La verità sul neoliberalismo
Traduzione a cura di Alessandro Castelli (FSI Trento)
È la paura dello Stato nazione come forza democratica che sta alla base del progetto neoliberale.
Questo è il secondo saggio di una serie in due parti di Phil Mullan che esplora il credo politico ed economico del globalismo. La prima parte, che esplora l’ideologia del globalismo, è pubblicata qui.
‘Neoliberalismo’ è una parola oggi spesso usata come un insulto rivolto contro qualsiasi cosa che alla sinistra non piace del capitalismo. Quindi, tutte le caratteristiche discordanti della vita economica contemporanea – partenariati pubblico-privato, contenimento della spesa pubblica, disuguaglianza e così via – sono ordinariamente attribuite al ‘neoliberalismo’, come se quell’etichetta fosse sufficiente per condannarle.
Quando dei commentatori cercano di andare oltre il neoliberalismo come mero peggiorativo tendono a concepirlo come un fenomeno anglo-americano, con la Chicago School of economists, e Ronald Reagan e Margaret Thatcher, presentati come i suoi protagonisti chiave. Ma la verità è un po’ diversa. L’eredità intellettuale del neoliberalismo è in realtà molto più centroeuropea che non americana o britannica.
Carl Menger, il fondatore della scuola neoliberale austriaca di economia, morto nel 1921, nacque nell’attuale Polonia. E le sue due figure di spicco, entrambe importanti nel corso del XX secolo, provenivano a loro volta dall’Europa centrale e orientale: Ludwig von Mises era ucraino e Friedrich Hayek era nato a Vienna. Ciò che questi pensatori condividevano era un insieme di esperienze formative insolite: l’aver vissuto da vicino la rivoluzione russa del 1917 e, in seguito, lo stalinismo e il nazifascismo.
Inoltre, il neoliberalismo non è, e non è mai stato, semplicemente una dottrina economica. Piuttosto, è molto di più un progetto politico, emerso in parte da una critica alla diffusione della sovranità nazionale che scaturiva dalla dissoluzione degli imperi dopo la Prima guerra mondiale. Accanto alla fine degli imperi tedesco e russo, anche gli imperi ottomano e austro-ungarico arrivarono al capolinea. Molti nuovi Stati nazionali, già visibili politicamente da diversi decenni, presero il loro posto. I pensatori che in seguito si definirono neoliberali erano ostili a questo sviluppo, vedendo nella sovranità nazionale un impedimento alle ‘libertà economiche universali’ che sostenevano. La loro alternativa preferita alla nazione era una mescolanza di ‘Governo mondiale’ e ‘sovranità individuale dei consumatori’.
Per esempio, molti di coloro che furono coinvolti nella creazione della famosa società neoliberale Mont Pelerin, nel 1947, non ultimi von Mises e Hayek, erano cresciuti nell’idea di essere destinati a servire l’impero austro-ungarico, nel frattempo ormai scomparso. Ed essendo ovviamente scontenti di tale situazione, giunsero a promuovere il vecchio impero insieme a un’altra istituzione fallita, la Lega delle Nazioni, come buoni modelli per la federazione internazionale. Tali organizzazioni transfrontaliere, essi credevano, avrebbero potuto contribuire a realizzare l’unità economica tra i Paesi e garantire i benefici di una più ampia divisione del lavoro.
Negli anni ‘30, i neoliberali erano tra i più lungimiranti nel favorire interventi sovranazionali sugli Stati per preservare e proteggere l’ordine capitalista basato sulla proprietà privata. Verso la fine della Seconda guerra mondiale, von Mises suggerì di riformare la Società delle Nazioni come Governo internazionale. Sperava che così facendo si potesse garantire la libera circolazione di beni, servizi, capitali e persone, anticipando così di mezzo secolo il quaderno delle ‘quattro libertà’ del mercato unico dell’Unione europea. Von Mises credeva senza dubbio nella ‘mano invisibile’ del mercato, ma pensava anche che fosse necessario, per prendere in prestito una frase evocativa dallo storico di Harvard Quinn Slobodian, ‘un guanto di ferro’ di uno Stato sovranazionale per proteggerlo.
La maggior parte dei neoliberali, tra cui von Mises, Hayek e Robbins, accettava la persistenza dello Stato nazione per proporre però una forma di ‘doppio Governo’: dovevano esserci interventi sia a livello nazionale che sovranazionale. Ciò che essi chiamavano questioni ‘culturali’ potevano ancora essere gestite a livello nazionale, ma la gestione dell’economia sarebbe stata separata dalla nazione e perseguita a livello mondiale. Questo sistema di ‘doppio Governo’ è stato visto come un modo per istituzionalizzare il loro fine ultimo: la separazione della politica dall’economia.
Un doppio Governo separerebbe il dominio degli Stati nazione da quello del capitale e della proprietà privata. Ciò rappresentava una divisione tra ciò che i neoliberali chiamavano imperium (la regola delle persone) e dominium (la regola delle cose). Essi cercavano di depoliticizzare l’economia in modo permanente, liberandola dall’interferenza della politica e delle persone e lasciandola controllare da uno Stato sovranazionale non politico.
