Simone Garilli (FSI Mantova) all’evento “Basta salari da fame!” con Simone Fana
Sabato scorso, in una saletta della Biblioteca Gino Baratta di Mantova, si è svolto un bell’evento organizzato dagli amici di eQual – Potere al Popolo, nel quale Simone Fana ha presentato il libro scritto a quattro mani con la sorella Marta Fana, dal titolo Basta salari da fame! (edizione Laterza). Il FSI Mantova ha partecipato con una sua delegazione e dopo aver ascoltato con attenzione la presentazione, moderata da Emanuele Bellintani (candidato Sindaco con Mantova in Comune) e Michele Orezzi (sindacalista Filctem Cgil Mantova), è intervenuto con una domanda di Simone Garilli, che abbiamo ripreso nel *video sotto*. Il video con la risposta dell’autore verrà pubblicato solo con il suo consenso.
Siccome sabato non c’è stato modo e tempo per una successiva replica del nostro Simone Garilli, abbiamo deciso di pubblicarla qui sotto, sperando di stimolare un confronto costruttivo con l’autore e magari anche con gli amici di eQual – Potere al Popolo. La premessa a questa replica è doverosa: condividiamo largamente l’analisi di Simone Fana, siamo incuriositi dal libro, che leggeremo, e abbiamo molto apprezzato il tono politico che l’autore ha voluto imprimere alla presentazione, perché come lui anche noi siamo convinti che all’analisi teorica vada fatta seguire l’azione e che in Italia, oggi, esistano grandi potenzialità per riunire in una proposta politica organica la grande maggioranza dei lavoratori.
Segue quindi la replica di Simone Garilli:
“Caro Simone,
la domanda che ho deciso di rivolgerti sabato, come militante del FSI Mantova, deriva da una convinzione personale maturata nel tempo. Credo di poter dire, da osservatore esterno, che in una parte del variegato mondo della sinistra radicale italiana sia in atto un tentativo di rinnovamento teorico finalizzato ad una proposta politica nuova; una proposta libera dai lacci ideologici della Seconda Repubblica e quindi, auspicabilmente, dagli errori politici che ne sono seguiti, a partire dagli infelici esperimenti di governo con quel centro-sinistra che nel frattempo ha espulso la sua tradizionale componente socialista trasformandosi in un soggetto liberale compiuto.
Mi pare di poter dire anche che tu e Marta, tramite la vostra attività di ricerca, divulgazione e militanza, siate due delle avanguardie di questo ammirevole tentativo di rinnovamento, ed è per tale ragione che come FSI Mantova abbiamo deciso di partecipare alla presentazione di sabato, quale occasione di incontro e di arricchimento reciproco.
Essendo il Fronte Sovranista Italiano un partito relativamente giovane, nato nel 2016 dopo cinque anni di esperienza associativa con l’ARS (Associazione Riconquistare la Sovranità), mi pare corretto innanzitutto presentarci. FSI è un partito che si pone come obiettivo la riconquista della sovranità nazionale in ogni sua forma, attraverso il ricollocamento della Costituzione al vertice dell’ordinamento. Pensiamo che il contrasto insanabile fra la nostra Carta e i Trattati Europei, la natura antidemocratica dell’Unione Europea e la sua irriformabilità, rendano necessario il recesso dell’Italia dai Trattati Europei, così da liberarci dai vincoli che ci impediscono di realizzare politiche sociali e per il lavoro.
È stato il nostro Presidente, Stefano D’Andrea, in un articolo apparso nel 2011 sulla rivista online Appello al Popolo, ad aver utilizzato per la prima volta la parola “sovranista”, oggi entrata in circolo nel dibattito pubblico ma utilizzata con estrema superficialità, per indicare tra gli altri un partito federal-secessionista come la Lega. Per noi la sovranità da riconquistare, al contrario, è esclusivamente quella che consentirà all’Italia di dare forma alla Costituzione del 1948, come in parte è stato fatto durante la Prima Repubblica.
