Filantropia tossica: lo spirito del dare mentre si toglie
di LYNN PARRAMORE (Institute for New Economic Thinking)
Traduzione a cura di FEDERICO MONEGAGLIA (FSI Trento)
I nuovi “filantrocapitalisti” americani non stanno risolvendo i problemi sociali: li stanno alimentando
Una nuova generazione di ricchi benefattori, armata di PowerPoint e di moderne App, rivendica di voler cambiare il mondo. Ma con i loro valori strettamente legati alle logiche di mercato e le loro quasi sempre miopi ricette, lo stanno veramente cambiando in meglio?
O, meglio, lo stanno veramente cambiando?
Anand Giridharadas, che si è interfacciato con la prima classe dell’esclusivo reame dei “filantrocapitalisti” del ventunesimo secolo, nutre seri dubbi in proposito. Nel suo acclamato libro “Winners take all: The Elite Charade of Changing World” (“i vincitori prendono tutto: la farsa delle elite che vorrebbero cambiare il mondo”), il reporter del mondo del business ed ex consulente della grande azienda McKinsley descrive l’ostinata cecità degli entusiastici imprenditori sociali e dei dirigenti delle conferenze TED i quali, ubriacatisi nel loro cocktail tardo-capitalista, si dichiarano oggi pronti a mettersi al servizio di noi tutti. Con gli omaggi della casa.
Fare del bene per nascondere il male
Lo scrittore britannico Anthony Trollope una volta disse “Ho più volte pensato che non c’è uomo più velenoso, più assetato di sangue di chi si dichiara filantropo”.
Il famoso speculatore finanziario Jim Chanos, che insegna agli studenti di economia come individuare le frodi, ne spiega il motivo: quando analizza una compagnia in cerca di segnali di attività losche, una delle prime cose che cerca è un qualche incremento della filantropia—una strategia di business che la professoressa di etica Marianne Jennings ha identificato come uno dei “sette segnali di collasso etico” nelle organizzazioni. Chanos fa riferimento a questo trucco nei termini di “fare del bene per nascondere il male”.
Questi cinici stratagemmi di pubbliche reazioni sono piuttosto famigliari agli utenti newyorkesi del servizio “Citi Bike”, il sistema pubblico-privato di bike-sharing finanziato dal gruppo finanziario Citigroup, le cui malefatte hanno contribuito ad innescare la crisi finanziaria del 2007-8. O ai visitatori della galleria Sackler del museo metropolitano di arte di New York (MET), così chiamata in onore dei membri della famiglia che detiene la Purdue, la società farmaceutica che ha fomentato la crisi americana degli oppioidi mediante il marketing ingannevole dell’antidolorifico OxyContin, che crea dipendenza.
Ma c’è un altro tipo di ricco filantropo, più difficile da incastrare. I danni che causa sembrano meno diretti, e i suoi moventi più nobili. Questo tipo di filantropo si presenta come appassionato venditore di soluzioni “win-win” di problemi sociali e lancia termini come “impattante”, “scalabile”, “cambio di paradigma”–il tipo di gergo che le scuole di economia somministrano agli studenti al posto del pensiero critico. I membri di questo gruppo si autodefiniscono nientemeno che “leader del pensiero”.
Questi aspiranti benefattori dell’umanità tendono a simpatizzare per l’ex presidente Bill Clinton, la cui Clinton Global Initiative rappresenta il più fulgido esempio di promozione di avidi convertiti a quella che Giridharadas chiama la fede nell'”ideologia del win-win”, ben rappresentata dal nuovo luogo comune sintetizzato in “sto andando alla grande con questo giro d’affari, quindi puoi farcela anche tu”. Mentre vivono tra startup della Silicon Valley, tra aziende a capitali di rischio, think tank e compagnie di consulenza nelle grandi aree metropolitane, i filantrocapitalisti parlano riverentemente della povertà globale, ma raramente toccano con mano realtà difficili come gli Appalachi o le zone rurali del Mississippi.
Sono persone come l’amministratore delegato di Whole Food Market, John Mackey, il cui libro “Capitalismo cosciente” è la bibbia per chi aspira alla fede “win-win”. Nella formulazione di Mackey, gli amministratori delegati non sono solo dirigenti d’azienda, ma esseri trascendenti che provano “grande gioia e bellezza nel proprio lavoro, e nelle opportunità di mettersi al servizio, di guidare, e di dare il proprio contributo per dare forma ad un futuro migliore”. La filosofia di Mackey è del tipo in cui i beneficiari del mondo del business dovrebbero dedicare se stessi al miglioramento della società perché sono ovviamente i meglio equipaggiati per farlo. Ci si aspetta che il pubblico li segua docilmente.
