Trump e la critica del libero scambio
di JACQUES SAPIR; 16 febbraio 2017
L’articolo originale al seguente indirizzo: http://russeurope.hypotheses.org/5711
Traduzione di PAOLO DI REMIGIO (FSI Teramo)
Il presidente Donald Trump non ha aspettato il suo insediamento, il 20 gennaio 2017, per cominciare a mettere in atto parte del suo programma economico, essenzialmente tramite pressioni protezioniste e la rimessa in discussione degli accordi di libero scambio. Che sia il Trattato Trans-Pacifico o il NAFTA (firmato qualche decennio fa con il Messico e il Canada) o misure che rimettono in discussione l’autorità del WTO, si assiste comunque a un’offensiva generale contro il principio stesso del libero scambio. Questa offensiva suscita molte questioni quanto alla sua pertinenza e alla politica commerciale che il presidente Trump vuole mettere in atto per gli Stati Uniti. Ma permette anche di porre tutta una serie di questioni sulla razionalità del libero scambio che ai nostri giorni è diventata non più una teoria, ma un’ideologia, non una semplice ideologia, ma una religione.
La mondializzazione non è felice
È significativo che oggi il libero scambio sia rimesso in discussione dagli Stati Uniti, da un presidente americano e, di più, da un personaggio conosciuto per la sua vicinanza al mondo degli affari. Di solito le critiche contro il libero scambio provenivano piuttosto dai paesi del «Sud» e da governi considerati di sinistra o almeno populisti. Gli Stati Uniti sono stati, quasi da quarant’anni e anche prima (se si ricorda la politica detta di «porta aperta» in Asia), la forza motrice dei trattati di libero scambio. La difesa della «libertà di commercio» poteva essere considerata come una delle note essenziali della politica estera di questo paese. Certo, queste proposizioni avevano incontrato, bisogna dirlo, un’ottima accoglienza nel quadro dell’Unione europea. Questa organizzazione condivideva con gli Stati Uniti la fede che il libero scambio fosse la strada dell’avvenire. La storia d’amore che i dirigenti dell’Unione europea hanno sviluppato con il libero scambio pone problemi, perché essa è in realtà contraddittoria con le ragioni iniziali della costruzione europea. Questa storia d’amore è diventata oggi un punto del dogma europeista e l’Unione europea è essa stessa diventata oggi il punto di fuga di tutti gli incensatori della religione del libero scambio. D’altronde questa posizione si radica in una concezione molto ideologica delle virtù del libero scambio, ritenuto apportatore di benessere ai paesi poveri, di pace nel mondo o almeno di fine dei conflitti. Si sa bene che non è stato nulla di tutto questo.
Gli ultimi vent’anni non hanno portato acqua al mulino dei partigiani del libero scambio. Di fatto esso non ha fatto sparire i conflitti. I progressi del libero scambio si sono arrestati con la crisi del 2008-2010. Il Doha Round si è rivelato un fallimento. Il numero di misure protezioniste prese nei differenti paesi dal 2010 non cessa di aumentare. Così la svolta presa dagli Stati Uniti sotto la direzione di Donald Trump, per quanto spettacolare, stupisce meno di quanto si potrebbe pensare.
No, la globalizzazione o la mondializzazione non è stata «felice», non lo è mai stata. Conviene dirlo e ripeterlo. Non è stata «felice» non per imperfezioni che si potrebbero correggere, ma in ragione della sua stessa forma di costituzione. Il mito del «commercio dolce» che si sostituisce ai conflitti bellici è stato troppo reclamizzato per non lasciare qualche traccia … Ma in verità non è stato che un mito. La nave da guerra ha sempre preceduto la nave mercantile. Le potenze dominanti hanno sempre usato la loro forza per aprirsi mercati e modificare i termini dello scambio secondo le proprie convenienze. La mondializzazione che abbiamo conosciuto da quasi quarant’anni è risultata dalla combinazione della globalizzazione finanziaria, che si è posta in essere con lo smantellamento del sistema ereditato dagli accordi di Bretton Woods nel 1973, e della globalizzazione commerciale, che si è incarnata nel libero scambio. Ad ogni tappa queste hanno imposto i loro carichi di violenze e di guerre. Oggi ne vediamo il risultato: un movimento generale verso la regressione economica e sociale, che colpisce dapprima i paesi chiamati «ricchi» ma anche quelli che si indicano come paesi «emergenti». Essa ha condotto a un supersfruttamento delle risorse naturali precipitando più di un miliardo e mezzo di esseri umani nelle crisi ecologiche che peggiorano di giorno in giorno. In un gran numero di paesi ha provocato la distruzione dei legami sociali e ha posto masse innumerevoli davanti allo spettro della guerra di tutti contro tutti, allo choc di un individualismo forsennato che fa presagire altre regressioni.
