Italia ed Europa, un destino comune
Il seguente documento è stato redatto dal Gruppo Clarissa, ricercatori e studiosi di diversi orientamenti che collaborano con la testata on-line Clarissa.it, con l'intezione di offrire un contributo di analisi sul tema maggiormente dibattuto in questa fase politica: l'Europa, l'Euro, i rapporti con la sovranità nazionale. Viene presentato su Appello al Popolo con la consapevolezza di non essere conforme con la linea politica espressa dal sito, vi si auspica, infatti, un recupero della sovranità nazionale ma in un percorso che si accompagni con la costruzione di una sovranità europea. Vuole essere pertanto uno stimolo per un approfondimento e un confronto sulle tesi che vengono esposte (S. S.).
Italia ed Europa, un destino comune. Un documento del Gruppo Clarissa
L'avvento del governo dei tecnici che ha sfiduciato la classe politica italiana, nonostante la dubbia costituzionalità del fatto, non ha dato luogo all'apertura di un serio dibattito sulla questione di fondo, vale a dire sul futuro dell'Italia e del suo rapporto con l'Unione Europea, in quanto quest'ultima, come nel caso della Grecia, ha di fatto agito, sia vera o meno la diretta pressione tedesca al massimo livello istituzionale italiano, come un potere sovraordinato rispetto a quello nazionale.
Se si considera che la questione è strettamente connessa alla crisi economica del Paese, in quanto non poche forze di opinione attribuiscono all'avvento della moneta unica europea ed all'impostazione della politica economica comunitaria i problemi attuali dell'Italia, capiamo che il tema della sovranità italiana e del rapporto con le istituzioni comunitarie non è una questione di filosofia del diritto, ma investe le prospettive future del nostro Paese.
I tre presupposti storici della sovranità limitata dell'Italia
Crediamo che per affrontare seriamente la questione, si debbano tenere per fermi tre presupposti di carattere storico che un autore del gruppo Clarissa ha già da tempo indicato come centrali per la comprensione dell'attuale condizione dell'Italia(1) e che abbiamo trovato confermati recentemente da due storici inglesi, ai cui contributi, per quanto assai diversi e non sempre condivisibili, faremo qui riferimento solo perché ovviamente non sospettabili di spirito sciovinistico.
In primo luogo, l'importanza dell'idea di Patria. Gilmour, in una lettura tutta in negativo della storia italiana unitaria, nota che "l'unità raggiunta in fretta e furia nell'Ottocento, l'avvento del Fascismo nella prima metà del Novecento e la successiva sconfitta nella seconda guerra mondiale non hanno certo alimentato nei cittadini l'amor di patria"(2). Duggan vede invece la nostra storia unitaria sempre positivamente collegata all'idea di Italia maturata fin dal Settecento in un complesso quadro culturale che egli ricava da una vastissima e originale analisi delle fonti(3).
Secondo punto: l'importanza della Seconda Guerra mondiale. Gilmour si limita a criticare, per noi troppo semplicisticamente, la scelta dell'Italia di entrare in guerra, in quanto motivata, in tutte e due le guerre mondiali, da puro opportunismo, dato che a suo avviso "il Paese non aveva nemici in Europa" ed "entrò in guerra in entrambi i conflitti globali nove mesi dopo il loro inizio, quando il governo pensava di avere identificato il vincitore e ottenuto promesse di compensi territoriali"(4). Duggan, avendo esaminato con grande ampiezza le linee di fondo storiche che imposero all'Italia in entrambi i casi l'intervento – si spinge oltre, con un'apprezzabile autonomia di giudizio, evidenziando l'effetto drammatico dell'armistizio dell'8 settembre, in quanto esso "appariva come un duplice tradimento: dei tedeschi e del popolo italiano (per tacere degli inglesi e degli americani)"(5), da parte della classe dirigente badogliana.
