Scenari globali per il 2012: come sta cambiando il mondo
Quello che segue è il contributo del condirettore Daniele Scalea all’incontro “Scenari globali per il 2012“, svoltosi a Milano il 28 gennaio scorso. Forzatamente assente per motivi di salute, il dott. Scalea ha affidato un intervento scritto a Orazio Maria Gnerre, organizzatore dell’evento, che gli ha prestato la sua voce. Fisicamente presente invece il dott. Enrico Verga, ricercatore associato all’IsAG, che ha pronunciato una sua relazione sull’argomento terre rare e quindi dibattuto lungamente col pubblico, molto partecipe, su una gran varietà di temi. Per essere costantemente aggiornati sugli eventi che coinvolgono l’IsAG e Geopolitica invitiamo a consultare regolarmente il sito dell’Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie [clicca].
Non si può parlare di scenari globali per il 2012, senza partire da quanto accaduto nel 2011. Inutile dire che l’anno scorso sarà ricordato come quello delle rivolte arabe. Vi sono due prospettive da cui si può osservarle: una interna ed una esterna.
Dall’interno, è evidente che nel mondo arabo si era giunti ad un punto di rottura causato da squilibri socio-economici, ma anche da tensioni politiche. La tensione fondamentale è quella tra le ideologie, i partiti ed i governi cosiddetti “laici” (un termine che nel mondo islamico non può avere lo stesso significato che da noi) ed i loro corrispondenti religiosi. I laici hanno egemonizzato il panorama arabo, e musulmano in genere, nell’epoca post-coloniale (malgrado significative eccezioni come l’Arabia Saudita wahhabita). Ma non hanno mantenuto le loro promesse: non hanno conseguito l’unità araba, non hanno realizzato il socialismo o comunque il progresso economico, non hanno saputo affrontare Israele. Nel corso dei decenni hanno finito per degenerare in regimi piccolo-nazionali, auto-referenziali e cleptocratici. Sullo sfondo, si è avuta l’ascesa degl’islamisti, già resa evidente alcuni anni fa dalla vittoria elettorale di Hamas in Palestina – o ancora prima dalla Rivoluzione Islamica in Iran, o dalla diffusione delle madrasse wahhabite nel mondo.
Dall’esterno, non si può ignorare l’ingerenza delle grandi potenze, su tutte gli USA. È vero che gli USA erano gli sponsor principali di gran parte dei regimi arabi, ma pure che nel contempo si erano insinuati nelle società civili di quegli stessi paesi, finanziando e manipolando gruppi e movimenti d’opposizione. È lo schema delle “rivoluzioni colorate”, che vede all’opera sedicenti ONG statunitensi – capeggiate dal National Endowment for Democracy – e vere e proprie agenzie federali di Washington, come USAID. Sarebbe semplicistico ridurre le rivolte arabe a rivoluzioni colorate, ma sarebbe ingenuo ignorare anche questa dimensione esogena. Ancor più evidente è il ruolo degli USA e d’alcuni loro alleati nella destabilizzazione di paesi come la Libia e la Siria.
Il ruolo perturbatore di Washington nella regione è un segnale di forza e di debolezza nello stesso tempo. È un segnale di forza perché ha dimostrato di poter ancora incidere sulle dinamiche regionali. È un segnale di forza perché, destabilizzando l’area, si creano infiniti casus belli potenziali per intervenire militarmente, laddove lo riterrà opportuno, sulla scia del modello Libia, col pretesto del R2P (“diritto di proteggere”). È un segnale di debolezza perché Washington si affida in maniera crescente agli alleati subalterni, dalla Francia alla Gran Bretagna alla Turchia: un po’ come fece dopo il Vietnam, nel momento difficile cerca d’appoggiarsi sulle medie potenze come stampelle delle sua egemonia. È un segnale di debolezza perché ha comunque dovuto accettare il cambiamento nella regione, anche a costo di scontentare Arabia Saudita e Israele (seppur solo parzialmente), ed anche a rischio di creare, nel cuore del mondo musulmano, un blocco compatto di paesi controllato dai Fratelli Musulmani (che potrebbe presto estendersi dalla Tunisia alla Giordania, dalla Turchia al Sudan, passando per Libia, Egitto e Siria).
