La Lega e la farsa dei Minibot (Prima parte)
di CONIARE RIVOLTA
Capita a volte che un fatto insignificante si trovi nel posto giusto al momento giusto, e per questa semplice ragione assurga agli onori delle cronache, diventando questione importantissima. Diventando, quindi, altro. Quando questo capita, può essere interessante concentrare l’attenzione non tanto sul fatto in sé – che resta insignificante – quanto piuttosto sul particolare contesto che in quel fatto ha trovato un riflesso. Guardando attraverso il prisma dei Minibot – come vedremo, un fatto di per sé irrilevante – possiamo inquadrare la situazione politica italiana con molta più chiarezza di quella che ci restituiscono schiere di politologi armati di rumors e flussi elettorali.
Nulla è come appare in questa storia dei Minibot. Inizieremo quindi col chiarire i termini del discorso e gli aspetti tecnici del problema, innanzi tutto per rendere evidente l’insignificanza di questa ultima alzata d’ingegno della Lega di Salvini. Questo ci permetterà anche di concentrare l’attenzione su tutto ciò che ha iniziato a volteggiare intorno a questi curiosi ‘oggetti finanziari’, una fitta trama di interessi politici che ha generato un’impenetrabile maglia di equivoci, utili a tenere in vita un mito: l’idea che la Lega sia un partito di lotta lanciato in uno scontro all’ultimo sangue contro l’Unione Europea. Su questo mito si basa la gestione del potere in Italia oggi. Grazie ad esso, la Lega continua a macinare consensi tra gli sconfitti della globalizzazione, tra le masse di italiani precari, impoveriti, disoccupati, e in cerca di un riscatto da oltre venti anni di politiche neoliberiste, proprio mentre quelle politiche le pratica al Governo.
Cosa sono i Minibot? Questa storia nasce dalla constatazione di un dato di fatto: spesso e volentieri, le pubbliche amministrazioni pagano in ritardo i loro fornitori. Immaginiamo, ad esempio, un Ministero che acquista computer per i suoi uffici e li paga dopo sei mesi dall’acquisto. I motivi del ritardo possono essere i più disparati, dalla goffaggine burocratica ai vincoli di cassa legati alla gestione della liquidità. Fatto sta che, in quei sei mesi, il fornitore di computer si ritrova obtorto collo tra le fila dei creditori dello Stato: al pari di quanto avviene per ogni altro cliente che chiede una dilazione di pagamento, il venditore di computer si ritrova, suo malgrado, a prestare quella somma allo Stato per il periodo di tempo in cui è costretto a subire il ritardo nel pagamento. Si stima che, con questi ritardi, lo Stato abbia accumulato ad oggi circa 65 miliardi di euro di debiti verso i propri fornitori.
Le principali misure adottate per alleviare il problema, e dunque per permettere al fornitore dello Stato di non soffrire troppo di questo ritardo nella riscossione, sono due. La prima è la ‘compensazione’, che consente ai fornitori di estinguere almeno parte dei loro crediti commerciali verso lo Stato per pagare le imposte, decurtando da quel credito la cifra che avrebbero dovuto versare all’erario. La seconda è la ‘cartolarizzazione’, che permette al fornitore di passare ad una banca il credito verso lo Stato: il fornitore può così liquidare il suo credito senza dover attendere i tempi della pubblica amministrazione, ma per farlo deve concedere alla banca un compenso, il che riduce per lui il valore di quel credito.
Lo scorso 28 maggio, la Commissione Finanze della Camera ha approvato una mozione che prevede una serie di misure ulteriori, tra le quali l’idea di pagare i debiti commerciali dello Stato tramite l’emissione di “titoli di Stato di piccolo taglio”: ecco entrare in scena i Minibot.