A questo punto lo storico inglese cita, non senza malizia, le parole con cui Berlusconi ha celebrato la diserzione del padre dopo l'8 settembre: "Mio padre era militare al momento della disfatta. I tedeschi avevano iniziato la caccia al soldato italiano e lui si fece convincere da alcuni suoi amici a riparare con loro in Svizzera. Fece la scelta giusta. Salvò la sua vita e salvò il futuro di tutti noi". Duggan ne deriva, con logica stringente, un interrogativo che pesa su tutta la nostra storia recente: "Dopo tanti anni spesi nel tentativo di creare un senso della nazione, adesso che specie di nazione l'Italia poteva essere?"(6)
Non è dunque tanto la sconfitta nella guerra, quanto l'8 settembre, e la conseguente guerra civile, ad avere interrotto il processo di sviluppo di un'Italia sovrana. Dal modo con cui la guerra è stata persa deriva quindi il terzo presupposto della nostra storia recente, a differenza di quanto accaduto a Germania e Giappone: la perdita del riferimento alla Patria italiana come nucleo ideale, per cui la lotta fra partiti politici farà sempre riferimento a forze comunque esterne al Paese. Gilmour, ricordando la dipendenza di Democrazia Cristiana e Pci rispettivamente dal Vaticano e dall'Urss, conclude che "questi partiti non erano interessati ad instillare [nel popolo italiano] un nuovo senso di identità nazionale che sostituisse il vecchio"(7). Duggan, concordando su quei riferimenti esterni, cui aggiunge giustamente l'obbedienza agli Stati Uniti, si spinge oltre, rilevando che di conseguenza "i valori della Resistenza persero qualunque capacità di fornire una limpida piattaforma etica alla nuova Repubblica", per cui in definitiva "in una situazione in cui nessuno dei due campi poteva fare appello con sincerità alla «nazione» come ad un valore supremo, sovraordinato a tutto il resto, l'essenza della politica italiana diventò, com'era avvenuto per tanta parte della sua storia, più una lotta contro un nemico interno che un processo volto a conseguire fini collettivi"(8).
Da questi presupposti, deriva quella condizione di sovranità limitata dell'Italia nel dopoguerra, pienamente accettata, al di là degli equilibri e delle alternanze politiche, da pavide classi dirigenti che dovevano prima di tutto garantire l'allineamento dell'Italia all'asse nord-atlantico, in diretta dipendenza dagli Alleati anglo-sassoni. Una condizione della quale si sono avute conferme documentali soprattutto a seguito di una serie di drammatiche vicende interne durante gli anni della Guerra Fredda, basti citare per tutte la "strategia della tensione" e gli interventi della mafia del cosiddetto "terzo livello", vicende che riaffiorano ogni volta che tornano giudiziariamente di attualità le manovre dei centri di potere "occulti", manifestando la continuità in Italia di quello che Bobbio chiamava il potere invisibile(9).
L'Unione Europea come estensione del capitalismo occidentale
È in un contesto di questo genere, non possiamo dimenticarlo, che si colloca la politica europeista del nostro Paese. Un'Unione Europea che non nasce affatto sulla base di uno spirito internazionalista, come vorrebbero ancora farci credere alcuni intellettuali e politici, ma in una visione di riorganizzazione dell'economia occidentale direttamente derivante dal sistema con cui gli Alleati occidentali avevano organizzato e gestito l'economia di guerra in ben due conflitti mondiali, come testimonia in modo straordinariamente chiaro uno dei padri fondatori dell'Unione, Jean Monnet, nelle sue memorie(10).
L'Europa delle comunità economiche, nella visione americana e in quella delle élite dirigenti francese e britannica, pur con differenti prospettive, voleva essere un'estensione permanente del capitalismo occidentale all'area degli ex-nemici, allo scopo di sradicare qualsiasi possibilità di affermazione di regimi terzaforzisti (questi in definitiva erano stati i fascismi), prima ancora che di impedire la diffusione del comunismo in Europa centrale ed occidentale.
Per queste ragioni, fino almeno alla caduta del Muro di Berlino, le Comunità Europee sono state uno strumento di normalizzazione e di omogeneizzazione dei sistemi giuridici ed economici dell'Europa, al tempo stesso garantendo agli Usa che essa non assurgesse al rango di potenza politico-militare autonoma, come dimostrano le vicende in materia di difesa comune, a cominciare dall'abortita Comunità Europea di Difesa (CED) nei primi anni Cinquanta.