Il grande capovolgimento
Su questo tema oggi si assiste dunque a un grande capovolgimento. Ed è particolarmente interessante che questo capovolgimento abbia come origine gli Stati Uniti. Infatti, alla base stessa del capovolgimento c’è il declino dei redditi delle classi medio-inferiori e della classe lavoratrice. Questa caduta è in larga misura imputabile alla mondializzazione. Lo scarto tra l’1% superiore e il 90% inferiore si è aperto soprattutto dagli anni ’80. La caduta è stata confermata da un altro studio pubblicato nel 2015 . Questo scarto si evidenzia anche nello sganciamento tra il ritmo degli incrementi di produttività del lavoro e quello dei salari orari. Se le due curve apparivano quasi parallele dal 1946 al 1973, il che implica che i guadagni di produttività avevano ugualmente giovato ai salariati e ai capitalisti, si constata che dopo il 1973 non è più così. Dopo questa data i salari orari sono aumentanti molto più lentamente della produttività del lavoro, il che implica che i guadagni di produttività hanno ormai giovato essenzialmente ai profitti delle imprese e degli azionisti. Questa situazione si è aggravata negli anni ’90, evidentemente sotto l’effetto della mondializzazione e dell’apertura delle frontiere. Negli Stati Uniti l’evoluzione è stata psicologicamente fondamentale, perché ha significato la «fine» del sogno americano per una grande maggioranza della popolazione. Lo indica la differenza molto netta tra i ritmi di evoluzione del reddito medio, che ha continuato a progredire, e il reddito mediano. Ma gli Stati Uniti non sono stati il solo paese in cui si è manifestata questa situazione. Occorre notare che essa si presenta anche in Gran Bretagna, il che non è senza conseguenze politiche. Si è assistito a una evoluzione simile anche nel caso della Francia, in particolare a partire dalla «svolta del rigore» presa da François Mitterrand nel 1983. Quanto agli incrementi di produttività, il «piano Delors» ha avuto per la Francia gli stessi effetti di quelli che si constatano negli Stati Uniti. E non è un caso che dopo questo episodio Jacques Delors sia andato a infierire a Bruxelles.
È dunque chiaro che il libero scambio non ha avuto sulle economie e sui lavoratori che vivono in queste economie le conseguenze benefiche che la teoria economica «mainstream» promette. Tuttavia gli economisti della corrente dominante, quelli definiti «ortodossi», non hanno cessato di pretendere che il libero scambio sia il futuro, necessariamente radioso, dell’umanità.
Il libero scambio è il futuro dell’umanità?
È vero che le diverse sovvenzioni e le pastoie alla concorrenza, che sono l’essenza stessa delle politiche protezioniste, hanno oggi una pessima fama. A destra come nella sinistra liberale, esse evocano il divieto assoluto, il tabù. L’ex ministro dell’economia e oggi candidato all’elezione presidenziale francese, Emmanuel Macron, non parla d’altro che di «liberare» l’economia francese, ciò che equivale a dire che abbiamo bisogno di più concorrenza. Bisogna segnalare che Macron si è distinto per il suo sostegno al trattato molto contestato tra l’Unione europea e il Canada, trattato che si chiama CETA, trattato che è stato appena approvato dal «parlamento» europeo. Uno stesso discorso, com’è facile immaginare, è tenuto ogni giorno dalla Commissione europea, che ha reagito con veemenza alle dichiarazioni di Donald Trump, non esitando a prendere l’atteggiamento delle vergini oltraggiate. Vi è qui evidentemente un punto di consenso. Ma questo punto è costruito su un’evidenza illusoria e autoproclamata.
