“Comprare italiano” non è la soluzione
di GIANLUCA BALDINI (FSI Pescara)
Chi afferma che sia necessario tornare a “comprare italiano” per far ripartire il paese esprime un’idea ingenua ed economicamente inconsistente.
Il ragionamento per cui gli squilibri macroeconomici si possano risolvere grazie all’educazione al consumo degli attori microeconomici è fallace per almeno tre ordini di ragioni.
La prima motivazione attiene più propriamente la comprensione dell’equilibrio delle forze di mercato. Cosa accade se un bene di prima necessità (ad esempio il latte a lunga conservazione o la carne) importato da un paese che grazie alle economie di scala e ai processi produttivi più efficienti e ad altri elementi di costo più competitivi (lavoro, energia, costo del credito, imposizione fiscale) viene immesso nel mercato nazionale a un prezzo sensibilmente inferiore rispetto ai concorrenti prodotti nazionali? Accade che la grande massa di consumatori viene attratto dalla competitività di prezzo di un bene perfettamente sostituibile, in ragione delle naturali forze di mercato per cui un bene equivalente a un prezzo inferiore si vende di più.
Possiamo anche invitare i consumatori a scegliere sempre il prezzo superiore di ogni bene, purché sia italiano, ma le naturali forze di mercato porteranno i beni sostituibili più economici a prevalere sistematicamente e non si può di certo incolpare il consumatore medio di adottare una logica economica.
Solo chi non ha mai fatto la spesa in vita sua o chi non sa cosa voglia dire campare con uno stipendio medio di 1.000 euro al mese può permettersi di ignorare la differenza tra un carrello pieno di prodotti in offerta e uno pieno di articoli scelti esclusivamente in base alle preferenze di qualità. E quante persone possono permettersi di comprare una busta di alimenti “preziosi” spendendo 100 euro, quando con la stessa cifra si può riempire il carrello e far mangiare la famiglia per una settimana?
La seconda valutazione tiene conto degli effetti di pressione sull’offerta della GDO. Gli accordi transnazionali di scambio hanno sommerso il nostro mercato alimentare di prodotti d’importazione low-cost (e non solo) e i supermercati sono incentivati a limitare l’offerta di alcune categorie alimentari a quei prodotti che garantiscono maggiori marginalità e una certa continuità di rifornimento. Trovare carne italiana, per esempio, è diventato difficilissimo e spesso le etichettature “nascondono” la provenienza del prodotto. Inoltre i supermercati stranieri, che ormai detengono quote di maggioranza relativa nel mercato della GDO, integrano l’offerta con i loro prodotti brandizzati, spesso ormai di caratteristiche qualitative comparabili con il brand più noto di riferimento.
La terza considerazione muove da una constatazione banale, ma spesso sottovalutata. Cosa vuol dire “comprare italiano”? Che il brand sia italiano, cioè riferibile a un’impresa nata in Italia? Che lo stabilimento produttivo sia italiano? Che il prodotto si confezioni e distribuisca in Italia? Un numero considerevole di alimenti anche di “marca italiana” sono ormai prodotti e distribuiti da colossi multinazionali che di italiano non hanno nulla. Dunque, acquistare questi prodotti può forse contribuire alla ricchezza del paese? Può, al massimo, contribuire a sostenere il lavoro degli stabilimenti produttivi che operano in Italia, e quindi a pagare stipendi italiani, ma i profitti di quelle imprese sono sempre flussi di capitali che vengono dirottati all’estero.
Il ragionamento di cui sopra vale anche per gli altri settori merceologici. Certo, i benestanti potranno permettersi di scegliere se acquistare “italiano”, come abbiamo detto, ma non sarà neanche la loro scelta a determinare un risanamento di quegli squilibri macroeconomici che stanno mettendo in difficoltà la nostra economia.
Sì, va bene Gianluca, ma allora che si può fare? In questo regime giuridico ben poco, in effetti. La libera circolazione di capitali e merci è il principio prevalente, al quale sottostanno anche le limitazioni agli aiuti alle imprese (cioè l’impossibilità di realizzare politiche industriali) e l’impossibilità di stabilire dazi e contingentamenti bilaterali nell’interesse nazionale.
Anche in questo caso, purtroppo, per iniziare a vedere luce fuori dal tunnel va rimessa in discussione l’intera costruzione europea, a partire dall’Atto Unico e dal trattato di Maastricht.
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