Dopo la caduta del Muro di Berlino e lo stabilirsi di un'egemonia assoluta dei Paesi anglo-sassoni guidati dagli Stati Uniti, la dipendenza italiana dall'esterno non muta certamente; anzi, se possibile si rafforza, anche in conseguenza dell'accelerazione dei processi di globalizzazione economica e della politica statunitense del New World Order, che ha fatto delle guerre di conquista operazioni di polizia internazionale, in particolare per dare un nuovo assetto al Medio Oriente. Un'area quest'ultima nella quale, a seguito di quella politica, si manifesta la spettacolosa crescita di Israele come potenza egemone(11) che ovviamente ha pesantemente condizionato, nell'insieme della politica dell'Occidente nel Mediterraneo, l'Italia che, proprio in quell'ambito geopolitico, aveva sommessamente tentato di ritagliarsi un proprio spazio autonomo fin dalla fine del XIX secolo.
Fino a quando l'Unione Europea sarà inserita con le sue classi dirigenti nel sistema dell'egemonia anglo-sassone costruita nel Novecento con le due guerre mondiali, è difficile pensare che possa assumere un volto diverso da quello di un'organizzazione giuridico-tecnocratica che sostiene le forme del capitalismo occidentale, sia pure venato dagli influssi residui dello "stato sociale di mercato" che derivano dalla socialdemocrazia tedesca. Il suo scopo, nella visione atlantista, è sempre quello di assimilare l'Est Europa, di fare da barriera alla Russia e di svolgere un ruolo di supporto nelle politiche mediorientali ed africane degli Usa, come dimostrano un'infinità di vicende: dai conflitti nei Balcani degli anni Novanta del secolo scorso allo schieramento dei missili in Europa orientale, dal supporto Nato in Medio Oriente fino agli eventi in Africa del nord nel corso del 2011.
Lo dimostra anche, per venire al punto della crisi economica, la palese acquiescenza dell'Unione Europea alla scelta statunitense di sostenere il sistema dell'alta finanza mondiale, attingendo alle risorse dei cittadini, incentivando così quel moral hazard che è la base stessa della speculazione internazionale; lo dimostra il modo con cui l'Unione ha subito le pagelle delle compagnie di rating; lo dimostra il modo con cui si è lasciata cadere ogni forma di regolamentazione della speculazione finanziaria; lo dimostra l'inedito diretto coinvolgimento degli Usa nella gestione delle crisi greca ed italiana.
Tale orientamento di fondo di un'Unione Europea, inizialmente piuttosto incerta al suo interno sul da farsi, ha confermato così anche in questo caso la totale subordinazione delle élite politiche ed economiche europee ai desiderata della finanza internazionale, élite che non hanno mai trovato né la volontà né il coraggio per fare dell'euro quello strumento di indipendenza che molti anche fuori dall'Europa si auguravano: cosa che sarebbe stata possibile in diversi momenti dell'ultimo decennio, da ultimo proprio al momento dell'esplodere della crisi dei subprimes, che, occorre rilevarlo, era originariamente assai più americana che europea.
Italia ed Europa: destini collegati
La comune perdita di indipendenza ed autonomia dell'Italia e dell'Europa, a seguito degli esiti della Seconda Guerra mondiale, ci mostra che difficilmente la fuoriuscita dell'Italia dall'euro e dall'Unione Europea potrebbe contribuire seriamente a risolvere i problemi italiani: proprio in questi giorni assistiamo al caso dell'Ungheria, laddove le pressioni delle organizzazioni finanziarie sovranazionali stanno costringendo a una rapida marcia indietro dalle posizioni nazionaliste ed autonomiste del governo magiaro; cose già viste in Grecia, quando il referendum sulle misure di austerità è stato cancellato su diretta pressione della Ue.
D'altra parte, la stessa uscita dell'Italia dall'Unione sicuramente aggraverebbe la subordinazione europea ai desiderata anglo-sassoni: la ripresa del tradizionale isolazionismo britannico con lo strappo voluto da Cameron, sul quale si è detto assai meno di quanto sarebbe stato necessario, dimostra quanto sarebbe gradita all'alta finanza internazionale la disgregazione dell'Europa. Così come appare del tutto sterile, e talvolta francamente piuttosto sospetta, la crescente polemica anti-tedesca, quasi che si voglia sollevare per la terza volta una "questione della colpa" contro questo Paese, dimenticando che la sua economia è l'unica a livello mondiale in grado di preoccupare gli Stati Uniti ed è del pari l'unica in grado di mantenere nell'Unione l'est europeo – due questioni di non poco rilievo per chi intenda davvero contrastare l'egemonia anglo-sassone a livello mondiale e lavorare per un'Europa libera ed indipendente.