Ma è un segnale di debolezza, soprattutto, perché destabilizza una regione prima di ridurne il peso nella propria equazione strategica. Non c’è la forza di lasciare un “Grande Medio Oriente” stabile e rigidamente filo-atlantico, e perciò si ricorre alla “geopolitica del caos”. Nella fattispecie, si mira a creare uno scontro insanabile tra sunniti e sciiti, ed un reciproco bilanciamento tra Turchia, Iran, Arabia Saudita e fors’anche Egitto (una situazione che metterebbe al sicuro pure Israele).
Il recente riesame strategico annunciato da Obama, infatti, prevede non solo quella che Jalife-Rahme ha definito “deglobalizzazione militare” – per l’appunto, la riduzione delle guarnigioni ed armate USA nel mondo, ma anche la loro rilocalizzazione nella regione Asia-Pacifico. Oltre alla difficoltà di mantenere una presenza militare globale, vi sono due motivazioni dietro questa decisione. La prima è il probabile declinare del peso strategico di Nordafrica e Vicino Oriente nei prossimi decenni. Negli USA si stanno trovando grosse riserve di gas e petrolio di scisto: allo stato attuale sono difficili da sfruttare appieno, ma con una serie di progressi tecnologici potrebbero garantire al paese la piena autosufficienza energetica. Tanto più che pure le riserve d’idrocarburi del vicino e fidato Canada sono costantemente riviste al rialzo: l’Artico potrebbe divenire un nuovo perno geostrategico. La seconda considerazione, ovviamente, è l’ascesa della Cina, che Washington spera di contenere controllando i “choke points” (come lo Stretto di Malacca) da cui giungono i vitali approvvigionamenti per Pechino, ed appoggiandosi all’India ed al Giappone come contrappresi locali alla potenza cinese.
Ma il contenimento della Cina passa anche per l’Africa. Negli ultimi anni Pechino è stata protagonista di una profonda e capillare penetrazione economica nel continente nero, basata su rapporti commerciali, prestiti ed aiuti giudicati più equi rispetto a quelli occidentali. La NATO ha risposto con l’istituzione d’un comando militare ad hoc, AFRICOM, e con una politica aggressiva. L’attacco alla Libia, grande sponsor dell’Unione Africana, va guardato nel contesto del contemporaneo intervento armato francese in Costa d’Avorio, della secessione del Sud Sudan dalla Khartum filo-cinese, e dei bombardamenti dei droni statunitensi in Somalia. Gli atlantici vogliono riprendersi l’Africa con la forza.
Perché la Cina fa così paura? Militarmente è ancora indietro rispetto agli USA, soprattutto in termini di capacità offensiva (o “proiezione di potenza”, come si dice oggi eufemisticamente), ma sta facendo passi da gigante. È riuscita a sviluppare una sua portaerei ed un suo aereo stealth: basi “qualitative” per una successiva espansione “quantitativa”. Ma è soprattutto economicamente che Pechino fa paura a Washington. Tutti sanno che la Cina cresce a ritmi forsennati e pare destinata a superare gli USA; ma l’utilizzo dell’ingannevole PIL nominale porta a credere che questo sia un evento ancora relativamente lontano nel tempo. Non è così. Il PIL a parità di potere d’acquisto della Cina nel 2010 equivaleva al 70% di quello statunitense. Stiamo parlando d’una differenza di poco più di 4000 miliardi di dollari internazionali: nello scorso decennio Pechino ne ha recuperati 2500 circa a Washington. In questo sarà ancora più rapida, perché la crisi morde gli USA più della Cina. Malgrado le fosche previsioni su un drammatico rallentamento della crescita cinese dovuta all’esplodere della bolla immobiliare nel paese, i dati continuano a confermarsi rassicuranti. Secondo l’economista Attilio Folliero, è questione di attendere 5 o 6 anni appena per avere il sorpasso del PIL cinese su quello statunitense.