Ecco spiegato, attraverso questa breve presentazione del FSI, il mio intervento di sabato, che si concludeva con una domanda a te rivolta:
‘…non pensi che la questione dell’Unione Europea e della sua irriformabilità, quindi la questione – la dico brutalmente – sovranista, dal nostro punto di vista però, cioè recuperare la sovranità per rimettere al centro dell’ordinamento giuridico la Costituzione italiana del 1948, non sia la questione decisiva?’. Se dovessi racchiudere la tua risposta in una sola frase, sceglierei questa: ‘non illudiamoci, la sovranità monetaria non basta e a ben vedere, quando c’era, non è servita ai lavoratori’. Che non basti la sovranità monetaria al FSI è evidente, tanto è vero che nel mio intervento ho parlato di “sovranità”, senza aggettivi, intendendo con essa il potere dello Stato di disciplinare l’attività economica ed indirizzarla secondo fini sociali, come richiede la Costituzione.
Ma essendo il punto assolutamente decisivo, credo sia utile sviscerarlo: in cosa consiste concretamente, oggi, la sovranità di uno Stato? Limitandoci in questa sede alla politica economica, direi che la sovranità è il potere di:
1) CONTROLLARE LA POLITICA VALUTARIA
perché attraverso la manipolazione del valore esterno della moneta è possibile allentare il vincolo della bilancia dei pagamenti, che altrimenti imporrebbe a qualsiasi Paese, e tanto più ad un Paese che ha perso terreno negli ultimi decenni, di reprimere la crescita dei salari così da contenere i prezzi e provare a competere sui mercati internazionali.
La leva valutaria è stata utilizzata in più occasioni durante la Prima Repubblica per consentire alle imprese di recuperare i margini di profitto minacciati dagli incrementi salariali. La svalutazione della lira, tanto vituperata dagli “intellettuali” revisionisti della Seconda Repubblica, è stata in passato anche uno strumento di mediazione democratica del conflitto tra Capitale e Lavoro: salivano i salari e nel contempo si manteneva la competitività esterna delle imprese esportatrici.
Inutile dire che nel recinto unionista, a causa della presenza di una moneta unica, è scomparsa la politica valutaria nazionale, e non c’è di conseguenza la possibilità di mediare il conflitto sociale per quella via. Le imprese, come hai ricordato sabato, usavano anche l’inflazione per recuperare i margini di profitto sottratti dalla crescita dei salari nominali. Tuttavia anche questo secondo sbocco, sebbene formalmente a disposizione, è precluso dentro l’euro e l’Unione Europea, perché minerebbe anch’esso quella competitività esterna che si gioca ormai esclusivamente sui prezzi relativi dei beni
2) CONTROLLARE LE POLITICHE MONETARIA E FISCALE, CONGIUNTAMENTE
perché senza di esse non è possibile l’intervento diretto dello Stato nell’economia e, in particolare, non è pensabile una politica industriale, la quale richiede massici investimenti pubblici nei settori considerati strategici e nei cosiddetti monopoli naturali, per loro natura inadatti ad un regime concorrenziale.
Come noto, se la Banca Centrale, che esercita la politica monetaria, non risponde in alcun modo al potere esecutivo, la politica fiscale del governo non potrà essere autonoma. Saranno i mercati finanziari a fissare il tasso di interesse a cui lo Stato finanzia la sua spesa in deficit e spetterà ad un organismo tecnico, slegato da qualsiasi vincolo popolare, decidere se perseguire gli interessi degli investitori privati o quelli dello Stato.
La Banca Centrale Europea ci indica chiaramente che l’indipendenza della politica monetaria dal potere esecutivo è uno strumento di disciplina dello Stato, condannato così ad applicare l’agenda riformatrice che gli investitori e le stesse istituzioni europee gli richiedono. Allo stesso tempo il Trattato di Maastricht e le sue successive articolazioni, fra le quali il Fiscal Compact, riducono sempre più lo spazio legale del deficit pubblico, sterilizzando anche per quella via la politica fiscale
3) CONTROLLARE IL MOVIMENTO IN ENTRATA E IN USCITA DEI CAPITALI
perché il libero flusso inter-nazionale dei capitali condanna lo Stato, i sindacati e i lavoratori a sottostare alla legge del massimo profitto privato. Se il capitale è libero di circolare dove il costo del lavoro, i diritti, la sicurezza e la salute dei lavoratori sono meno tutelati e se nel frattempo lo Stato non può fare politica industriale, i livelli di occupazione e di sviluppo interni dipenderanno dall’attrattività del Paese nei confronti delle imprese multinazionali. Inizierà così un meccanismo di competizione al ribasso tra lavoratori dei diversi Stati e persino tra aree interne ad uno stesso Stato, con effetti distruttivi sulla quantità e la qualità del lavoro.