Il destino storico dell'Italia è collegato all'Europa almeno dal Quattrocento, quando il nostro Paese fornì alla cultura europea tutti i suoi più moderni strumenti, formandola ad un livello di profondità che è stato determinante per la costruzione della sua identità comune; del pari, il destino storico dell'Italia è legato alle vicende della Germania, dalla quale tante cose ci dividono in apparenza quante nella sostanza ci uniscono, partendo dalla fine del Medioevo per arrivare, attraverso l'assetto di Westphalia, alla conquista risorgimentale dell'indipendenza, giungendo fino ad una complementarietà di interessi attuale, nel quadro di un'Europa unificata, che, se forse sfugge agli attuali governanti tedeschi ed italiani, non deve sfuggire a chi dia una lettura alternativa della storia europea.
Una strategia realmente alternativa dovrebbe quindi prendere atto certo del fatto che l'Unione Europea è oggi un efficiente strumento del capitalismo tecnocratico e finanziario mondiale, così come del fatto che il sistema partitocratico italiano ha garantito la sovranità limitata dell'Italia. Ma da questo non può derivare un'opposizione al processo di unificazione europea: occorre che l'azione per ridare piena indipendenza e sovranità popolare al nostro Paese coincida con una parallela azione per la piena indipendenza e sovranità europea. Le due linee di azione sono infatti indissolubilmente legate.
Pensiamo ad esempio alla fondamentale questione della Russia, che l'Unione Europea ha tenuto fuori del processo di unificazione per esigenze legate alla geopolitica statunitense, oltreché ai problemi posti dalla storia dell'Urss: una situazione che diventerà scottante quanto più dovesse aggravarsi la situazione mediorientale, da un lato, e svilupparsi la potenza cinese, dall'altro. Il lavoro che degli europei pienamente consapevoli della nostra identità dovrebbero svolgere verso la Russia, aprendo con quel Paese un dialogo serio sulle comuni prospettive future, sarebbe di importanza fondamentale per l'avvenire, soprattutto se l'Europa fosse portatrice, per tramite di esperienze realizzate in Italia, di una nuova visione dello Stato e dell'organizzazione sociale complessiva.
O i movimenti di alternativa riusciranno a pensare e ad agire parallelamente in modo italiano ed europeo, in modo che le soluzioni proposte e sviluppate in Italia siano in grado di alimentare anche il processo di cambiamento in Europa, oppure sia l'Europa che il nostro Paese diventeranno nuovamente terreno di scontro di forze etero-dirette, con il rischio di una frammentazione anche politica, secondo linee di faglia che qualcuno sta già chiaramente delineando, in Italia ed in Europa, e che attori interessati operano da tempo spregiudicatamente per favorire: basti pensare da una parte alle "tre Italie" ipotizzate per il nostro Paese, e, dall'altro, alla possibile divisione europea in "tre Europe" (centro-occidentale, mediterranea ed orientale) cui molti attori esterni si stanno applicando con energia.
Per restare unita, l'Italia deve lottare perché anche l'Europa resti unita. Per essere sovrana, l'Italia deve lottare perché anche l'Europa sia sovrana.
L'apporto dell'Italia
Può sembrare paradossale, ma proprio l'esperienza di crisi profonda del nostro Paese, contiene uno straordinario punto di forza per noi e per l'Europa: la debolezza della forma dello Stato-Nazione cui si accompagna una crisi generale delle "categorie del politico" in ogni loro declinazione (partiti, sistemi amministrativi, sistemi del welfare, democrazia parlamentare stessa), è particolarmente devastante in Italia. Ma è la stessa crisi che spiega anche il cedimento dell'Unione Europea alle logiche della globalizzazione finanziaria e dell'egemonia anglo-sassone. Questo perché è proprio la forma dello Stato nazionale moderno ed il concetto di politica affermatosi dal Cinquecento ciò che deve ora essere superato, per completare il processo di emancipazione dai retaggi medievali, mantenendo al centro la forza ideale della Patria come identità comune dei Popoli, secondo l'immagine mazziniana. È questo il passo ulteriore necessario per andare oltre le rivoluzioni "borghesi" che l'Occidente ha posto come modello al mondo intero; andare oltre per sviluppare in una dimensione più ampia e più elevata le fondamentali aspirazioni alla libertà spirituale, alla eguaglianza di diritti, alla fratellanza nei rapporti economici.