I discorsi prescrittivi che cercano di estendere il libero scambio suppongono che la concorrenza sia sempre e ovunque un fatto positivo. Ora, questi discorsi riposano su basi normative estremamente discutibili. Se ne diede la dimostrazione dagli anni ’30 del XX secolo. Questa dimostrazione trova la sua origine nelle riflessioni ispirate a un grande economista dalle fluttuazioni cicliche dei mercati del mais e del maiale, ciò che si chiama il «ciclo della carne di maiale» o teorema della tela di ragno, o «cobweb». Come dimostra una lettura attenta dell’articolo fondamentale scritto da Mordecai Ezekiel nel 1938, si è in presenza di un problema che va molto al di là dei fenomeni che hanno permesso la sua identificazione iniziale, la fluttuazione dei prezzi agricoli. L’analisi delle condizioni che danno origine al meccanismo del cobweb mostra una faglia maggiore nella teoria dell’equilibrio concorrenziale. Questa analisi contiene una critica radicale del ruolo normativo accordato alla concorrenza detta «pura e perfetta». Ella finisce col restituire una legittimità alle misure che restringono l’esercizio della concorrenza, che si tratti di sovvenzioni o dei limiti all’entrata in certi mercati tramite la presenza di quote o di diritti di dogana. Non è senza ragione che i compilatori di un’opera estremamente importante sulla teoria dei cicli economici abbiano introdotto l’articolo di Ezekiel nella raccolta da essi compilata.
Il termine stesso cobweb fu proposto da Nicholas Kaldor. Bisogna sottolineare che Kaldor ha mostrato che conviene estrarre la dinamica del cobweb dal suo ambiente soltanto agricolo, perché si è in presenza di un problema generale che infetta la teoria dell’equilibrio concorrenziale non appena si sia in presenza di una situazione in cui « … gli aggiustamenti sono completamente discontinui». Una riflessione analoga era stata fatta da Wassili Leontief nello stesso periodo. Leontief dimostrò l’impossibilità di determinare un meccanismo spontaneo di equilibrio dei prezzi e della produzione tramite il gioco della concorrenza «pura» non appena si fosse in presenza di curve di offerta e di domanda che non corrispondessero precisamente alle specificazioni iniziali del modello di Léon Walras. L’equilibrio appare allora come un caso particolare e non un caso generale, ciò che è stato confermato da lavori più recenti.
Di più, se ci si dà l’obiettivo di evitare o di limitare le fluttuazioni perché possono avere effetti negativi a breve e a lungo termine sia sui produttori che sugli acquirenti (in particolare per l’investimento ), se ne può trarre la conclusione che le misure che sospendono la concorrenza, come le sovvenzioni, le quote o i diritti di dogana diventino allora utili e legittime. Gilbert Abraham-Frois e Edmond Berrebi hanno mostrato che l’introduzione di clausole realiste nel ragionamento (per esempio accettare che l’agente economico abbia la scelta non fra due ma fra tre opzioni …) conduce a generalizzare situazioni di forte instabilità finché è mantenuta la concorrenza. Tuttavia, proprio mentre dei lavori teorici prodotti dall’inizio degli anni ’70 confermano ed estendono le conclusioni di Ezekiel quanto a una critica radicale della portata normativa del modello di equilibrio concorrenziale, si tende a dimenticare la lezione generale del suo lavoro. Ora questa lezione rimette realmente in dubbio il principio della concorrenza, ma anche, indirettamente, il principio del libero scambio, che è un’estensione del principio della concorrenza.
La diplomazia twitter di Donald Trump
Le dichiarazioni recenti di Donald Trump, come le sue pressioni sui grandi gruppi industriali con i messaggi twitter (su Toyota, Ford e General Motors), se possono sembrare un po’ esotiche, hanno però rilanciato la questione delle forme moderne di protezionismo. Di fatti questo dibattito ha già avuto luogo. Negli anni ’30, in seguito alla grande crisi economica, un certo numero di economisti ha rovesciato le posizioni tradizionali del «libero scambio» in una visione più protezionista. John Maynard Keynes ne fu uno, e certo colui che esercitò l’influenza più rilevante. Il testo di J. M. Keynes sulla necessità di una autosufficienza nazionale fu pubblicato nel giugno 1933 nella Yale Review. Oggi, come nel 1933, le ragioni per mettere in dubbio il libero scambio si accumulano.
