagare intanto gli 85 milioni, signori, non ci resta che riavvolgere il nastro, ritornare politically correct e rivolgere un accorato invito al riposo – che sia quanto più improduttivo – alle innominate protagoniste della nostra storia senza le quali però nulla sarebbe stato: le mucche italiane, europee ignare del fatto che, ad esempio, l’Italia oltre ad essere dell’Europa “contribuente netto” (riceva ossia meno di quanto versi!) sia un Paese il cui fabbisogno di latte ha sempre superato di gran lunga la produzione nazionale. Muu.
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