Le forme di organizzazione della comunità popolare vanno per questo ripensate completamente, e questo è il momento decisivo per farlo: l'evidenza della crisi parallela del sistema economico del capitalismo e dello Stato nazionale moderno offrono spunti chiarissimi per ripensare l'intero organismo sociale. Così come, per altri versi, occorre ripensare ai fondamenti stessi della cultura occidentale, la sua scienza, ad esempio, in rapporto alle esigenze della Terra in un mondo unificato; o la sua cultura giuridica che, ad esempio, romanisticamente imperniata com'è sulla proprietà privata, si rivela inadeguata ad affrontare la questione fondamentale della gestione dei "beni comuni" (commons).
L'Italia può e deve essere il luogo ideale di questo ripensamento, capace di portare al definitivo superamento delle "categorie del politico", imperniate come sono sul problema del potere invece che su quello dell'etica: è una visione oseremmo dire anti-politica dell'organizzazione sociale che può attuarne il superamento, dando nuova autonomia alle componenti essenziali dell'organismo sociale, quella culturale-spirituale, quella economica e quella di gestione della cosa pubblica. La sola via mediante la quale la democrazia possa ancora definirsi tale, sottraendo ai poteri forti, in grado di comprare o imporre mediaticamente il consenso, proprio i loro maggiori punti di applicazione nello Stato politico.
Il modello anti-politico che l'Italia è potenzialmente in grado di definire dovrebbe oggi indirizzarsi alle forze dell'economia reale, ad esempio, cercando di dare ad esse voce e forza istituzionale, superando le finte rappresentanze ancora gestite partiticamente; oppure, potrebbe seriamente lavorare per la nascita dal basso, di sistemi di istruzione sottratti agli ambiti del pubblico partiticizzato o del privato espressione dei poteri vaticano-massonici; infine, lavorando a livello di amministrazioni locali per creare nuove forme di gestione partecipata dei beni di valore collettivo.
Quello che in tal modo si potrà qui elaborare quale nuova forma di sovranità rappresenterà un elemento moltiplicatore di forze per l'indipendenza dell'Europa intera, agendo parallelamente nei due ambiti: pensiamo qui, come semplice cenno, all'importanza fondamentale che potrebbe avere l'affidare alle forze dell'economia reale (imprese, lavoratori, consumatori) il controllo sull'emissione di moneta.
Il metodo: allenarsi per gareggiare
Se la prospettiva corretta è, come crediamo, diversa da quella classicamente politica della presa del potere, essa va pensata, vissuta e condotta verso obiettivi diversi. Quello che serve prioritariamente è un lavoro di lunga durata sulle coscienze: informazione, formazione, educazione sono i livelli operativi sui quali occorre prima di tutto agire. Essi mirano ad allenare la coscienza di un popolo, a creare un consenso di opinione non imposto mediaticamente ma capace di tradursi in stili di vita e di pensiero – ridando in tal modo forze ideali profonde all'Italia ed all'Europa.
Il che non vieta affatto che possano e debbano verificarsi dei momenti, come dire, di gara, vale a dire momenti in cui le circostanze immediate, le esigenze concrete, possano richiedere di prendere parte attiva in quelle situazioni di svolta che il futuro potrebbe riservare, mettendo allora in pratica quello che si è appreso e sperimentato nell'allenamento quotidiano.
Non vi è dubbio infatti che la grave crisi del modello del capitalismo occidentale e le difficoltà in cui versano le forze dell'egemonia anglo-sassone potrebbero tradursi nei prossimi mesi e nei prossimi anni in eventi nei quali l'intervento di forze nuove potrebbe essere determinante per il mutamento. Lo spostamento della crescita economica dai Paesi occidentali ai Brics; lo spostamento dell'asse strategico mondiale dall'Atlantico al Pacifico, conseguente alla crescente affermazione di potenza cinese; la sempre più forte esigenza del controllo delle risorse energetiche, alimentari e ambientali a livello mondiale; la situazione di disintegrazione del mondo arabo-islamico determinata da oltre un ventennio di guerre e di conflitti interni; lo scollamento fra economia reale ed economica finanziaria, in un rapporto di uno a dieci – sono queste tutte realtà che richiedono alle classi dirigenti attuali, ben oltre la loro indubbia potenza tecnologica militare ed economica, una capacità immaginativa ed una forza morale che esse non sembrano proprio possedere.