Ricordiamo che gli esperti della Banca mondiale nel primo decennio del 2000 hanno rivisto al ribasso le loro stime dei «vantaggi» di una liberalizzazione del commercio internazionale, benché questi vantaggi siano calcolati senza riferimento a possibili costi. Di più, qualche anno fa uno studio della CNUCED ha anche mostrato che il «Doha Round» del WTO potrebbe costare ai paesi in via di sviluppo fino a 60 miliardi di dollari e non apporterebbe che 16 miliardi di guadagni. Anziché favorire lo sviluppo, il WTO potrebbe aver contribuito alla povertà mondiale. Qui si misura tutta la falsità delle dichiarazioni di chi pretende che il libero scambio riduca la povertà. Perfino gli investimenti diretti esteri, per lungo tempo considerati come la soluzione miracolosa dello sviluppo, sono oggi messi in discussione. La concorrenza nella quale si mettono numerosi paesi per tentare di attirarli ha chiaramente degli effetti negativi nell’ambito sociale e della protezione dell’ambiente. Molto chiaramente, questo non è preso in considerazione nella logica dell’«America prima» di Donald Trump. Ma le conseguenze globali della sua azione per la protezione dell’ambiente potrebbero rivelarsi in realtà molto positive, ciò che sarebbe, occorre sottolinearlo, un paradosso divertente.
Come il libero scambio si è imposto agli spiriti
La forte aperture del commercio internazionale dagli anni ’70 e ’80 ha segnato gli spiriti. Alcuni lavori, tra i quali si devono includere quelli di Dollar nel 1992, di Ben-David nel 1993, di Sachs e Warner nel 1995 e di Edwards nel 1998, hanno cercato di stabilire un legame tra il commercio internazionale e la crescita. Questi anni sono stati segnati da cambiamenti molto importanti. Si verificarono due fenomeni maggiori: la fine dell’Europa dell’Est, nel senso del Consiglio per il mutuo aiuto economico (COMECON), e la fine dell’URSS. In entrambi i casi si è potuto constatare che i flussi di commercio, quali sono contabilizzati, hanno conosciuto una forte crescita. Il semplice passaggio da quello che era un «commercio interno» a un «commercio internazionale» si è tradotto nel forte aumento di quest’ultimo. Parte della crescita del commercio mondiale può così essere attribuita all’effetto «rivelazione» di un commercio che si produceva all’interno di altri quadri statistici. Questo problema è menzionato molto raramente dagli specialisti che intonano il credo della globalizzazione.
Una seconda causa è più sottile. L’aumento dei flussi del commercio internazionale è stato legato all’evoluzione di queste economie durante i primi anni della loro transizione. Così, nel caso dell’URSS, una larga parte della produzione di alluminio e di acciaio non ha più trovato impiego all’interno dell’economia, a causa della diminuzione delle attività manifatturiere. L’esportazione di questa eccedenza, legale o illegale, è stata immediata. Allo stesso modo si è assistito a un fenomeno di sostituzione dei prodotti importati ai prodotti locali, favorito dalla forte evoluzione del tasso di cambio. A questo riguardo, le cifre estremamente elevate del commercio internazionale negli anni 1994-1997 sembrano essere state il prodotto di una illusione statistica. Sono queste cifre, registrate su quattro anni, che hanno fortemente condizionato la nostra visione della crescita come se fosse legata al commercio internazionale.
La rimessa in discussione dell’ortodossia libero scambista
In generale, i test effettuati danno risultati per lo meno molto ambigui. Se ne può dedurre che, per certi paesi, l’apertura abbia avuto risultati positivi, ma non per altri. Il successo economico dipende molto più dalla qualità delle misure macroeconomiche menzionate che dall’apertura. Di fatto i paesi che hanno associato politiche protezioniste a buone politiche macroeconomiche hanno conosciuto tassi di crescita che sono largamente superiori a quelli dei paesi più aperti, e ciò invalida il primato dell’apertura. Questo ci riporta alla problematica dello sviluppo, che si rivela essere ben più complessa di quanto i partigiani del libero scambio generalizzato pretendono. I lavori di Alice Amsden, Robert Wade o quelli raggruppati da Helleiner mostrano che nel caso di paesi in via di sviluppo la scelta del protezionismo, se è associata a reali politiche nazionali di sviluppo e di industrializzazione, determina tassi di crescita molto al di sopra di quelli di paesi che non fanno la stessa scelta. Il fatto che i paesi asiatici a più forte crescita hanno sistematicamente violato le regole della globalizzazione stabilite e codificate dalla Banca Mondiale e dal FMI è sottolineato da Dani Rodrik. Tutto ciò rinvia alla questione delle politiche nazionali e alla problematica dello Stato come protagonista dello sviluppo, che è riemersa nel dibattito da qualche anno. Questa problematica è realmente il cuore del risveglio industriale dell’Asia. Infatti sono queste politiche nazionali a costituire le vere variabili critiche per la crescita e lo sviluppo, e non l’esistenza o meno di misure di liberalizzazione del commercio internazionale. Ma ammetterlo significa dover riconsiderare il ruolo dello Stato nelle politiche economiche e dunque il ruolo del nazionalismo come ideologia associata allo sviluppo. Qui si toccano potenti tabù del pensiero ortodosso, in economia come in politica. Per provocare lo stallo sulla questione nazionale, i partigiani della «sovra-nazionalità», in qualunque modo, sono dunque obbligati a pretendere che la concorrenza sia un principio vantaggioso « sempre e ovunque » e sono costretti a lanciarsi in un’apologia sfrenata del libero scambio. Di fatto la loro teoria economica si deduce facilmente dai loro presupposti ideologici. Ne segue ineluttabilmente la strumentalizzazione del dibattito teorico.