Il loro nomignolo richiama l’analogia con i Buoni Ordinari del Tesoro (BOT), i titoli pubblici italiani a breve termine (oggi sono emessi con scadenze di 6 e 12 mesi) che costituiscono una piccola parte (6%) dei titoli del debito pubblico in circolazione. Quando lo Stato si indebita, lo fa collocando sui mercati finanziari dei titoli obbligazionari caratterizzati da diverse scadenze, tra cui i BOT: chi sottoscrive quei titoli presta il proprio denaro allo Stato, e si aspetterà di vederselo restituito maggiorato da un tasso di interesse. Chi ha sottoscritto l’ultima emissione di BOT annuali, ad esempio, ha prestato il proprio denaro allo Stato per 12 mesi in cambio di un tasso di interesse dello 0,122%.
I Minibot sarebbero dunque pensati per pagare i debiti commerciali dello Stato, trasformandoli in veri e propri titoli del debito pubblico: anziché attendere mesi e mesi per ricevere il denaro pubblico dovuto, i fornitori si vedrebbero corrispondere immediatamente un equivalente ammontare di Minibot. Le caratteristiche principali dei Minibot sarebbero due: il piccolo taglio, da cui deriva l’appellativo ‘mini’, e la possibilità di impiegarli come ‘moneta fiscale’, cioè per il pagamento delle tasse. Il piccolo taglio è un elemento particolare, perché di norma i titoli del debito pubblico sono scambiati sui mercati finanziari a partire da un lotto minimo di 1000 euro per transazione. Prevedendo tagli minimi da 10 euro (o addirittura minori) – lasciano intendere gli ‘esperti’ della Lega – sarebbe eventualmente pensabile anche la diffusione di questi titoli per i pagamenti correnti. Il nostro venditore di computer potrebbe ad esempio farci la spesa al supermercato, pagarci il medico e saldarci i suoi debiti. Si suppone che il supermercato, il medico e i subfornitori accetterebbero i Minibot come pagamento alternativo alla moneta a corso legale (l’euro) in virtù della seconda proprietà di questi strumenti finanziari, ovvero la loro capacità di pagare i tributi allo Stato. Immaginando che chiunque abbia tasse da versare all’erario, si ipotizza che i Minibot sarebbero accettati come mezzo di pagamento di qualsiasi transazione e dunque circolerebbero come se fossero una vera e propria moneta. Non possono tuttavia mai essere considerati una moneta a tutti gli effetti: l’art. 1277 del Codice Civile impone l’obbligo di accettazione – il cosiddetto ‘corso forzoso’ – solo alle monete a corso legale, proprietà riservata dalle norme europee (art. 128 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e artt. 2, 10 e 11 del Regolamento EC/974/98) solo all’euro: l’unica moneta a corso forzoso ammessa in Italia è dunque l’euro. Qualsiasi altra attività può essere impiegata negli scambi solo su base volontaria; da qui l’esigenza di attribuire ai Minibot la particolare proprietà di pagare imposte allo Stato, una proprietà che dovrebbe favorirne, senza rendere la loro accettazione obbligatoria, una certa diffusione.
La magia dei Minibot. I sostenitori dei Minibot ritengono che questo strumento consentirebbe di rilanciare l’economia grazie ad una maggiore circolazione della liquidità, senza al tempo stesso violare la disciplina di bilancio che ci chiede l’Europa. Per rilanciare l’economia, infatti, servirebbe un aumento di spesa da parte dello Stato che appare precluso dai vincoli al bilancio pubblico imposti dalle istituzioni europee; in questo quadro, i Minibot permetterebbero – stando a quanto asserito dai propri sostenitori – di aggirare furbescamente quei vincoli, creando liquidità senza intaccare i parametri relativi a deficit e debito pubblico. Un piccolo miracolo, se fosse vero. L’argomento in difesa dei Minibot è il seguente: esiste già un debito commerciale dello Stato verso i fornitori, e dunque la trasformazione di quel debito in titoli di Stato di piccolo taglio ne muterebbe la forma ma non la sostanza. In altre parole, i debiti commerciali dello Stato sarebbero già parte integrante del debito pubblico, e dunque l’introduzione dei Minibot non inciderebbe sull’ammontare del debito, ma si limiterebbe a trasformare attività illiquide (quali sono i crediti commerciali) in attività liquide, e dunque spendibili per consumi e investimenti; da qui lo stimolo all’economia senza violare le regole di Bruxelles. Parlando dei Minibot, Stefano Fassina ha recentemente dichiarato: “Certo che sono debito, ma è un debito che è stato già fatto, non è un ulteriore debito”. da ciò deriverebbe in ultima istanza la magia dei Minibot, misteriosi strumenti finanziari apparentemente capaci di rilanciare l’economia senza offendere la Commissione Europea, una vera panacea per chi è alla disperata ricerca della compatibilità politica con l’Europa ma vorrebbe ripagare almeno in parte la fiducia dei suoi elettori, che gli hanno affidato il compito di chiudere la stagione dell’austerità.
