Emigrazione e partecipazione: un lavoratore emigrato rinuncia ad essere italiano e umbro?
di MARTINA CARLETTI (FSI Perugia)
Colgo l’occasione per rispondere ad una critica che mi è stata rivolta pubblicamente, le cui implicazioni sembrano sensate ma che restituiscono la cifra di una certa disabitudine alla partecipazione alla politica.
Mi scrive Luca: “Una persona che non vive il territorio non dovrebbe permettersi di partecipare per le elezioni di quel territorio, se non altro perché lo ha abbandonato. Purtroppo ci stanno abituando a questo ma sono storie di nani e ballerine. Dovremmo pretendere che i politici di un luogo vivano nel luogo per il quale si candidano. Altrimenti è una farsa.”
Rispondo,
“Gentile Luca,
aderisco dal 2014 all’obiettivo per me inderogabile di compiere i miei doveri civili e politici, non mi sento affatto un fenomeno da baraccone e vivo degnamente del mio lavoro di operaia per qualche mese in Svizzera, che mi permette di potermi dedicare alla costruzione del partito per mesi interi al mio ritorno, cosa che non mi sarei mai potuta permettere lavorando 14 ore al giorno (come accadeva prima) qui.
Sono stata scelta dal partito prima e dal gruppo locale poi, e se fosse andata diversamente ti assicuro che avrei accettato le loro decisioni senza fiatare, come ho sempre fatto. Evidentemente persone diverse da te, che mi conoscono e sanno quello che sono riuscita a fare finora, incessantemente, pur lavorando all’estero, hanno reputato fossi la persona più adatta a rappresentarli: si chiama democrazia, vivaddio.
Segnalo, inoltre, che se negli anni ’30 avessero tutti ragionato in questo modo, impedendo la militanza politica di persone di buona volontà costrette ad emigrare per lavoro, non sarebbero mai esistiti né un Enrico Mattei, né un Giuseppe Di Vittorio.
Cordialmente.”
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