È la storia degli ultimi decenni.
Ma c’è di più: il libero movimento inter-nazionale dei capitali sancisce l’impossibilità di qualsiasi politica fiscale redistributiva o di welfare, perché le imposte e i contributi sociali pagati dalle imprese fanno parte a pieno titolo del costo del lavoro complessivo e un capitale a briglia sciolta avrà gioco facile a ricattare lo Stato che voglia incrementare il prelievo sui redditi più alti minacciandolo di espatriare. Il dibattito ormai quotidiano sul taglio del cuneo fiscale e sulla necessità di sgravare le imprese da un eccessivo costo del lavoro ne è testimonianza diretta
Così definita la sovranità, e chiarito come essa sia scientificamente erosa dalle istituzioni e dai trattati europei, permettimi Simone una piccola parentesi sulla politica industriale.
Nella presentazione di sabato nei hai parlato diffusamente e con merito, toccando in particolare il tema della produttività, un parametro decisivo che da alcuni decenni nel nostro Paese ristagna. La teoria neoliberale in merito è fallace ed è assodato che la produttività dipenda in prima istanza dalla domanda aggregata e più nello specifico dalla dinamica salariale. Se i salari crescono le imprese sono incentivate ad “efficientare” il processo produttivo attraverso investimenti in capitale, altrimenti no. Siamo ovviamente d’accordo con l’analisi, e concordiamo amaramente sul fatto che l’Italia si collochi ormai quasi soltanto nei settori a basso o medio valore aggiunto, come testimoniato dal fatto che l’occupazione cresce da tempo esclusivamente nei servizi e attraverso l’uso indiscriminato dei part-time involontari. Un Paese di camerieri, come hai concluso, è un orizzonte disastroso per i salari e per le classi lavoratrici.
E allora come non considerare, nel momento della proposta politica, che il recinto istituzionale della prima Repubblica, dentro il quale come detto si poteva finanziare un’industria pubblica piuttosto agevolmente, era una condicio sine qua non per la lotta salariale?
Solo in quel contesto di alti livelli occupazionali e di crescita della produttività i lavoratori potevano contendere al capitale una quota dell’incremento produttivo e, sebbene a fasi alterne, durante la Prima Repubblica la quota salari guadagnò effettivamente terreno rispetto ai profitti, con un picco intorno alla metà degli anni Settanta. Il declino senza appello della quota salari è visibile non a caso, dal nostro punto di vista, da quando il processo di integrazione europea prende definitivamente slancio, a partire dal Sistema Monetario Europeo nel quale l’Italia entra per la prima volta nel 1979, e a cui seguiranno il divorzio Banca d’Italia-Tesoro (1981), l’Atto Unico Europeo (1986), la restrizione della banda di oscillazione della lira all’interno dello SME (1987), il Trattato di Maastricht (1992), l’aggancio definitivo al marco (1996), il Patto di Stabilità e Crescita (1997), l’euro (1999-2002) e il Fiscal Compact (2012), per limitarci ai vincoli principali.
È indubbio che nella contesa tra salari e profitti degli anni ’60 e ’70 grande merito va riconosciuto ai lavoratori e ai sindacati che li sostenevano, ma i fattori che hanno reso quelle lotte possibili e talvolta vittoriose sono in ultima istanza due, tra loro correlati:
1) come detto, la produttività complessiva del sistema cresceva a ritmi elevati, consentendo almeno in teoria margini di miglioramento per entrambe le parti in conflitto, o quantomeno un compromesso dignitoso
2) ma soprattutto, per quelle lotte c’era uno sbocco politico, perché le istituzioni democratiche e i corpi intermedi, nel loro complesso, erano relativamente autonomi nelle decisioni di politica economica e quindi anche responsabili primi davanti agli elettori della direzione e dell’intensità dello sviluppo
Entrambi i fattori, come è evidente, sono stati sterilizzati dall’Unione Europea, che in questo senso è l’assicurazione per il grande capitale che la lotta di classe si giochi sempre in casa, invece che in campo neutro.