Purtroppo, però, le cose non stanno così. Per capirlo dobbiamo addentrarci nei meandri della contabilità pubblica, ossia di quell’insieme di regole e convenzioni che prelude alla misurazione di grandezze economiche. In particolare, tra i documenti di contabilità pubblica dobbiamo andare alla ricerca dei debiti commerciali partendo dalla misura che più ci interessa: il debito pubblico misurato secondo i criteri di Maastricht (oltre 400 pagine di metodologia, per avere l’idea della complessità contabile del problema). Questa è, infatti, la definizione di debito pubblico rilevante per l’applicazione della disciplina fiscale nell’Unione Europea. I vincoli europei, in altre parole, limitano il ricorso al debito nella sua definizione contabile elaborata dall’Eurostat, il braccio statistico della Commissione Europea, ed è dunque a quel particolare aggregato che dobbiamo guardare per capire se i crediti commerciali siano inclusi o meno nel computo del debito pubblico. La Banca d’Italia misura il cosiddetto ‘debito di Maastricht’ nel documento “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”, alla tavola 4: l’ultimo dato disponibile (marzo 2019) individua un debito pubblico pari a 2.356 miliardi di euro composto principalmente (85%) da titoli di Stato a breve e lungo termine (BOT, BTP e altri), poi da altre voci contabili (monete e depositi, prestiti finanziari) ed infine, per un modesto 2%, da “Altre passività”. Dentro a questa voce residuale vi sono circa 10 miliardi di euro che contengono – come spiega la nota metodologica del documento – anche “operazioni di cartolarizzazione (per la parte considerata come prestito secondo le regole statistiche europee) [e] cessioni pro soluto a favore di intermediari finanziari non bancari (in attuazione della decisione dell’Eurostat del 31 luglio 2012).” Che c’entra questo con il debito commerciale? Cartolarizzazioni e cessioni pro-soluto sono due metodi che un fornitore dello Stato, per fare un esempio, può adottare per trasferire il suo credito commerciale ad una banca o altro intermediario finanziario ed ottenere immediatamente liquidità. Il debito commerciale di una amministrazione pubblica è definito in termini contabili come uno sfasamento tra la competenza economica e la cassa: il Ministero impegna denaro per acquistare dei computer (competenza), ma verserà di fatto (tramite la cassa) quel denaro solo sei mesi dopo. Questo mero ritardo si trasforma in debito di Maastricht se e solo se viene formalizzato, cristallizzato in un contratto debitorio, cosa che avviene quando il fornitore – stufo di attendere la pubblica amministrazione – decide di cedere il suo credito ad un’istituzione finanziaria per ottenere della liquidità. In quel preciso momento, un semplice sfasamento cassa-competenza assume le vesti formali di una somma prestata dalla banca, subentrata al fornitore come creditore dello Stato. Quello che la documentazione contabile europea ci dice, dunque, è che i debiti commerciali in sé non entrano a far parte del debito pubblico conteggiato ai fini di Maastricht, a meno che quei debiti non vengano trasferiti formalmente ad una banca. La decisione dell’Eurostat del 31 luglio 2012 precisa che “quando un fornitore di beni e servizi che detenga un credito verso lo Stato registrato come un credito commerciale trasferisce totalmente e irrevocabilmente quel credito ad un’istituzione finanziaria (…), la passività dello Stato originariamente registrata come credito commerciale deve essere riclassificata come prestito, parte integrante del debito di Maastricht”.