Il nostro lavoro consiste quindi oggi nel creare precisamente, all'interno dei popoli europei, questa libera volontà, poiché riteniamo che nei nostri popoli esistano capacità spirituali che devono essere solo portate a coscienza e liberate, per tradursi, grazie all'impegno individuale di ognuno, in nuove forme di organizzazione sociale.
(1) G. Colonna, La resurrezione della Patria, Tilopa, Roma, 2004.
(2) D. Gilmour, "The End of Italy", Foreign Policy, 15 novembre 2011.
(4) C. Duggan, La forza del destino, storia d'Italia dal 1796 ad oggi, Laterza, Bari, 2008.
(3) D. Gilmour, "The end of Italy", cit.
(5) C. Duggan, La forza del destino, cit., p. 603.
(6) Ivi, p. 623.
(7) D. Gilmour, "The end of Italy", cit.
(8) C. Duggan, La forza del destino, cit., p. 674.
(9) N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1984.
(10) J. Monnet, Mémoires, Fayard, Parigi, 1976.
(11) G. Colonna, Medio Oriente senza pace, Edilibri, Milano, 2009.
Vabbè, parecchie chiacchiere per non dire niente. Tutti quelli che si riempiono la bocca di questa patria europea, di questa identità europea che non può far altro che esaltare l'identità Italiana tramite la sua dissoluzione, non spiegano mai in termini pratici come possa essere attuata una cosa del genere. Per me, questi concetti continuano ad essere semplici esercizi di neo-lingua, ed il discorso è sempre lo stesso: per diventare più Italiani dobbiamo smetterla di essere Italiani.
Non vedo come, impegnarsi per far regredire la nostra nazione ad una espressione geografica, possa risollevare le sorti della Nazione stessa. Qualcuno me lo spiega gentilmente in modo pratico una volta per tutte? Altrimenti, così tanto per spenderci in neo-lingua, anche io potrei affermare con tanti giri di parole che per rendere effettiva una vera identità europea, bisognerebbe dissolvere l'entità statuale di un'ipotetica nazione Europa, nella più ampia e potente Eurasia; tanto, scava e scava, un retaggio comune lo troviamo anche coi giapponesi e i tibetani, non solo coi tedeschi.
Sono d'accordo con Giuseppe
Leggendo queste scemenze si capisce perché la sinistra ha cessato di esistere.
L’unica idea sensata è quella attinente alla nascita dell’unione europea in coda all’impero statunitense.
A tal proposito bisogna ancora aggiungere qualcosa che viene dimenticato da tutti gli articolisti che criticano l’attuale mostro europeo: nel Novecento ci sono state non una ma tre idee di Europa unita, una per ciascun progetto egemonico portato avanti da una superpotenza essente o in fieri. La CEE a sovranità americana, il Comecon a sovranità sovietica, e il "grande spazio" perseguito dalla Germania nazionalsocialista. Nella storia le unioni di stati già formati ed aventi una lunga storia alle spalle sono sempre frutto di conquista.
Nella seconda parte, quella propositiva, si passa alle risate, non solo in rapporto ai contenuti, ma allo stile, con questo tono aulico che trascorre amabilmente fra reminiscenze storiche accuratamente selezionate, vagheggiamenti culturali ed ambizioni scollegate dalla realtà. In un momento atorico in cui si delineano le linee di demarcazione dei prossimi conflitti mondiali, e lo sfascio interno del sistema comincia ad incrinarne la macrostabilità, questi sognano la fine della politica e il reggimento etico del mondo… eh già, l’Anticristo liberista si rovescerà nell’avvento della Parusia.
Come si fa un “lavoro di lunga durata sulle coscienze” se i media, unico strumento di manipolazione degli umori del gregge, sono saldamente in mano al regime? Dove mai si è vista esistere una “libera volontà popolare”, oltre che nei florilegi degli scribacchini da redazione o da università? La sinistra (quella vera) fino agli anni settanta-ottanta ragionava in termini di guerra civile rivoluzionaria, di dittatura del proletariato, di intellettuali organici.