Non si tratta perciò di riprendersi la sovranità monetaria, ma la sovranità punto e basta, e nessuno ha mai sostenuto che sia sufficiente la sovranità per realizzare automaticamente il socialismo. Ho parlato non a caso, nel mio intervento di sabato, di “condizione necessaria, anche se evidentemente non sufficiente”. La riconquista della sovranità, con il recesso dall’Unione Europea, è una battaglia di portata epocale, ma se vista con freddo distacco è solo l’obiettivo minimo per ripristinare condizioni conflittuali equilibrate tra il Capitale e il Lavoro, all’interno del quale il FSI ricomprende anche i lavoratori autonomi, i dipendenti pubblici e le piccole imprese private che devono la loro sopravvivenza alla domanda interna (e cioè ai salari). In questo senso siamo frontisti o, con le parole del presidente Stefano D’Andrea, siamo un partito non certo inter-classista, ma sicuramente “pluri-classista”.
Infine, il tema dell’irriformabilità dell’Unione Europea.
Agganciandomi alla tua sacrosanta apologia della Storia, già sabato ti ho ricordato che l’Unione, storicamente, è un progetto principalmente francese che la Germania ha accettato alle sue condizioni. La matrice è quella e non è previsto che possa essere sostituita. Non lo dice il FSI, lo dicono i Trattati Europei, che prevedono un’“economia sociale di mercato fortemente competitiva” (un chiaro richiamo al modello economico tedesco) e che possono essere modificati solo con l’unanimità nel Consiglio Europeo. Questo significa che i Trattati che ci legano alla Germania e alla Francia sono di fatto immodificabili.
È qui che la tua risposta mi ha lasciato particolarmente perplesso.
Sono pronto ad essere smentito, e ne sarei felice, ma a me pare che tu abbia detto in sostanza che è inutile parlare di Europa, che non aggrega consenso, che bisogna parlare piuttosto delle battaglie concrete, fra le quali il salario minimo, e che poi si vedrà, una volta raccolti i consensi necessari si affronterà il problema europeo e saranno i rapporti di forza a decidere chi la spunterà, se un’altra Europa è possibile o se toccherà pensare ad altro.
La questione, a volerla vedere con rigore, è di natura democratica. Noi del FSI crediamo che al popolo vada detta tutta la verità, non una parte sola. Nei documenti programmatici che abbiamo approvato nel corso degli anni il Lavoro è sempre al centro perché siamo convinti che “la democrazia sono i diritti sociali”, come ha ricordato con dono della sintesi Luciano Canfora. Ma le classi popolari vanno rese coscienti di ciò che di strutturale impedisce in questa fase storica le riforme progressive che noi, come te e lo stesso Potere al Popolo, abbiamo in mente. Promettere il socialismo quando in queste condizioni istituzionali non si può ottenere altro che le briciole, e spesso nemmeno quelle, non è una strategia per guadagnare consenso, ma per perderlo al momento giusto. Ed il momento giusto è quello dello scontro frontale con l’Unione Europea e con l’establishment che se ne serve in patria per disciplinare il Lavoro.
Davvero qui mi chiedo, e ci chiediamo come FSI, se Tsipras abbia insegnato qualcosa. Forse, visti i tuoi riferimenti tutto sommato positivi a Pablo Iglesias, a Podemos, al nascituro governo spagnolo di centro-sinistra e al governo portoghese, ha insegnato meno di quello che avrebbe dovuto.
Attraverso Syriza Alexis Tsipras è riuscito nel 2015 ad aggregare consenso su una piattaforma radicalmente anti-austerità e oggi infligge in prima persona le politiche di austerità al suo popolo. Il referendum contro quelle politiche, peraltro incidentalmente vinto, è stato archiviato per una ragione molto semplice: il popolo greco non era stato preparato allo scontro. Rispettare quel referendum voleva dire essere pronti ad uscire dall’Unione Europea (e quindi anche dall’euro). Sfortunatamente, però, Syriza aveva preparato il suo popolo a detestare l’austerità e il suo popolo detestava l’austerità, non l’euro e non l’Unione Europea che quell’austerità rendono necessaria.
Senza affrontare il nodo europeo ai lavoratori possiamo promettere solo menzogne, questo è il punto strategico decisivo, che non può essere eluso pena un’altra fase storica di brucianti fallimenti per le forze popolari. In definitiva, se abbiamo paura della democrazia e della verità, dove vogliamo andare?Mi scuserai per la lunghezza e per la franchezza di questa replica. Inutile dire che se come FSI Mantova abbiamo rivolto a te questa riflessione è perché pensiamo che la parte della barricata dalla quale ci troviamo a lottare sia la stessa. Grazie del libro, della presentazione di sabato e della eventuale risposta che vorrai darci”.
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