Un ritorno alla ragione
Negli ultimi trent’anni lo sviluppo economico sarebbe stato veicolato soprattutto dal commercio internazionale: questa è la conclusione diffusa da una parte degli economisti ma anche, ben inteso, dai giornalisti a pagamento. E tuttavia, esaminata da vicino, questa conclusione svapora. La vulgata del libero scambio passa rapidamente sopra elementi importanti per la sua dimostrazione, che sono stati evidenziati dalla crisi attuale. Si è visto, nel 2008 e nel 2009, il commercio internazionale diminuire in proporzione del calo della produzione nei grandi paesi industrializzati. Il commercio per se stesso non crea dunque valore, vecchio errore dei mercantilisti che risorge sotto la forma della fede in una crescita suscitata unicamente dal commercio. Al contrario, è la crescita nei principali paesi che suscita il commercio. Conviene dunque chiedersi se non siamo di fronte a un errore, almeno a un’illusione, dovuta alle statistiche. In effetti il fenomeno della crescita, che si tratti di quella del prodotto interno loro (PIL) o di quella del commercio internazionale, è stato sicuramente sovrastimato, e ciò per diverse ragioni. Ora, la possibilità di un errore di misura può rimettere in discussione l’idea convenzionale di un legame diretto e meccanico tra lo sviluppo del commercio internazionale e la crescita mondiale. Questa possibilità costringe a ripensare i legami di causalità che vanno dalla crescita al commercio. Detto altrimenti, dove si produce valore? La confusione, ahimè tradizionale, tra il valore e i prezzi (questi ultimi misurano soltanto i rapporti di forza nello scambio) viene ad aggravare e a rafforzare l’errore iniziale. Max Weber ne era ben cosciente, quando a proposito dei «prezzi di mercato» scriveva: «I prezzi monetari risultano da compromessi e conflitti di interesse; a questo riguardo essi derivano dalla distribuzione del potere. La moneta non è un semplice «diritto su beni non specificati» che potrebbe essere utilizzato a piacere senza conseguenza fondamentale sulle caratteristiche del sistema dei prezzi inteso come una lotta tra gli uomini. La moneta è innanzitutto una arma in questa lotta; è uno strumento di calcolo solo nella misura in cui si considerano le opportunità di successo in questa lotta» .
Questa confusione è alla base di quella, non meno importante, che circonda la teoria del mercato. A partire da qui va rimessa discussione tutta l’ideologia che ha circondato la globalizzazione commerciale. E i partigiani del libero scambio si rivelano allora per quello che sono: epigoni di un pensiero economico pre moderno, del mercantilismo.
La lacerazione di questo velo permette allora di porre altre questioni. Qual è la responsabilità della globalizzazione nel degrado dell’ambiente naturale, di cui si constata l’accelerazione dalla fine degli anni ’80? Il degrado non è connesso soltanto alla moltiplicazione dei trasporti sulle lunghe distanze, all’esporre alla concorrenza i lavoratori dell’Europa occidentale e i lavoratori asiatici al di là dei sistemi sociali molto differenti che regolano il loro lavoro. Eppure oggi si sa che questo ha avuto effetti profondamente destabilizzanti sulla ripartizione interna dei redditi. Le imprese si sono affrancate dal vincolo che vuole che, nel quadro di una economia relativamente chiusa, i salari (che per loro sono dei costi) siano determinanti per i loro mercati. Questo affrancamento proviene dalla sottomissione delle logiche economiche locali a una logica superiore, che può tradursi in danni ecologici importanti.
