Il cambiamento
Perché il cambiamento?
Come mai, nell’epoca in cui tutto cambia a gran velocità e in peggio, una moltitudine crescente continua ad invocare il cambiamento stringendolo come un feticcio (simbolo, direi, dell’eterna fuga dal presente) senza mai porsi il problema della guida?
Si guarda con terrore alla prospettiva di “tornare indietro”. È bandita qualunque revisione critica del percorso imposto alla società. Ognuno è concentrato su se stesso mentre l’attesa dell’Epifania del Cambiamento, inteso come atto unico, conclusivo e risolutivo, assume connotati quasi messianici, mancando, nel concreto, ogni disciplina collettiva che spinga ad organizzare quel complesso coerente di azioni necessario a guidare ogni cambiamento nella direzione imposta dalla volontà popolare.
Chi decide per il cambiamento?
Da circa vent’anni i grandi partiti di massa sono di fatto tramontati. Si è perso così il filo che legava la volontà e gli interessi delle masse alle Istituzioni.
Il popolo è deprivato del proprio ruolo attivo nei processi decisionali riguardanti il paese. Vacilla la democrazia rappresentativa che nei decenni trascorsi ci ha garantito uno sviluppo sociale con pochi eguali al mondo.
Resta un indecente e inutile legame emozionale tra la massa e un pugno di arruffapopoli, per i quali non sprecherò mai troppe parole.
Nel frattempo élites pazienti e organizzate restano in grado perfezionare sapientemente il loro (non il nostro!) ambizioso progetto politico in fase di paziente attuazione da qualche decennio.
Infondere fiducia nel cambiamento a queste condizioni, senza cioè risvegliare la coscienza che conduce alla formazione di un nuovo attore politico popolare, significa continuare a vendere illusioni.
Quale cambiamento?
Come insegnano Romano Prodi (1) e Mario Monti (2), nei momenti di acutizzazione delle crisi è più forte una certa tendenza nichilista che spinge a forzare e alla fine rompere gli schemi esistenti.
La distruzione finemente spacciata per “passi in avanti” è compiuta con cambiamenti di frodo estranei e incomprensibili alla società, la quale invece può essere elevata solo grazie alla sapiente e misurata disciplina della continuità propria di chi conosce il senso dello stato e il cammino della nazione.
Le conseguenze sociali di tale svolta autoritaria – insieme al peggioramento delle condizioni materiali della popolazione – sono il cortocircuito, la perdita dell’unità e del centro, la svirilizzazione e il cinismo, il decadimento della cultura e la perdita della memoria, l’aumento delle disuguaglianze e lo scatenamento della violenza.
Non c’è valore che tenga di fronte alla furia livellatrice dei despoti illuminati descritti da Tommaso Padoa Schioppa (3).
Tuttavia esiste un antidoto: imparare ad usare le stesse armi del nemico, ivi incluse la volontà, la pazienza, la perseveranza, la disciplina, la fiducia nell’avvenire, la capacità di progettare anche a lungo termine con le giuste strategie, il sapersi muovere per fasi, con passo sicuro, senza stupide ansie, divisioni settarie o isterismi.
A quel punto potrà emergere una nuova “élite popolare” in grado di rilanciare la Civiltà del Lavoro e cancellare per sempre la barbarie del job.
Gianluigi Leone – ARS Lazio
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(1) «Sono sicuro che l’euro ci costringerà a introdurre un nuovo insieme di strumenti di politica economica. Proporli adesso è politicamente impossibile, ma un bel giorno ci sarà una crisi e si creeranno i nuovi strumenti». Romano Prodi, intervistato dal Financial Times (4/12/2001).
(2) «Nei momenti di crisi più acuta, progressi più sensibili. Rientro dell’emergenza della crisi: affievolimento della volontà di cooperare. Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, e di gravi crisi per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti di sovranità nazionali a un livello comunitario. E’ chiaro che il potere politico ma anche il senso di appartenenza dei cittadini alla collettività nazionale possono essere pronti a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle perché c’è una crisi in atto, visibile, conclamata. Abbiamo bisogno delle crisi, come il G20, come gli altri consessi internazionali, per fare passi avanti. Ma quando una crisi sparisce, rimane un sedimento, perché si sono messe in opera istituzioni, leggi eccetera, per cui non è pienamente reversibile». Mario Monti, all’università Luiss (22/02/2011)
(3) «L’Europa non nasce da un movimento democratico. Tra il polo del consenso popolare e quello della leadership di alcuni governanti, l’Europa è nata seguendo un metodo che potremmo definire con il termine di dispotismo illuminato». Tommaso Padoa Schioppa, Commentaire (1999).
Mario Monti e Romano Prodi hanno creduto che l’Europa monetaria avrebbe suscitato la crisi e che la crisi avrebbe suscitato l’Europa politica. L’Europa politica è però l’Europa dei trasferimenti di risorse dal nord al sud. Dunque nelle previsioni di Monti & Prodi la crisi colpisce l’Europa intera e costringe il nord a fare sacrifici per il sud (la Germania a donare l’8-9% del suo PIL al Mezzogiorno); ma nei fatti la crisi ha colpito soltanto l’Europa del sud e la costringe a esaurire le sue risorse per il (per le banche del) nord. Né i despoti illuminati osano costringere l’Europa del nord ai trasferimenti. – Alle monarchie NAZIONALI nella fase del dispotismo illuminato dobbiamo l’abolizione della tortura e della pena di morte, la riforma dell’amministrazione statale, dei sistemi fiscali, la scuola pubblica, la laicità dello stato, l’abolizione della legislazione anti-semita, anche “Le nozze di Figaro”. Sarebbe meglio definire il dispotismo degli europeisti “dispotismo obnubilato”.