Un’altra tendenza rafforzata dalla crisi finanziaria del 2008 è la regionalizzazione economica. Gli ultimi mesi hanno visto la nascita dell’Unione Eurasiatica, del CELC e dell’UNASUR, organismi che mirano all’integrazione rispettivamente dell’ex URSS, dell’America Latina e del Sudamerica. Si potrebbe includere l’Unione Africana, ma dopo la morte di Gheddafi è claudicante. E l’Unione Europea, capostipite degli organismi integrati regionali, sembra sul punto d’implodere.
La tendenza alla regionalizzazione è qualcosa che già si sperimentò dopo la grande crisi precedente, quella del 1929; ed anche dopo quella ancora precedente, del 1873. La crisi economica del 1873 inaugurò la cosiddetta “età dell’imperialismo”, in cui le grandi potenze cercavano di crearsi propri imperi coloniali parzialmente chiusi ai commerci ed investimenti altrui. Negli anni ’30 del secolo scorso, la Germania creò un sistema economico chiuso, fondato sul baratto internazionale, in Europa Centro-Orientale; proprio mentre Francia e Gran Bretagna ingrandivano i propri imperi e il Giappone proponeva una “sfera di co-prosperità asiatica”. Oggi, oltre alla nascita di organismi regionali integrati, vediamo molti paesi cominciare a compensare i propri scambi non più attraverso il dollaro, ma le valute nazionali: è il caso di Russia e Cina o Cina e Giappone. Si tratta di un brutto guaio per gli USA, che devono molta della loro potenza a quella che Henry Liu ha definito “l’egemonia del dollaro”. Dopo Bretton Woods, hanno legato la propria moneta al petrolio, riuscendo a mantenerla come valuta di riserva internazionale senza nemmeno avere più la scocciatura della convertibilità aurea. E così hanno potuto, e possono, stampare carta e distribuirla al mondo in cambio di merci reali.
Corsi e ricorsi storici. Non è quella della regionalizzazione economica la sola analogia tra l’oggi ed il post-1929. Oggi come allora, vediamo una crescita del ruolo dello Stato nell’economia. Ma oggi come allora, con diverse modalità e diversi risultati. Alcuni paesi, come la Cina (e per certi versi gli USA) oggi, o la Germania e l’URSS allora, puntano su politiche espansive che, quando non rilanciano l’economia, quanto meno la sorreggono. Altri, come l’Unione Europea, scelgono invece politiche depressive. Lo Stato non interviene per dare spinta e liquidità all’economia: interviene invece per prendere liquidità, tassando i produttori per redistribuire il denaro ai grandi rentier (nella fattispecie, banche e fondi). Nel post-1929 questa politica miope e corporativistica portò alla grande depressione. Che il 2012 sarà un anno di recessione per buona parte dell’UE, ormai è conclamato.
Il 1929, tra l’altro, ci dà un’altra lezione. Ossia che il peggio non arriva subito. Wall Street crollò nell’ottobre 1929, ma la bancarotta della Creditanstalt (l’evento che davvero fece precipitare la situazione) data al 1931. Il crollo di Wall Street è di fine 2008, ma sembra che il peggio stia arrivando solo ora, nel 2012. Forse ci si era illusi sperando che l’odierna Creditanstalt sarebbe stata la Lehman Brothers, con le conseguenze tutto sommato miti sull’economia globale (se la si paragona a quanto accaduto ottant’anni fa).
È proprio vero il detto che chi non conosce la storia, è condannato a ripeterla. Sembra d’assistere ad una riedizione degli eventi post-1929. E vogliamo dirla tutta? Il 1929 sfociò alfine nella Seconda Guerra Mondiale. Consiglio ai nostri dirigenti di studiare la storia, prima che sia troppo tardi per non doverla ripercorrere fino in fondo…
* Daniele Scalea è condirettore di "Geopolitica" e segretario scientifico dell'IsAG. È autore de La sfida totale e co-autore di Capire le rivolte arabe.
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