Le idee neoliberali e proto-globaliste anticiparono la successiva depoliticizzazione della politica economica che è diventata così evidente negli ultimi decenni. In effetti, dagli anni ‘80, in particolare nei Paesi occidentali, l’autorità e il processo decisionale sono stati esternalizzati a organismi non sottoposti al mandato popolare come le banche centrali indipendenti e, in modo ancora più palese, all’UE. I politici nazionali in tutta Europa hanno conferito parte del loro potere e delle loro responsabilità all’apparato di Bruxelles e a volte, molto convenientemente, hanno attribuito a esso la colpa di ciò di negativo che stava accadendo. La responsabilità per le politiche interne può essere elusa quando si afferma che le ‘regole dell’UE’ precludono di fare ciò che le persone vogliono o di cui hanno bisogno.
È stata l’esperienza dei neoliberali negli anni tra le due guerre che ha alimentato la loro aperta ostilità alla democrazia di massa
Da un lato, le idee sviluppate dal neoliberalismo tra le due guerre sembravano anticipare pienamente il quadro economico postbellico composto da FMI, dalla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD) – successivamente ribattezzata Banca mondiale – dall’Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio (GATT), e, in seguito, dalla Comunità europea (che divenne l’UE). D’altra parte, quando queste istituzioni furono effettivamente poste in essere, molti neoliberali pensarono fossero difettose, per via del fatto che avevano ancora ceduto troppo potere economico agli Stati nazione.
Tuttavia, questa convinzione non ha impedito ai neoliberali di diventare parte attiva del nuovo regime. La versione tedesca del neoliberalismo, che nel 1950 fu ribattezzata Ordoliberalismus, fu probabilmente la più esplicita nello spiegare le responsabilità necessarie dello Stato. Prima della guerra, il fondatore dell’Ordoliberalismus, Walter Eucken, della Scuola di Friburgo, ha chiesto uno ‘Stato forte’ per poter superare gli interessi delle lobby. Secondo Werner Bonefeld, uno scienziato politico, questa forma di neoliberalismo ha concepito la relazione tra mercato e Stato come quella tra un’economia libera e uno Stato forte.
In questo spirito Lars Feld, l’attuale direttore del Walter Eucken Institute (istituito a metà degli anni ‘50 dopo la morte di Eucken nel 1950), descrive il ‘classicismo neoliberale’ come il Governo che fornisce il quadro normativo, costituzionale e legale per plasmare i mercati. Nel dare le sue ragioni perché sia necessario sposare il ‘libero mercato’, ha spiegato che il Governo non dovrebbe intervenire nelle decisioni economiche quotidiane. Inoltre, Feld descrive lo Stato come la ‘forza concentrata’ del sistema delle libertà.
Bonefeld suggerisce quindi che l’Ordoliberalismus è meglio caratterizzato come un liberalismo autoritario, che da allora è stato realizzato sotto forma di UE (1).
Il globalista del dopoguerra Jan Tumlir, avvocato e capo economista del GATT per quasi due decenni, dal 1967 al 1985, ha a sua volta concepito l’UE in termini neoliberali. Come ha affermato nel 1983, ‘la protezione dell’economia privata da parte del Governo è stata l’idea eminente nel formare l’impresa europea’(2).
Hayek perseguiva lo stesso approccio nel sostenere istituzioni globali per salvaguardare il capitalismo. Per lui, ciò significava proteggere ciò che definiva il ‘diritto negativo’ per gli investimenti stranieri di essere al riparo dall’esproprio e il diritto di spostare capitali liberamente attraverso i vari confini di Stato.
Di qui la festosa accoglienza da parte di molti neoliberali nei confronti dell’Unione economica e monetaria (UEM), dell’UE e della Banca centrale europea indipendente (BCE). Ciò equivaleva a una ‘costituzione economica’ per l’Europa. Allo stesso modo, alcuni neoliberali sostengono anche le discusse disposizioni sugli accordi di risoluzione delle controversie tra investitori e Stati nei recenti accordi mega-commerciali, che danno alle imprese che operano in territori stranieri diritti legali sullo Stato nazione ospitante.
Le guide dell’ordine globale
La realizzazione postbellica di una versione ridotta dell’idea ‘doppio Governo’ stabilì la coesistenza dello Stato nazione accanto a una serie di organismi internazionali. L’obiettivo era un mondo dove gli Stati fossero sottoposti a un controllo più rigido rispetto a quello posto in essere dalla Società delle Nazioni. Questa aspirazione nacque dalle esperienze strazianti della prima metà del 20° secolo. Mentre l’egemonia globale degli Stati Uniti era una precondizione per questo ordine postbellico, è importante notare che le figure dell’Europa continentale furono fondamentali nel modellare le forme assunte da tale ordine. Ciò rifletteva il fatto che le esperienze dell’occupazione tedesca e della guerra furono avvertite in modo particolarmente acuto nell’Europa centrale. E l’ordine del dopoguerra fu una risposta proprio a tali esperienze.
Tre preoccupazioni motivarono gli architetti dell’ordine postbellico: la prima era un ritorno del fascismo, del conflitto internazionale e, in definitiva, di un’altra guerra mondiale; in secondo luogo, un possibile collasso del sistema economico, come era quasi accaduto nella crisi degli anni ‘30; terzo, erano spaventati dal potere delle masse e dalla gente comune che iniziava a pretendere di occuparsi personalmente delle problematiche sociali e politiche.
Quest’ultima paura era cresciuta sin dalla rivoluzione russa e venne in seguito rafforzata dall’idea, diffusa anche se fuorviante, che Hitler e i nazisti fossero stati eletti democraticamente nel 1933 (3). La fusione di queste tre preoccupazioni, che ora esaminerò più dettagliatamente, aiuta a spiegare le politiche e i comportamenti dei globalisti nel periodo postbellico.
