Come sempre con grande interesse e piacere, vi propongo questo articolo dalla Spagna di Steven Forti. Buona lettura! A.G.
Questa domenica gli spagnoli tornano a votare: sarà la quarta volta in soli quattro anni. Non era mai successo dalla fine della dittatura franchista. La stanchezza di buona parte dell’elettorato è evidente, così come la sfiducia nei confronti dei partiti politici e delle istituzioni.
Secondo il Centro de Investigaciones Sociológicas, la politica e i partiti si sono convertiti infatti nel secondo problema principale per gli spagnoli dopo la disoccupazione (ancora al 14%, la più alta nell’UE dopo la Grecia). Un dato molto preoccupante che potrebbe influire sulle elezioni di domenica che, secondo tutti i sondaggisti, sono le più incerte degli ultimi anni.
L’incertezza si deve soprattutto a due elementi: da una parte, la crisi catalana, riaccesasi dopo la recente condanna dei leader indipendentisti per i fatti dell’autunno del 2017 con, per la prima volta, scontri con la polizia, potrebbe comportare una reazione nazionalista spagnola che favorirebbe le formazioni di destra.
Dall’altra, l’astensione – la grande incognita di questo voto, molto più che in passato – potrebbe aumentare, penalizzando soprattutto le sinistre. Anche perché la ripetizione elettorale è la conseguenza dell’incapacità, o della non volontà, del Partido Socialista Obrero Español (PSOE) e Unidas Podemos (UP) di arrivare ad un accordo di governo nei mesi scorsi.
Secondo i sondaggi, comunque, la situazione non dovrebbe cambiare di molto rispetto al voto dello scorso 28 aprile. Il PSOE rimarrebbe il primo partito (25-30%), ma non riuscirebbe a migliorare i risultati di sei mesi fa, rischiando addirittura di perdere qualche deputato.
Il che sarebbe uno smacco per il premier Pedro Sánchez che ha tirato la corda con Unidas Podemos nell’impasse estiva, scaricando il barile della responsabilità della ripetizione elettorale su Pablo Iglesias, con l’obiettivo di ottenere un’ampia vittoria e poter governare da solo. Il rischio è che faccia la fine di Theresa May che nel 2017 uscì fortemente indebolita dalle elezioni anticipate.
UP sembrerebbe resistere, seppur con difficoltà (12-14%), grazie anche alla buona prestazione di Iglesias nell’unico dibattito televisivo tra i candidati celebratosi lunedì scorso. Más País, la formazione creata dall’ex numero due di Podemos, Íñigo Errejón, non sembrerebbe portare via voti al partito di Iglesias e avrebbe difficoltà addirittura ad entrare in Parlamento (3-4%).
È a destra, però, dove ci saranno i maggiori cambiamenti: Ciudadanos, la formazione liberal sempre più orientata a destra, perderebbe quasi la metà dei propri consensi (8-10%) permettendo così sia un recupero del Partido Popular (PP), che supererebbe il 20%, sia una crescita dell’estrema destra di Vox (11-14%), che potrebbe convertirsi nel terzo gruppo parlamentare.
L’incertezza, comunque, è grande. Non solo per l’incognita dell’astesione. Soprattutto perché bisognerà capire che cosa succederà sabato, giornata di silenzio, quando la piattaforma indipendentista catalana Tsunami Democràtic ha convocato una giornata di mobilitazione.
C’è chi teme addirittura che si occupino i collegi elettorali in Catalogna o che vi siano nuovi scontri con la polizia. Le destre, ovviamente, non aspettano altro, per poter accusare il PSOE di “connivenza” con chi vuole rompere la Spagna. Insomma, la reazione emotiva di una parte dell’elettorato agli avvenimenti delle ultime 24 ore potrebbe convertire in carta straccia i sondaggi.
Scartando comunque, almeno per il momento, una improbabile vittoria delle destre, che non avrebbero problemi a mettersi d’accordo per un governo di coalizione come è già sucesso in diverse regioni (Andalusia, Madrid, ecc.), il Parlamento che uscirà dal voto di domenica non dovrebbe essere molto diverso da quello degli ultimi sei mesi. La formazione di un governo sarebbe dunque complessa.
Gli scenari possibili sarebbero due: o un nuovo tentativo di Sánchez di arrivare ad un accordo con Unidas Podemos e le formazioni regionaliste e nazionaliste, inclusi gli indipendentisti catalani, o un appoggio esterno del PP e/o di Ciudadanos a un governo socialista di minoranza.
Sánchez preferisce sicuramente questa seconda opzione: in campagna elettorale lo ha ribadito più volte, difendendo un profilo centrista e moderato e arrivando a competere con le destre nell’uso della mano dura con l’infiammazione indipendentista catalana.
Bisognerà capire però se le destre saranno disponibili: il PSOE si astenne nell’autunno del 2016 – dopo la defenestrazione dalla segreteria generale di Sánchez, allora contrario alla rielezione di Rajoy – per evitare le terze elezioni in un anno. Pablo Casado e Albert Rivera, candidati rispettivamente del PP e Ciudadanos, faranno lo stesso? Non è detto. Se così non fosse una nuova ripetizione elettorale sarebbe dietro l’angolo.
A meno che, grazie ad una tenuta elettorale di Unidas Podemos migliore di quel che dicono i sondaggi, Sánchez non ritorni sul cammino che lo aveva portato al governo nel giugno del 2018 – con un discorso che guardava a sinistra e difendeva il dialogo con Barcellona – la Spagna virerebbe verso il centro. Con l’appoggio esterno delle destre, il Sánchez bis non sarebbe altro che un macronismo o una sorta di grande coalizione in salsa spagnola. Il che, inoltre, complicherebbe ancora di più qualunque tentativo di risolvere la crisi catalana.
Per quanto l’indipendentismo non ha nessuna possibilità di raggiungere la tanto anelata indipendenza (la correlazione di forze è evidente e gli appoggi internazionali inesistenti), è indubbio che dispone di un appoggio sociale in Catalogna superiore al 40% che non si può far finta di non vedere. Non è dunque con la sola mano dura che il governo di Madrid potrà uscire dalla maggiore crisi politica e territoriale degli ultimi quarant’anni: lo può fare solo con il dialogo e un nuovo accordo che permetta alla maggior parte dei catalani di sentirsi parte di un progetto collettivo rinnovato.
Ma per fare questo serve coraggio. E, in primis, bisogna essere capaci di formare un governo, rendendosi conto che l’epoca del bipartitismo e delle maggioranze assolute è finita.
di Steven Forti
Professore presso l’Universitat Autònoma de Barcelona e ricercatore presso l’Instituto de História Contemporânea dell’Universidade Nova de Lisboa.
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