Il fallimento del liberismo si nasconde nel suo successo
La caduta del muro di Berlino può essere definito uno spartiacque storico. Ma la verità è che – come da più parti si dice – gli apparecchiamenti, in vista del crollo dei regimi comunisti, iniziarono molto prima. Già negli anni ’70, con la crisi petrolifera e i tentativi di dimostrare che le politiche keynesiane andavano bene nel breve periodo, mentre nel lungo periodo erano sconfessate. Non è un caso che questi richiedevano semmai quelle politiche che Keynes riteneva invece fallimentari in quanto alimentavano forti disequilibri macroeconomici in favore del capitale.
Ecco dunque che già in quegli anni, qui in Europa si iniziava a parlare di unione monetaria con una banca centrale indipendente. L’idea, appunto, era il superamento del modello economico misto e delle costituzioni nazionali che lo sorreggevano legalmente, in favore di un modello economico, opposto e antitetico: quello (neo)liberista. Ma perché ciò si realizzasse, era necessario che il blocco orientale e il suo apparato ideologico crollasse, dimostrando al mondo che il socialismo era un’ideologia fallita e fallimentare. Soprattutto pericolosa e illiberale, e mostrando altresì, per contrasto, che il modello liberista (o capitalistico) invece era l’esatto opposto: democratico e libero.
Saltando a piè pari le riforme propedeutiche alla restaurazione liberista nella sua forma hayekiana, operate soprattutto in paesi come l’Italia (per citarne uno: il divorzio Banca d’Italia Tesoro), il crollo del muro di Berlino è stato come il suono della campanella che avvisa che la pausa ricreativa è terminata. Tutto ciò che era stato sapientemente coltivato negli anni prima (federalismo europeo, rapporto Werner, SME, divorzio e i lunghi dibattiti politico-culturali volti a demonizzare l’intervento dello Stato in economia, foriero di sprechi, deficit e debito), fiorisce e viene raccolto nella summa normativa del neoliberismo contemporaneo: il trattato di Maastricht del 1992.
Assistiamo alla vittoria incontestabile e incontrastata del modello liberista: culturalmente, politicamente ed economicamente, questo modello, che risorge dal passato ottocentesco, risulta di nuovo vincente. Il socialismo e il modello misto keynesiano risultavano i perdenti: idee vetuste per un mondo che ormai non esisteva più. E noi, che eravamo all’epoca le giovanissime generazioni, ne eravamo pure felici, ignari di quanto male stavamo facendo a noi stessi e ai nostri figli. Soprattutto ignari del fatto che quello spartiacque, quella firma in quel trattato osceno, avrebbe decretato l’emarginazione del modello economico disegnato nella Costituzione del 1948 che – come è noto – è orientato allo sviluppo e al benessere sociale più che al benessere di quei quattro miliardari con voglie speculative, preoccupati semmai che i loro ingenti capitali non svalutassero per un po’ di inflazione o che le loro fabbriche non fossero dominate dalle rivendicazioni proletarie, ovvero che i loro capitali rimanessero prigionieri in un contesto economico ostile.
Ma quand’anche il liberismo avesse (ri)vinto, la sua vittoria ben presto avrebbe mostrato tutti i suoi limiti. In parte, perché per quanto fosse vittorioso, esistevano comunque “sacche” di resistenza: la carta fondamentale per quanto emarginata non poteva essere del tutto ignorata. E in parte perché il modello liberista presenta comunque dei limiti obiettivi che richiedono misure draconiane per reggersi e dare l’illusione di essere il migliore. Così, la moneta unica – emblema, manganello e pesante maquillage di questo sistema – ha richiesto provvedimenti e riforme illogiche, oppressive e irrazionali per sopravvivere fino a oggi; riforme che noi paghiamo sulla nostra pelle di popolo, con una crisi sociale, economica e politica senza un’apparente via d’uscita.
Il liberismo ha certo vinto, ma è nella sua vittoria che si nasconde la sua (futura) sconfitta, in quanto questa è impressa geneticamente nel suo successo. Un successo che si regge infatti sull’oppressione finanziaria, sulla sterilizzazione delle libertà democratiche in nome della stabilità, sulla dissoluzione delle identità nazionali in nome del globalismo economico che, assicurando libertà di movimento ai capitali, alle persone e alle merci, in realtà assicura solo che i capitalisti e gli speculatori finanziari possano assumere il ruolo di “esternalità negative” rispetto alle Costituzioni democratiche, decretando quello che si potrebbe definire come un “fallimento della democrazia”.
La verità, dunque, è che il liberismo, nelle sue varie declinazioni (ordoliberismo, neoliberismo, europeismo, globalismo ecc.) ha invero perso la battaglia ideologica. Ha mostrato – per chi sa guardare – i suoi limiti e soprattutto il suo DNA illiberale. Perché liberismo e libertà non sono né sinonimi, né complementari. Anzi, il liberismo richiede proprio la repressione della libertà, perché questa non è certo quella di accumulare capitali o di spostarli da una parte all’altra del globo, bensì è la libertà dai bisogni, è la libertà di poter partecipare alla vita della propria comunità e di influenzarne possibilmente le decisioni nel gioco democratico, che però solo la tutela della dignità umana può assicurare come equo ed efficace. E a tal proposito faccio mie le parole di un grande politico e giurista come Piero Calamandrei (in foto), il quale in una famosa lectio magistralis in quel di Milano del 1955 spiegava:
«Allora nella nostra Costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la Costituzione, il più impegnativo, impegnativo per noi che siamo a declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese [art. 3, ndr].” È compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’art. 1°, “La Repubblica d’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”, questa formula corrisponderà alla realtà, perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica, perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società». Milano, 26 gennaio 1955.
Ciò per dimostrare che democrazia e liberismo non sono compatibili e se quand’anche qualcuno sostenga che lo siano, è evidente che uno dei due deve necessariamente cedere all’altro, sconfessando se stesso, la propria natura e i propri obiettivi. Oggi è il liberismo a risultare vittorioso, poiché domina culturalmente, economicamente, socialmente e politicamente la scena. Ma proprio per questa ragione, si mostra ai più come palesemente incompatibile con le regole base della democrazia, che non può che essere sostanziale (come afferma Calamandrei). Altrimenti non è. E il liberismo rifugge dalla sostanzialità democratica, che nel nostro quadro costituzionale richiede l’attivo intervento dello Stato repubblicano onde «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica economica e sociale del Paese» (art. 3 Cost.). Cioè tutto ciò che è sconfessato dalla citata summa neoliberista nota come Trattato di Maastricht, al quale così entusiasticamente aderimmo nel 1992, firmando il nostro declino democratico, politico, economico e sociale.
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