1) Prevenire i conflitti
La preoccupazione immediata dei globalisti riguardava la ripresa del conflitto internazionale. Non sorprende che i termini ‘globalismo’ e ‘globale’ abbiano iniziato a guadagnare consenso subito dopo lo scoppio della Seconda guerra mondiale (4).
La conflagrazione del 1939 segnò l’inizio della prima vera guerra globale. Fino ad allora, la guerra del 1914-18 era stata generalmente chiamata la Grande Guerra. Pur con qualche teatro bellico anche in Asia e in Africa, questa guerra venne combattuta prevalentemente sul suolo europeo. Alcuni sostengono che la Grande Guerra iniziò a essere definita guerra mondiale nel 1939. Si ritiene che la rivista Time abbia coniato il termine ‘Prima guerra mondiale’ nel suo numero del 12 giugno 1939. Nella consapevolezza della minacciosa possibilità di una guerra globale, non passò molto tempo prima che qualcuno iniziasse a pensare che fosse necessario un piano globale per il mantenimento della pace.
E fu qui che che per la prima volta si vide quanta enfasi i globalisti conferiscano al sovranazionale a spese della nazione. Rosenboim, ad esempio, descrive una rete transnazionale di pensatori globalisti quale conseguenza diretta dei traumi della guerra, poiché le brutali conseguenze delle azioni compiute dalla Germania e dal Giappone, nella loro sovranità, sembravano sopraffare qualsiasi precedente apprezzamento dei benefici della sovranità nazionale. Fritz Scharpf, ex direttore dell’Istituto Max Planck per lo Studio delle Società, scrisse che dopo il 1945 l’autorità politica su scala nazionale sembrava perdere gran parte della sua pretesa di ‘ottimalità’ (5).
Scharpf era in buona compagnia. Gli internazionalisti di varie fedi politiche criticarono gli Stati sovrani, nel loro essere intrinsecamente ‘egoisti’, come causa della guerra, mettendo in discussione l’efficacia dello Stato nazionale come unità politica autonoma. Poiché una federazione di nazioni democratiche era stata necessaria per sconfiggere il fascismo, un simile tipo di collettività sembrava una visione appropriata per un durevole ordine postbellico. Era anche chiaro che la semplice reintroduzione di un raggruppamento a base volontaria come la Società delle Nazioni non sarebbe stata sufficiente per preservare la pace. Quindi, istintivamente, adottarono la via tecnocratica dell’adozione di regole e sistemi istituzionali validi per tutti gli Stati per cercare di cementare la cooperazione internazionale.
Da qui la priorità che i nuovi globalisti diedero nel 1944, anche se il bagno di sangue continuò in Europa e in Asia, al sistema monetario internazionale di Bretton Woods per regolare i tassi di cambio e istituire il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Questi accordi internazionali furono forgiati per impedire il ripetersi delle caotiche condizioni interbelliche. L’ONU fu varata a San Francisco nel giugno del 1945. Un anno dopo a Ginevra, Lord Cecil, che aveva diretto la prima assemblea della Società delle Nazioni, nel 1920, dichiarò: ‘La Lega è morta. Lunga vita alle Nazioni Unite.’ Il GATT venne lanciato un anno dopo, nel 1947. La creazione del GATT incarnò un certo tipo di narrazione postbellica su ciò che aveva causato il conflitto, una narrazione, cioè, che fosse inclusiva e conciliatoria, grazie al fatto che andava a sottolineare le cause economiche piuttosto che politiche della guerra stessa. Così, si poteva dare la colpa della guerra a un’escalation che era iniziata con l’uso di politiche commerciali discriminatorie, principalmente attraverso le tariffe doganali. Di conseguenza, il primo articolo del GATT impegnò i suoi membri alla non discriminazione. Conosciuto come ‘clausola della nazione più favorita’, le concessioni commerciali concesse a un membro dovevano essere applicate immediatamente e senza condizioni a tutti gli altri membri. L’adesione a questa disposizione proibirebbe quindi il tipo di politiche commerciali discriminatorie che erano state perseguite negli anni ‘30 e che sembravano aver portato alla rivalità inter-imperialista.
L’approccio antidemocratico top-down dei globalisti è stato ben illustrato in occasione di una conferenza degli Stati Uniti nel 1958 sulle esigenze di sviluppo dell’Africa: non c’era un solo africano presente
Simili sentimenti erano alla base della carta fondativa delle Nazioni Unite, in cui i membri si erano riuniti per ‘salvare le generazioni successive dal flagello della guerra’. La risoluzione collettiva dei problemi sembrava molto allettante per leader che, per due volte nella loro vita, avevano visto la guerra portare ‘un immenso dolore all’umanità’ (6).
Tuttavia, questo appello alle responsabilità degli Stati membri ha fatto sì che alcuni globalisti della metà del secolo fossero apertamente delusi dal fatto che la carta delle Nazioni Unite continuasse ad abbracciare la sovranità nazionale dello Stato. Alcuni intellettuali, da H.G. Wells e Barbara Wootton allo stesso Hayek, esprimevano dei dubbi sulla creazione di un’organizzazione internazionale che dipendesse dalla sovranità dei suoi Stati membri, finendo persino per rafforzarla. Ma, in realtà, questa dipendenza era il risultato del ruolo decisivo svolto dall’apparato dello Stato nazione nel perseguire collettivamente e vincere la guerra, un fatto, questo, che mitigò l’idea di ridurre completamente il ruolo dello Stato nazionale a guerra finita.