Economia e politica
Di fatto la globalizzazione è sinonimo di crescita solo quando può appoggiarsi su un progetto di sviluppo nazionale, spesso connesso con un’ideologia nazionalista. La globalizzazione commerciale dà risultati solo nella misura in cui non si gioca il suo gioco ma altri accettano di giocarlo. Il caso della Cina è qui esemplare, perché attraverso la combinazione di una politica nazionale estremamente forte e dell’apertura si è compiuto lo sviluppo importante degli ultimi venticinque anni. Ma anche in questo caso l’aumento delle disuguaglianze sociali e delle distruzioni ecologiche rende problematico il perseguimento di questo modello. Ciò è particolarmente vero in Estremo Oriente, ma lo si può constatare in Russia dal 1999.
Così, anziché condurre al superamento della nazione, la globalizzazione si rivela essere il nuovo quadro di espressione di politiche nazionali che generano sia effetti di dominio e di distruzione di quadri nazionali a vantaggio di nazioni più forti, sia fenomeni di reazione e di sviluppo nazionale.
Fondamentalmente, l’idea che abbiamo a partire dalla fine del «secolo breve», di una tendenza all’integrazione tramite il commercio, si rivela così un mito. Lo hanno mostrato Paul Bairoch e Richard Kozul-Wright in uno studio sistematico di questi flussi che è stato realizzato nel 1996 per la Conferenza delle Nazioni unite sul commercio e lo sviluppo (CNUCED). Non c’è dunque mai stata un’«età dell’oro» della globalizzazione che sia terminata con la prima guerra mondiale e che sia stata seguita da un lungo periodo di declino, prima di conoscere un rinnovamento dagli anni ’70. È tutta un’immagine di un movimento che si vorrebbe armonioso verso il «villaggio globale» che si trova messa profondamente in discussione. Questo dibattito è continuato nel periodo recente e i suoi risultati sono gli stessi. Conserviamo tuttavia l’immagine che ci è offerta da Rodrik e Rodriguez. La spinta verso un’apertura maggiore non è stata favorevole alla maggioranza.
Requiem per il libero scambio
Economicamente, il libero scambio non è la migliore soluzione e comporta considerevoli rischi di crisi e di crescita delle disuguaglianza. Mette in competizione territori differenti non sulla base delle attività umane che vi si svolgono ma su quella di scelte sociali e fiscali esse stesse molto discutibili. La liberalizzazione del commercio non ha giovato ai paesi più poveri, come mostrano gli studi più recenti. Un confronto dei vantaggi e dei costi, in particolare in ciò che concerne il crollo delle capacità di investimento pubblico nella sanità e nell’educazione seguito al crollo delle risorse fiscali, suggerisce che il bilancio sia negativo.
Politicamente, il libero scambio è dannoso. È eversivo della democrazia e della libertà di scegliere le istituzioni sociali ed economiche. Favorendo l’indebolimento delle strutture statali incoraggia l’ascesa del comunitarismo e dei fanatismi transfrontalieri come il jihadismo. Anziché essere una promessa di pace, l’internazionalismo economico ci conduce in realtà alla guerra.
Moralmente, il libero scambio è indifendibile. Non ha altre sponde che quella di ridurre tutta la vita sociale a merce. Stabilisce come valore morale l’oscenità sociale della nuova «classe agiata» mondializzata. L’avvenire è dunque per il protezionismo. Quest’ultimo si imporrà dapprima come mezzo per evitare il dumping sociale ed ecologico di certi paesi. Prenderà poi la forma di una politica industriale coerente in cui si cercherà di stimolare lo sviluppo di filiere con un ruolo strategico in un progetto di sviluppo. Ciò porterà a ridefinire una politica economica globale in grado di includere una regolamentazione dei flussi di capitali, al fine di ritrovare gli strumenti della sovranità economica, politica e sociale. Restano da trovare le forme della politica del futuro. Sul suo senso generale non ci sono dubbi.
È un punto interessante, ma assai paradossale, che il libero scambio sia rimesso in discussione dal presidente considerate come il più «pro-business», ma anche il più indifferente alle preoccupazioni ecologiche, che ci sia stato negli Stati Uniti da molti anni. Al di là dello stile politico, discutibile, di Donald Trump, riconosciamo che il suo progetto si inscrive nel quadro del grande capovolgimento che avevo pronosticato da qualche anno. Al momento attuale non sappiamo ancora se Donald Trump riuscirà ad articolare una vera politica di reindustrializzazione del suo paese, politica che gioverebbe alla maggioranza. Ma la sua politica si rende conto, a differenza di quello che si può vedere nell’Unione europea, che oggi l’era del libero scambio è finita.
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