Quanto è caduta in basso…
I due storici stranieri presi come punti di riferimento, salvo che siano stati mal interpetati dal gruppo Clarissa, narrano una storia parzialissima. Non tengono conto del fatto che durante gli anni cinquanta, nel pieno della guerra fredda, il 90% delle leggi italiane furono approvate all'unanimità; che tra gli anni sessanta e gli anni settanta furono approvate al'unanimità o al massimo con l'astensione del pci che pretendeva di più le leggi che introducevano la riforme del fisco, il sistema pensionistico retributivo, il sistema sanitario nazionale, l'equo canone, lo statuto dei lavoratori. Dimenticano anche l'unità delle forze politiche contro il terrorismo rosso e nero (salvo quello legato ai servizi segreti, ovviamente). Dimenticano i trasferimenti ordinari e straordinari volti a creare coesione sociale dal nord al sud (che poi siano stati usati male, da imprenditori del nord e da politici del sud, è un'altra cosa). Dimenticano il sistema delle partecipazioni statali, che a lungo fu volano di uno sviluppo con ottimi risultati. Insomma, l'analisi muove da una "storia lagnosa" sulla quale ho già scritto un articolo e al quale rinvio i lettori che fossero interessati.
Dalla storia lagnosa, ossia da una storia narrata da depressi non può nascere alcuna proposta politica sensata.
In secondo luogo, l'analisi muove dalla idea, che è soltanto un desiderio dell'Europa come potenza politico-militare autonoma. Ma l'Europa non esiste e non è mai esistita. Una (unica) potenza politico militare autonoma presuppone uno stato europeo federale, che non è mai esistito e non è stato nemmeno perseguito. Segue che moltissime frasi sono prive di senso: "La comune perdita di indipendenza ed autonomia dell'Italia e dell'Europa, a seguito degli esiti della Seconda Guerra mondiale"; "la disgregazione dell'Europa"; "Il destino storico dell'Italia è collegato all'Europa almeno dal Quattrocento"; ecc. ecc..
Si ragiona come se l'Europa esistesse o sia esistita e non sia stata, invece, soltanto un'area geografica con una storia comune nel senso che i regnanti degli stati europei si alleavano con matrimoni e si scontravano con guerre.
La verità è che, come ha osservato Lorenzo, l'esperienza storica ci mostra che stati nazionali formati e con una storia sono stati unificati in un unico stato soltanto grazie a conquiste militari.
La verità è che se qualche folle tentasse un "golpe", costituendo un'europa federale, scatenerebbe guerre di secessione e civili che durerebbero anche un cinquantennio o un secolo! Le "buone intenzioni" sovente conducono all'inferno.
Le proposte per creare lo stato federale europeo (e un secolo di guerre civili e di secessione) fanno poi ridere i polli.
Che in Italia ci sia qualcuno che possa scrivere queste sciocchezze è dovuto soltanto al fatto che, a forza di narrare la storia lagnosa, si è generato un desiderio diffuso, un po' inconsapevole un po' celato, di commissariamento. Chi può credere che la Germania si lasci obbligare a partecipare a una guerra insensata, come quella contro la libia, perché una eventuame maggioranza, francese, spagnola e italiana è favorevole all'intervento? Come si fa a credere che il popolo tedesco o quello francese o quello olandese vogliano, in base a una decisione di maggioranza, perdere il proprio ministro degli esteri per uno “comune” il quale possa decidere di inviare in guerra cittadini tedeschi, francesi o olandesi?
L'unità o unificazione nelle quali spera Clarissa si realizza in un solo modo: con la conquista militare. Quando Clarissa riconosce l'inidoneità di processi politici coglie nel vero. Quando, anziché ammettere che sarebbe necessaria una guerra, crede utile agire sulle coscienze con "informazione, formazione, educazione" fa davvero ridere o piangere.
Anche gli Stati Nazionali sono nati da guerre di conquista, nessuno escluso, e ora le tendenze centrifughe riemergono. La crisi economica e finanziaria, la crisi di civiltà, lo sconvolgimento demografico prodotto dalle migrazioni, stanno creando le premesse per ridisegnare un'Europa molto diversa da come la conosciamo. L'obiettivo da porsi è uscire dalla sudditanza agli USA e dalla NATO, facendo di questa parola d'ordine il tema unificante dei movimenti che avranno un respiro continentale.