In effetti, la pianificazione organizzata che aveva sostenuto il successo dello sforzo bellico alleato aveva impressionato anche i pensatori di destra. Tuttavia, continuavano a sostenere che nel nuovo spazio politico globale che si era sviluppato la nazione era semplicemente troppo limitata per essere efficace da sola e quindi chiedevano una qualche forma di organizzazione internazionale pur mantenendo un ruolo per lo Stato nazionale al di là delle modifiche a esso apportate. Alla fine, la maggior parte dei globalisti è andata avanti con la costruzione di un nuovo ordine intorno agli Stati nazionali esistenti, limitando i loro poteri senza abolirli.
2) Contenere la crisi capitalistica
La seconda preoccupazione che andava a motivare l’ordine del dopoguerra era la paura di una crisi del sistema capitalistico. Il crollo degli anni ‘30 aveva scosso Hayek e i suoi colleghi della scuola austriaca altrettanto gravemente di quanto avesse scosso i pensatori più convenzionali quali John Maynard Keynes e i suoi colleghi. Hayek e Keynes semplicemente presero dei percorsi diversi per salvare il capitalismo. Significativamente, però, le strade intraprese non erano poi così diverse, come illustrato nel famoso Colloquio Walter Lippmann, svoltosi a Parigi nel 1938.
È qui che von Mises, Hayek e gli altri presenti scelsero l’etichetta ‘neoliberalismo’ per le loro idee. Walter Lippman, un influente giornalista americano che era stato in precedenza direttore della ricerca per il consiglio della Grande Guerra del presidente Woodrow Wilson, fornì un volto noto al grande pubblico all’ordine internazionale in arrivo.
Gli atti del Colloquio incorporarono la stessa riflessione che Keynes fece nel respingere le idee del laissez faire del diciannovesimo secolo. Il loro obiettivo non era principalmente quello di limitare lo Stato, ma di ripensare il tipo di Stato necessario per salvaguardare il mercato dal collasso. Molti al Colloquio riconobbero che il mercato autoregolamentato era un mito e sapevano per esperienza amara che il capitalismo autoreferenziale non funzionava. L’economia quindi aveva bisogno di sostegno da parte dello Stato. Accettare un ruolo economico per lo Stato al di là di quello del metaforico ‘guardiano notturno’ faceva parte del pensiero neoliberale sin dal suo inizio.
L’attuale narrazione secondo cui il neoliberalismo globalista sia ‘anti-Stato’, per quanto fittizia, può attingere a ciò che venne detto al Colloquio, pur con qualche attenzione. Alcuni partecipanti criticarono fortemente quella che venne definita ‘l’illusione del controllo’. Tutti loro, volendo che lo Stato preservasse il capitalismo, respinsero con veemenza le proposte socialiste di Stato come ‘controllo generale’ dell’economia mediante ‘un’autorità intelligente, ripudiando tali idee come tanto ingenue quanto dannose dal momento che consideravano l’economia come un qualcosa determinato dalle milioni di risposte individuali ai prezzi, un quadro chiaramente troppo complesso perché venisse ricostruito, compreso e controllato da qualsiasi economista o da qualsiasi autorità centrale.
Da parte nostra, poiché il tema è fondamentale nelle odierne teorie della globalizzazione, facciamo notare che questa enfasi sulla ‘complessità’ era presente anche prima del 1939, e uno sguardo alla discussione prebellica invalida l’affermazione di alcuni globalisti contemporanei secondo la quale la complessità sia un fattore relativamente nuovo, derivante dal nostro mondo globalizzato e in rapido movimento e che, come tale, necessiti di far ripensare la democrazia perché questa forma di Governo era fattibile solo in tempi caratterizzati da una maggiore semplicità e linearità, tempi identificati come gli anni prima del 1980. Tuttavia, come vediamo qui, l’idea della complessità è stata a lungo usata per giustificare la limitazione delle pratiche democratiche.
Negli anni ‘30, la conclusione dei neoliberali era che sebbene l’economia fosse troppo complessa per essere controllata, avrebbe potuto almeno essere in qualche modo organizzata. Questo tentativo di ordine non solo avrebbe cementato la cooperazione internazionale, ma avrebbe aiutato anche a frenare le tendenze destabilizzanti del capitalismo e a prevenire le crisi del capitalismo, da qui il desiderio di regole per regolare il capitalismo stesso. Un’altra loro conclusione era che, affinché il mercato potesse imporre il proprio ordine, esso dovesse essere protetto da un ‘quadro extra-economico’ sotto forma di una struttura legale, costituzionale e normativa.
Dopo il 1945, il più grande successo economico degli Stati Uniti fu proprio la rinascita del capitalismo internazionale dalle macerie della depressione e della guerra. Il FMI e l’IBRD avviarono il processo di ristrutturazione del capitalismo nell’Europa occidentale e in Giappone. Sotto le ulteriori pressioni della Guerra Fredda in corso, gli Stati Uniti si assunsero la responsabilità diretta di accelerare la ricostruzione del capitalismo occidentale.
E se Hayek pensava che ‘la democrazia ha bisogno dell’arma rappresentata da Governi forti’, temeva anche che le democrazie potessero conferire ai Governi ‘troppo potere’.
