La vita misurata in fiches
di SAVERIO SQUILLACI (FSI Reggio Calabria)
Sono il papà di un bambino che a giugno compirà nove anni. Ho deciso di costruirmi una famiglia nonostante il giorno del mio matrimonio non avessi ancora un lavoro. Sono nato e vivo a Reggio Calabria, una delle città più antiche d’Italia, la mia terra, in cui sono rimasto a vivere nonostante tutto. La metà dei miei compagni di scuola e dei miei amici sono andati via, alcuni alla ricerca di un futuro migliore, altri semplicemente per sopravvivere.
Mi sono sempre sentito dire che la colpa di tutto questo è della politica, della corruzione, del crimine, ma ad un certo punto mi sono chiesto: tutto questo scempio non esisteva anche prima? E come mai allora i nostri genitori avevano il posto fisso, i risparmi e la seconda casa al mare? Ci hanno detto che abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità, eppure quegli stessi genitori ci hanno consentito di sopravvivere in qualche modo alla disoccupazione, ci hanno finanziato gli studi o i mezzi per cercare di costruirci un futuro. Senza la loro parsimonia saremmo già tutti in ginocchio.
Io probabilmente non potrò fare altrettanto per mio figlio! Dovrò prepararlo a lasciare la sua terra e a competere selvaggiamente in un mondo del lavoro globalizzato e spietato. Mi chiedo spesso se tramandargli i valori di dignità, onestà e solidarietà che mi sono stati insegnati oppure no. Sono certo che non gli serviranno per costruirsi un futuro ma solo per potersi guardare allo specchio senza vergognarsi di se stesso.
Guardo la gente che mi circonda: sono la mia comunità, la comunità che ad un certo punto della storia ha iniziato a chiamarsi Stato. Sono delusi, si sono arresi. Ognuno di noi si inventa degli espedienti per sopravvivere, nessuno di noi pensa più in prospettiva ma solo a cosa dovrà fare il giorno dopo. Il nostro futuro ha la durata di ventiquattro ore, di una settimana, non di più!
Il perché un’intera comunità abbia deciso di arrendersi a ciò che percepisce come ineluttabile non saprei spiegarlo, ma ciò che i nostri figli dovranno subire non possiamo più accettarlo passivamente. Non possiamo più parcheggiarli nelle Università sentendoci con la coscienza a posto, perché sappiamo bene che quei titoli di studio non gli garantiranno un’indipendenza economica, anzi ritarderanno solo il momento in cui dovranno guardare in faccia la realtà e prendere una decisione. Probabilmente inseguiranno il lavoro in capo al mondo, ovunque si trovi, e più volte nella loro vita dovranno spostarsi, senza poter pensare di costruire qualcosa di stabile: una casa, una famiglia, delle relazioni. Per alcuni forse sarà una bella avventura, perlomeno finché saranno giovani e forti, per altri no. Quando una scelta è obbligata, non si può parlare di libertà.
Quale sarà il loro destino? E il destino dei loro figli? Conosceremo i nostri nipoti su What’s App? Finiremo, noi e loro, i nostri giorni in una casa famiglia per anziani, magari in un posto lontano e sconosciuto? Quando non avremo più la forza per combattere potremo almeno consolarci con un abbraccio? Oppure piangeremo davanti allo schermo di un cellulare senza poterci toccare?
Noi padri e madri di questi figli, abbiamo il dovere di agire come comunità. Siamo ancora lo Stato e dobbiamo comprendere che se oggi la politica è stata demonizzata, è perché rappresenta l’unico modo che abbiamo per avere voce in capitolo su queste questioni. I signori che oggi siedono al governo o nelle pubbliche amministrazioni sono i capri espiatori di un sistema che non può funzionare e che non funzionerebbe nemmeno se fossero tutti onesti, preparati e sinceramente spinti da uno spirito di servizio verso i loro concittadini.
Ci siamo volontariamente privati del potere di intervenire sulle nostre attività produttive, sul nostro sistema sanitario, sulle nostre scuole! Perché? Non saremmo capaci di farlo?
È stata una follia decidere di limitare volontariamente le nostre risorse per rispettare dei parametri arbitrari come se lo Stato fosse davvero una famiglia con un reddito mensile ridotto e dovesse rinunciare ai pannolini per i propri figli! La forza di una comunità sta in ciò che sa fare, che sa produrre, che sa inventare! Se servono scuole, si costruiscono e se servono insegnanti li si fa insegnare. Per quale motivo non dovremmo farlo? Perché mancano i soldi?
I soldi sono un semplice mezzo di scambio. È come quando a Natale non avete le monete per giocare a carte ed usate le fiches! Per quale motivo non dovreste giocare? E dunque perché dovremmo mandare i nostri figli lontano da casa, costringerli a vivere in una topaia, a fare un lavoro che non amano, quando invece ne avremmo bisogno qui, per le nostre scuole, per i nostri ospedali, per le nostre aziende? Perché? Perché ci mancano le fiches?
Quale assurda follia ci ha portato a pensare che il denaro abbia un qualche valore intrinseco? Il denaro è un modo di misurare un qualcosa, come i metri o i chili! Solo chi ha tanto, tantissimo denaro, desidera che quest’ultimo abbia un valore reale. Rifletteteci! Siamo una comunità e dobbiamo essere noi a decidere del nostro futuro, di quello dei nostri figli e dei nostri nipoti! Non possiamo lasciare questo potere a chi produce metri per misurare le distanze o chili per stabilire il peso degli oggetti, perché è ovvio che questi tenderà a considerare la “misura” più importante di ciò che viene misurato.
La nostra esistenza e il nostro futuro non possono essere misurati in fiches.
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