Quest’ultimo punto, come Giridharadas evidenzia brillantemente, ha implicazioni molto più radicali rispetto alla vecchia filosofia economica del “trickle-down” (giustificazione dell’arricchimento smisurato di alcuni con la discutibile motivazione secondo la quale la ricchezza “percolerebbe” dall’alto verso il basso, NdT) dei vincenti di ieri, i quali facevano pressioni sui governi perché si togliessero dalla loro strada in modo che il generoso sottoprodotto delle loro spietate attività potesse percolare senza impedimenti fino ai più poveri. I nuovi vincenti vogliono qualcosa di ancora più audace: rimpiazzare i governi nel loro ruolo di guardiani del bene comune.
Giridharadas riporta conversazioni con persone istruite e spesso benintenzionate che vivono in alto, lontano dalla vita dell’americano medio, che vogliono mettersi in pace la coscienza ma che non sono in grado né di vedere chiaramente i problemi della società né di notare, salvo sporadicamente, che le proprie vite si finanziano con i frutti dell’ingiustizia. Finiscono quindi per abbracciare una visione dolce e languida di cambiamento del mondo che lascia le brutali strutture sottostanti saldamente al proprio posto.
L’autore ha detto quello che pochi che hanno viaggiato in questo mondo hanno detto chiaramente, per timore che il passaporto venga loro revocato: l’effetto sulla vita pubblica degli sforzi filantropici dei filantrocapitalisti è più distruttivo di quanto non riesca ad essere costruttivo.
Lo si può vedere chiaramente nel tipo di idee che fanno proprie. Gli spazi per le conferenze al forum economico di Davos non vengono concessi per discutere sulla necessità di estendere programmi di tipo popolare e ben testati come la previdenza sociale e l’assistenza sanitaria che hanno dimostrato di ridurre la povertà e le disuguaglianze economiche. Queste misure sensate non sono neanche lontanamente considerate sufficientemente”innovative” o esotiche – e, inoltre, potrebbero richiedere ai ricchi di pagare tasse aggiuntive. Sono meglio considerati schemi come il reddito minimo universale che tendono a favorire gli interessi delle élite (tra cui il continuare a pagare salari inadeguati ai lavoratori) o come la creazione di soluzioni tecnologiche come quella proposta in un libro di un giovane fedele dell’ideologia “win-win”: una applicazione a pagamento per la gestione delle entrate di quei lavoratori il cui lavoro è talmente intermittente da renderle imprevedibili.
Qualche idea per combattere e mettere fuorilegge le pratiche di sfruttamento che sono la causa primaria del problema? Nemmeno per sogno.
Parlare di vittime paga bene nel circuito filantrocapitalista, ma puntare il dito contro i carnefici è severamente vietato. Si può incantare la folla spacciando, a scopo di lucro, schemi per aiutare i poveri, ma non si ricevono gli stessi applausi chiedendo l’arresto dei veri responsabili della povertà. Come chiarisce Giridharadas, anche la App più fantasiosa non sarà mai in grado di cancellare nelle persone comuni la sensazione che il sistema sia stato monopolizzato da un piccolo gruppo di ricchi e potenti – una sensazione che le porta a disprezzare la politica e le riempie di livore.
Quello che i filantrocapitalisti faticano ad ammettere è che un significativo cambiamento strutturale richiede molto di più di una App per smartphone e un PowerPoint. Bisognerebbe senz’altro affrontare le compagnie finanziarie che manipolano la borsa per arricchire gli azionisti invece che investire nei lavoratori e nei prodotti effettivamente utili per gli uomini; correggere un sistema fiscale regressivo nel quale il ricco paga meno tasse sui propri investimenti di quante ne paghi il lavoratore sul proprio salario; dare più potere ai lavoratori; affrontare le gerarchie coercitive di ricchezza e potere che mantengono un sistema economico duale nel quale il ricco è talmente lontano dai problemi quotidiani della maggioranza delle persone da non parlare più nemmeno la loro stessa lingua.
Antidemocratici messi in una posizione tale da non dover rendere conto a nessuno, nel libro di Giridharadas i nuovi filantropi emergono non tanto come risolutori di problemi sociali quanto come venditori di illusioni. L’imperatore può anche starsene lì con le sue mutande ecologiche a sbandierare grafici a torta, ma per la pubblica opinione è sempre più evidente come non possa essere lui la persona più interessata a demolire il proprio palazzo.
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