Il Giappone fu ricostruito sotto un’efficace occupazione americana, guidata dal generale Douglas MacArthur. Per la rinascita europea, gli Stati Uniti presero l’iniziativa con il piano Marshall, lanciato nel 1947. Come dimostrano questi interventi dello Stato nazione americano, le attività economiche internazionali non furono intraprese escludendo lo Stato nazionale. Tutto il contrario: le organizzazioni internazionali e gli Stati nazionali hanno lavorato in tandem. Le decisioni prese a livello sovranazionale si basavano sugli Stati nazionali per la loro attuazione, individualmente o in collaborazione.
Questa relazione tra lo Stato e il capitalismo liberale internazionale è ben ripresa dalla formula ‘embedded liberalism’, formula coniata nei primi anni ‘80 dallo scienziato politico John Ruggie per descrivere l’espressione internazionale dell’economia mista keynesiana. I Governi nazionali del dopoguerra che si trovavano all’interno di questi organismi internazionali non erano scoraggiati dall’agire, al contrario era loro richiesto di farlo. In effetti, ci si aspettava che gli Stati si assumessero grandi responsabilità, avendo un ruolo ben preciso nel mantenere la stabilità del mercato e la crescita economica. Ad esempio, le nazioni che aderirono al sistema di Bretton Woods si impegnarono a seguire le nuove regole multilaterali dei tassi di cambio fissi ma regolabili. Ciò era in aggiunta ad aiutare le proprie economie attraverso l’interventismo statale nazionale. Inizialmente, il nuovo regime internazionale riconciliava apertamente le iniziative economiche multilaterali con gli interventi statali nazionali (7). In contrasto con la smodata globalizzazione contemporanea dello Stato nazione, l’intervento internazionale e quello nazionale non erano visti come opposti e contrastanti fra loro.
3) Controllare le masse
La terza preoccupazione che andava a motivare il globalismo è la sfiducia nelle masse. Le élite politiche dell’Europa occidentale e dell’America, dopo la Seconda guerra mondiale, erano decise a evitare gli sconvolgenti disordini sociali degli anni tra le due guerre. Il passaggio quasi immediato alla Guerra Fredda assicurò che questo angoscioso ricorso rimanesse molto rilevante. Le preoccupazioni per il conflitto di classe avevano una pesante influenza non solo sull’estensione dello statalismo del welfare domestico, ma anche sull’istituzione del nuovo regime internazionale.
I globalisti vedono l’’ordine’, di qualsiasi tipo esso sia, come necessario per contenere l’inaffidabilità e il rancore inerenti alla popolazione. Interpretano la storia come una prova del fatto che la gente comune preferisca l’ordine e la sicurezza derivanti da una sorgente autoritaria alla libertà e alla democrazia. Concludono che è stata l’assenza di un ordine internazionale negli anni tra le due guerre che permise l’ascesa al potere di Mussolini, Hitler, Franco e Stalin. Forse, scrisse lo studioso di politica estera Robert Kagan, se gli Stati Uniti avessero fatto nel 1919 quello che fecero nel 1945 – stabilendo un ordine mondiale liberale – potremmo non aver mai conosciuto l’Hitler dei nostri libri di storia (8).
I globalisti neoliberali come Hayek non differivano dai keynesiani quando si parla dei livelli dell’intervento statale, piuttosto la loro opposizione veniva dall’associare le politiche di Stato keynesiane con il socialismo e le masse indisciplinate, perché identificavano l’economia mista postbellica come una variante del socialismo di Stato, che odiavano. Lungi dal negare l’attivismo di Stato in linea di principio, i neoliberali erano molto più preoccupati per l’influenza del marxismo e dell’Unione Sovietica, così come per il fascismo nazionalsocialista da cui molti di loro erano fuggiti. Era il loro rifiuto di queste forme di controllo statale che rafforzava il loro scetticismo sulla democrazia, scetticismo che per alcuni di loro diventava aperta ostilità verso la democrazia di massa.
Il teorico politico americano Wendy Brown ha suggerito che gli appartenenti al nucleo originale dei neoliberali degli anni tra le due guerre non fossero soggettivamente antidemocratici, ma che il loro convincimento riguardo la necessità di mantenere la politica separata dall’economia si è evoluto fino a diventare la richiesta di mantenere la politica isolata dalle ‘richieste emotive delle masse ignoranti’ (9).
Come un altro resoconto del funzionamento del processo decisionale politico nell’Europa del dopoguerra spiega:
‘L’isolamento dalle pressioni popolari e, più in generale, una profonda sfiducia nei confronti della sovranità popolare stanno alla base non solo degli inizi dell’integrazione europea, ma anche della ricostruzione politica dell’Europa occidentale dopo il 1945 in generale… Gli ‘assetti costituzionali’ erano tutta una questione di distanziamento delle politiche europee dagli ideali di sovranità parlamentare e delegando il potere a organismi non eletti, come le corti costituzionali, o allo Stato amministrativo in quanto tale »(10).
Un approccio tecnocratico e anti-politico al coordinamento internazionale postbellico si adattava anche all’agenda degli Stati Uniti. Invece di una ‘lega’ basata su una presunta fiducia condivisa nei valori civili da parte delle singole persone, gli Stati Uniti enfatizzavano i benefici delle competenze scientifiche e tecniche collettive. Basandosi sull’espansione del lavoro dell’apparato tecnico della Società delle Nazioni, gli americani cercavano un meccanismo permanente basato su delle regole, andando però ben oltre la semplice sicurezza toccando settori economici, assistenziali e sociali.