Dunque, per concludere questa noiosa ma necessaria digressione contabile, i debiti commerciali dello Stato non sono attualmente parte del debito pubblico rilevante per l’applicazione dei vincoli europei, se non per la parte cartolarizzata e quindi tradotta in prestiti bancari. Ne discende che un’eventuale trasformazione dei debiti commerciali non cartolarizzati in Minibot creerebbe – ai fini del calcolo necessario per verificare l’aderenza ai vincoli imposti dalle istituzioni europee – un equivalente ammontare di nuovo debito pubblico. Di quali cifre stiamo parlando? Nei conti finanziari della Banca d’Italia è possibile rintracciare i debiti commerciali del settore pubblico, che ammontano a circa 43 miliardi di euro. Ciò significa che, ad oggi, gravano sul debito pubblico solo 10 miliardi di euro di debiti commerciali (ossia quelli cartolarizzati o ceduti alle banche), mentre 43 miliardi di euro di ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione restano fuori dal perimetro di computo del debito pubblico. È la Banca d’Italia a confermare questo calcolo individuando, nell’ultima relazione annuale, “circa 53 miliardi” di debiti commerciali complessivi di cui, “secondo le statistiche europee, una parte (circa 10 miliardi) è già inclusa nel debito pubblico.” (p. 145).
Tirando le fila del discorso, dunque, è inutile discutere ulteriormente nel merito della proposta dei Minibot. È inutile, insomma, chiederci se davvero quei titoli di Stato di piccolo taglio circolerebbero effettivamente nell’economia, stimolando la domanda di beni e servizi, cosa peraltro affatto scontata. Una loro introduzione creerebbe più di 40 miliardi di euro di nuovo debito pubblico, fuori dalla disciplina di bilancio imposta dalle istituzioni europee. Nessun trucco contabile può spezzare le catene che paralizzano le economie europee; nessun espediente tecnico può risolvere un problema politico. Se si tratta di uscire dalle regole di bilancio definite dalla Commissione Europea, tanto vale sforare i vincoli per la via maestra, creando nuovo debito e dunque raccogliendo moneta sui mercati finanziari, liquidità libera di stimolare l’economia senza incontrare tutte le frizioni che il nuovo e astruso oggetto dei Minibot necessariamente produrrebbe. Il problema è che questa conclusione, che ci sembra perfettamente logica, si scontra con il contesto politico che tanto risalto ha dato al tema dei Minibot, un contesto caratterizzato dalla continua ricerca della compatibilità con i vincoli europei. Nessun partito che siede in Parlamento, oggi, osa mettere seriamente in discussione quei vincoli; nessuno vuole quindi ammettere che le politiche espansive necessarie a superare questa crisi richiedono la rottura della gabbia europea. La Lega, lungi dall’essere impegnata in un braccio di ferro con l’Europa e i suoi vincoli, sta disperatamente cercando di restare al governo senza offendere la sensibilità di Bruxelles. A questo servono i Minibot: a sognare un rilancio dell’economia sotto lo sguardo mansueto dei guardiani dei conti pubblici della Commissione Europea, contribuendo al contempo a rendere ancora più stretta la corda con cui la disciplina fiscale europea ci soffoca. Un sogno, se così si può definirlo, destinato a rimanere tale.
Ma la storia dei Minibot, come vedremo, non finisce qui. Si è creato infatti, intorno ad essi, un vero e proprio mito: l’idea che questi bizzarri artifici contabili pongano le basi per un’uscita dell’Italia dall’euro. Un mito molto utile all’attuale Governo perché, proprio nella fase in cui Salvini è costretto a inasprire le misure di austerità imposte dell’Unione Europea in aperta contraddizione con il mandato di 9 milioni di elettori, alimenta l’immagine di una Lega intenta a sradicare alla radice il male dell’austerità. Ne discuteremo nella seconda parte di questo pezzo.
Fonte: https://coniarerivolta.org/2019/06/05/la-lega-e-la-farsa-dei-minibot-prima-parte/
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