Almeno nelle discussioni anglo-americane, tali organizzazioni, nel momento in cui furono implementate, mantennero idealmente la motivazione di servire la democrazia. Tuttavia, era evidente fin dall’inizio che le nazioni più piccole, e il demos in generale, avrebbero effettivamente avuto poca voce in capitolo sul modo in cui tali istituzioni avrebbero operato. Ci si aspettava che tutti i membri delle Nazioni Unite obbedissero alle decisioni del Consiglio di sicurezza, che era dominato dai cinque grandi (Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica, Cina e Francia). Secondo l’articolo 2 dell’ONU, anche i non membri avrebbero dovuto fare lo stesso.
Allo stesso tempo, l’uso del termine ‘democrazia’ spesso era sottoposto a uno slittamento semantico dalle potenze dominanti allo scopo di favorire gli interessi di quest’ultime. Secondo il Governo britannico del dopoguerra, il colonialismo era giustificato come ‘un’illustrazione pratica di democrazia sotto tutela’. Contrariamente all’idea che la nuova ONU dovesse promuovere l’autodeterminazione universale, la sua carta evitò ogni chiara imposizione per la piena indipendenza delle colonie, limitandosi a impegnare le potenze coloniali a promuovere ‘al massimo’ gli interessi e il benessere degli abitanti di quest’ultime, ora ribattezzati ‘territori non autonomi’.
Anche l’élite politica americana, sostenendo un approccio ‘evolutivo’ all’autodeterminazione, manteneva un apprezzamento della democrazia quando questa si fosse dimostrata come retta da personale qualificato. Negli anni ‘50 il segretario di Stato del presidente Eisenhower, John Foster Dulles, spiegò che gli Stati Uniti sostenevano l’indipendenza politica nazionale solo quando la popolazione di un Paese si era dimostrata sufficientemente ‘civilizzata’. Avevano bisogno di essere ‘capaci’ di sostenere l’indipendenza e di assolvere le responsabilità nazionali in conformità con le ‘norme accettate delle nazioni civili’. Ciò che era ‘accettabile’ era definito dal Governo degli Stati Uniti in quel momento in carica, non dalle persone di quei Paesi.
L’approccio antidemocratico top-down dei globalisti è stato ben illustrato in occasione di una conferenza degli Stati Uniti nel 1958 sulle esigenze di sviluppo dell’Africa: non c’era un solo africano presente. Gli organizzatori pensarono semplicemente che gli africani sarebbero stati da una parte scarsamente istruiti e dall’altra, probabilmente, faziosi e di mentalità ristretta, a differenza degli esperti occidentali presenti, motivati da null’altro che dalle loro conoscenze scientifiche.
Tumlir fu ancora più esplicito nell’esternare la sua paura delle masse, sia quando disse che l’ordine economico internazionale stava ‘proteggendo il mercato mondiale’ dalle pressioni popolari oppure quando spiegò, nel suo ruolo allora di capo economista al GATT, che ogni volta che c’è la democrazia, c’è anche la possibilità che le masse possano impadronirsi dello Stato, dal momento che in democrazia lo Stato stesso ‘cessa di essere un Governo e diventa un’arena per i combattimenti gladiatori di interessi organizzati’. Il grande rischio della democrazia, concluse Tumlir, è che può portare al socialismo. Il vero problema a livello istituzionale, sempre secondo Tumlir, è che i Governi democratici potevano agire contro gli interessi vitali delle loro stesse società. Quindi, è necessaria una costituzione formale per ‘strutturare’ o ‘limitare’ la discussione politica. La Banca Mondiale ha successivamente richiamato l’attenzione su ciò che ha descritto come i ‘pericoli intrinseci’ di una maggiore apertura e partecipazione: ampliare le opportunità della partecipazione pubblica è visto come una via per aumentare le richieste fatte allo Stato, incrementando, sempre secondo la Banca Mondiale, il rischio di ingorgo o del fatto che gruppi di interesse dichiarati si impadroniscano dello Stato. Laconicamente, Tumlir riassunse la logica soggiacente ai sistemi basati su delle regole così: ‘le regole internazionali proteggono il mercato mondiale dai Governi’ (11). Le regole stabilite dalle élite internazionali apparentemente riconoscono gli interessi di una società nazionale meglio di quanto non possa fare il suo stesso popolo. In questo modo, le regole non mettono solo le catene su ciò che i Governi possono fare, ma giustificano anche il rifiuto di impegnarsi in un dibattito politico con il popolo che li ha eletti.
I globalisti e i neoliberali parlano di ‘libero mercato’ e ‘libero scambio’, ma la libertà che li motiva veramente è la libertà dalla politica
Analogamente, la Banca Mondiale ha richiamato l’attenzione su un meccanismo che vede le istituzioni internazionali avere un ruolo di primo piano per far assumere ai Governi nazionali degli impegni esterni quando essi devono intraprendere dei cambiamenti interni, e potenzialmente impopolari. Questi impegni esterni rendono più difficile per i Governi fare marcia indietro sulle riforme interne di fronte all’opposizione popolare. Le regole e la democrazia quindi non si mescolano bene: le regole sono utilizzate per sostenere l’insistenza sull’assenza di alternative (TINA) e non c’è alcun senso nel discutere anche le alternative perché ci sono delle regole da seguire.
Tumlir spiegò anche come le regole internazionali possono aiutare a salvare i politici nazionali dalle pressioni interne: ‘L’ordine economico internazionale [potrebbe agire] come un ulteriore strumento di trinceramento per proteggere la sovranità nazionale contro l’erosione interna.’ In questa formulazione orwelliana ‘proteggere la sovranità nazionale’ implica il suo contrario: significa invece proteggere l’establishment politico nazionale dai desideri del popolo di una data nazione.
Con un ordine istituzionalizzato più ampio, i politici nazionali sono in grado di convalidare le loro azioni – o il loro contrario – con l’obbligo di perseguire gli interessi dell’economia mondiale, o della ‘globalizzazione’, o dell’UE o delle regole del WTO. In altre parole, è conveniente che i leader nazionali abbiano un padrone sovranazionale a cui dare la colpa presso il proprio elettorato, in modo tale da poter alzare le spalle e dire: ‘dovevamo farlo, non c’era un’alternativa’.
Ad esempio, durante la crisi del debito dell’eurozona nel 2015, la maggioranza degli elettori greci ha respinto i termini dell’accordo di salvataggio stipulato a Bruxelles e a Berlino. In risposta, il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble ha riassunto sinteticamente la prospettiva globalista: ‘Le elezioni non cambiano nulla. Ci sono delle regole.’
Non è un caso che il rifiuto di Hayek dello ‘statalismo minimo’ in Diritto, Legislazione e Libertà sia accompagnato da una pesante critica alla democrazia. In particolare, Hayek criticava quella che lui chiamava la democrazia rappresentativa ‘illimitata o sfrenata’, la democrazia che aveva portato cioè a delle politiche economiche, secondo lui, stupide e dannose. Questa conclusione si basava sul fatto che Hayek non ammetteva l’ipotesi che ci fosse la possibilità di controllare l’economia, cosa che lo portava a confutare un’altra affermazione, ovvero che le persone possano essere padrone del proprio destino.
Hayek diede un perfetto esempio rappresentante del globalismo neoliberale quando opinò che limitare le libertà politiche, inclusi i diritti democratici, era talvolta necessario per preservare la libertà economica. E se Hayek pensava che ‘la democrazia ha bisogno dell’arma rappresentata da Governi forti’, temeva anche che le democrazie potessero conferire ai Governi ‘troppo potere’. Per questo spiegava di essere sempre stato molto attento a distinguere tra ‘le democrazie limitate’ e le ‘democrazie illimitate’. E la sua preferenza era per la varietà limitata.
Questo è il motivo per cui nel corso della sua vita, e specialmente dopo il 1945, Hayek e altri globalisti neoliberali ponevano una crescente fede nella legge, sia nazionale che sovranazionale. Hayek distingueva il ruolo positivo che la ‘legge’ può svolgere dai pericoli di uno ‘Stato legislativo’. Quindi vedeva con sfavore l’espansione della democrazia in tutto il mondo perché essa consentiva potenzialmente degli interventi legislativi sull’ economia, cosa che Hayek vedeva come esiziale per la separazione dell’economia dalla politica.
Ora è ampiamente accettato, specialmente tra gli europei, che la legge sovranazionale possa prevalere sul diritto nazionale all’interno dei tribunali nazionali. Le operazioni di alto profilo della Corte di giustizia europea dell’UE lo dimostrano. Ma questa tendenza antidemocratica non significa che i globalisti siano sempre ostili ai tribunali nazionali. Al contrario, molti riconoscono che i tribunali nazionali hanno il vantaggio rispetto a quelli internazionali di una maggiore parvenza di legittimità. In pratica, si ritiene che anche i giudici nazionali siano più affidabili dei Governi democratici per l’applicazione del diritto internazionale. Ciò indica che per i globalisti lo sfavorire la politica favorendo invece la legge assume un’importanza ancora maggiore della stessa promozione del sovranazionale.
Questo tipo di pensiero conferma che lo scetticismo globalista nei confronti dello Stato nazionale è in gran parte guidato dai timori del suo contenuto democratico, piuttosto che dei suoi aspetti legati alle politiche di massa. I globalisti temono lo Stato nazione solo nella misura in cui esso sia un meccanismo a favore del potere democratico. Ciò vale a dire che la negazione globalista dell’efficacia delle politiche statali nazionali è in gran parte una negazione dell’accettazione della politica democratica.
L’attacco globalista e neoliberale al nazionalismo e alla sovranità è in realtà un attacco al potere ‘illimitato’ del popolo, di cui Hayek era così critico. L’insieme delle preoccupazioni della nostra élite globalista e spesso neoliberale è una combinazione, lo abbiamo visto, tra la paura di un ritorno di un conflitto internazionale, il timore per una nuova crisi economica e una spiccata insofferenza nei confronti della democrazia popolare. Inutile dire che è proprio quest’ultima ciò che preoccupa di più tale élite a livello quotidiano, élite che si oppone strenuamente alla sola idea di persone comuni che possano intromettersi nelle loro pratiche e procedure di stampo tecnocratico.
In conclusione
Motivati da queste tre preoccupazioni – conflitto internazionale, collasso capitalista e sfiducia nei confronti della gente – i globalisti pragmaticamente, ma spesso con fervore, sono più che favorevoli all’uso delle istituzioni statali per mantenere e stabilizzare le relazioni economiche capitaliste. Tuttavia, le regole ‘liberali’ del regime finanziario internazionale furono costruite più per aumentare la capacità delle organizzazioni internazionali che non per limitare gli interventi dei singoli Governi, e quindi i globalisti sono a loro agio nel gestire non solo le istituzioni internazionali ma anche quelle nazionali, purché queste possano costituire una protezione dalla necessità di ottenere, e democraticamente, un mandato popolare.
I globalisti e i neoliberali pretenderanno ancora e ripetutamente di aver assoluta fede nel ‘mercato libero’ e nel ‘libero scambio’. Ma la libertà che li motiva davvero non è la libertà dall’intervento statale, è la libertà dall’intrusione della politica. Alla fine ciò si riduce alla libertà di non dover rispondere al popolo. Il triplice obiettivo di proteggere il capitalismo dalla guerra, dalla rottura e dall’intrusione popolare, e in definitiva dall’insurrezione popolare, è ciò che richiede il desiderio globalista di frenare gli effetti potenzialmente dirompenti sui processi del mercato della democrazia nazionale.
La sintesi di queste tre paure rappresenta il nucleo anti-politico del globalismo neoliberale. Slobodian descrive appropriatamente il neoliberalismo come non tanto una teoria sulla natura del mercato o dell’economia, quanto piuttosto una teoria del rapposto tra la legge e lo Stato. Il globalismo informato neoliberale è molto più un progetto politico che economico. Il contributo più importante di Hayek al globalismo non è il suo attaccamento romantico al libero mercato, ma le sue argomentazioni su quello che ha definito il ‘detronizzare la politica’. L’ironia è che l’obiettivo neoliberale di ‘depoliticizzare l’economia’ è di per sé un’agenda politica.
In ultima analisi, la sua vera espressione consiste nel tentativo di proteggere il capitalismo dalle influenze democratiche. Già nel 1932, Eucken, il padre dell’Ordoliberalismus tedesco, aveva apertamente denunciato quella che chiamava la ‘democratizzazione del mondo’, riferendosi alle masse che entrano in politica attraverso il suffragio universale (sebbene, allora, per lo più maschile). Quasi 50 anni più tardi, dopo aver visitato il Cile di Pinochet, Hayek è stato altrettanto esplicito riguardo al suo disprezzo per la democrazia. In un’intervista al quotidiano cileno El Mercurio ha affermato di essere ‘totalmente contro le dittature’ come istituzioni a lungo termine, ‘ma … a volte è necessario che un Paese abbia, per un certo periodo, qualche forma … di potere dittatoriale. Personalmente’, ha continuato, ‘preferisco un dittatore liberale al Governo democratico privo di liberalismo’ (12). Questo riassume perfettamente la filosofia globalista, secondo la quale non si può avere libertà politica senza libertà economica, ma la libertà economica prospera senza la libertà politica.
Un quarto di secolo più tardi, nel 2015, Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione europea, ha espresso lo stesso messaggio autoritario: ‘Non può esserci alcuna scelta democratica contro i trattati europei’. (13) Questo non è stato un errore. Alcuni anni prima, quando guidava l’Eurogruppo dei ministri delle finanze, Juncker spiegava: ‘La politica monetaria è un problema serio. Dovremmo discuterne in segreto.’ E aggiunse: ‘Sono pronto a essere insultato in quanto insufficientemente democratico, ma voglio essere serio… sono per i dibattiti segreti e strettamente confidenziali’. E da Hayek che sosteneva la dittatura cilena del generale Pinochet negli anni ‘80 agli impulsi antidemocratici della burocrazia dell’UE nel 21° secolo il passo non è poi così lungo.
L’ultimo libro di Phil Mullan, Creative Destruction: How to Start an Economic Renaissance, è pubblicato da Policy Press.
(1) ‘Authoritarian Liberalism: From Schmitt via Ordoliberalism to the Euro’, di Werner Bonefeld, Critical Sociology, Vol 43, issue 4-5, July 2017
(2), ‘Strong and Weak Elements in the Concept of European Integration’, di Jan Tumlir, incluso in Reflections on a Troubled World Economy: Essays in Honour of Herbert Giersch, edito da Fritz Machlup, Gerhard Fels e Hubertus Muller-Groeling, St Martin’s Press, 1983, p36
(3) come mostra il libro di Ian Kershaw, Hitler, 1889-1936: Hubris, ci sono state in effetti delle specifiche circostanze antidemocratiche che portarono alle elezioni del marzo 1933.
(4) The Emergence of Globalism: Visions of World Order in Britain and the United States, 1939-1950, di Or Rosenboim, Princeton University Press, 2017
(5) ‘The joint-decision trap: Lessons from German federalism and European integration’, di Fritz Scharpf, Public Administration, Vol 66, no 3, 1988, p 240
(6) Preambolo alla Carta dell’ONU
(7) ‘International Regimes, Transactions, and Change: Embedded Liberalism in the Postwar Economic Order’, di John Ruggie, International Organization, Vol 36, no 2, Spring, 1982, p393
(8) The Jungle Grows Back: America and Our Imperiled World, di Robert Kagan, Alfred A Knopf, 2018, pp144-5
(9) ‘Who is not a neoliberal today?’, di Wendy Brown, Tocqueville 21 interview, 18 January 2018
(10) ‘Beyond Militant Democracy’, di J-W Muller, New Left Review, 73, 2012
(11) ‘International Economic Order and Democratic Constitutionalism’, di Jan Tumlir, Ordo, 34, 1983, pp72, 77
(12) ‘Friedrich Hayek: An interview’, El Mercurio, 12 April 1981
(13) Tradotto da ‘Pas question de supprimer la dette Grecque’, Le Figaro, 28 January 2015
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