«Gli ideologi ufficiali della Nuova Comunità Europea prevedevano una rapida unione economica e monetaria, che conducesse ad uno Stato politico comune. Il grande processo capitalistico di integrazione, avviato negli anni '50, avrebbe prodotto gli Stati Uniti d’Europa ben prima della fine del secolo. In questa unificazione –insistevano i visionari– i temibili antagonismi del secolo precedente sarebbero stati sconfitti definitivamente. Una pacifica Europa post-nazionalista costituiva sempre la parte più forte delle loro argomentazioni.
Dall’altra parte, questa nuova Europa borghese fu sfidata da una nuova generazione di rivoluzionari. Ma, inevitabilmente, nel nome di una concezione non meno universale. La nuova sinistra anarchica e comunista che raggiunse la sua vetta più alta di militanza nel 1968 e 1969 prevedeva una rivoluzione sociale: il rifiuto di massa del consumismo e del capitalismo, non una crisi del sistema di stati nazionali. Che la rivoluzione scoppiasse in un punto o in un altro, avrebbe avuto valore universale, e quindi si sarebbe diffusa in Europa (almeno) con relativa rapidità. Per una strana coincidenza, il lato millenarista del movimento concordava con gli oppositori capitalistici. In termini di slogan, era fin troppo facile inserire la parola 'Socialisti' negli Stati Uniti d’Europa in formazione e ritenere che la rivoluzione da sola avrebbe potuto far avverare il sogno.
La storia ha tuttavia il potere di smentirci tutti. Certamente essa ha messo in imbarazzo gli avanguardisti dell’unità europea. Dopo la scomparsa di De Gaulle il processo non è andato avanti più facilmente; esso è affondato in sempre maggiori difficoltà, quando le classi di governo europee hanno affrontato il problema di collaborare in un più severo clima economico, e contro la più definita opposizione degli Stati Uniti. Tuttavia queste difficoltà hanno contribuito poco a favorire la sinistra rivoluzionaria. Sono le varie forme di riformismo nazionale, alcune guidate dai social-democratici, altre dai Partiti Comunisti, che hanno effettuato una certa e limitata avanzata dopo il 1970. Questo movimento è abbastanza esitante ed incerto sui propri fini e le proprie possibilità; ed è rimasto in gran parte limitato alle strutture dei vecchi stati nazionali. In altre parole, esso rimane legato al 'socialismo in un solo paese'. Ma quale paese? Questa domanda è diventata altrettanto importante dell’altra: quale socialismo? I profeti del capitalismo e della rivoluzione sono rimasti altrettanto confusi al riguardo. Ciascuno mirava a qualche forma di trascendenza dello stato-nazione, ad un più alto livello; nessuno pensava che esso potesse regredire ad un livello apparentemente più basso. Si pensava che sarebbero state le corporazioni multinazionali o i socialisti rivoluzionari a suonare la sua campana a morto, non gli insorti nazionalisti».
Fin qui l’analisi di Nairn ("Crisi e neonazionalismo", Liguori); che ci dice ad un tempo molte cose: come la tendenza al superamento delle 'barriere' nazionali tradizionali sia connaturata al capitalismo; come la lotta anticapitalistica che si fonda esclusivamente sul socialismo rivoluzionario e la dimensione internazionalista della lotta di classe si rivela perdente; come la rivendicazione 'nazionale' sia oggi la più efficace a contrastare le tendenze cosmopolite del capitalismo e a metterne in discussione le stesse basi attuali. È d’altra parte altrettanto vero che la prospettiva 'nazionale', di per sé, può risultare parzialmente efficace, se priva di incisività su un altro versante strutturale del capitalismo, e cioè lo sfruttamento di classe. Ne consegue che dall’incontro delle due diverse prospettive può scaturire il massimo dell’efficienza politica per la lotta al sistema capitalistico. Un incontro, un’alleanza che è peraltro quanto mai attuale e naturale.
Questo perché la tendenza 'mondialista', denazionalizzatrice, del capitalismo contemporaneo, colpisce direttamente ed in misura crescente gli interessi delle classi lavoratrici. Infatti, mentre «il capitale e i capitalisti fuggono, emigrano, si 'mondializzano', chi resta qui, nella nazione? In primo luogo il lavoro perduto, i salariati licenziati, i cassintegrati, i disoccupati e quelli che non troveranno mai occupazione, gli 'inoccupabili', la cosiddetta 'popolazione eccedente'; essi non hanno nemmeno più come un tempo la possibilità di essere venduti sul mercato mondiale del lavoro, perché l’offerta di lavoro è esuberante ovunque; dovranno restare per forza all’interno dei confini fisici della Patria; in secondo luogo gli operai e gli impiegati che difendono disperatamente il lavoro che ancora hanno e lottano contro gli effetti perversi della 'razionalizzazione' e della deindustrializzazione, contro la chiusura selvaggia delle fabbriche e delle imprese; in terzo luogo, gli artigiani, i piccoli industriali, gli imprenditori e tutti coloro che senza certezze di alcun genere impegnano contemporaneamente, in Italia, il proprio lavoro e le proprie risorse economiche e si dibattono in balìa delle conseguenze delle costrizioni del sistema economico mondiale, del suo caos permanente, degli effetti della concorrenza senza regole, dell’incertezza degli sbocchi esterni, delle difficoltà di finanziamento, dell’enormità del costo del denaro, dell’altalena incontrollata delle monete, della dittatura del dollaro. Qui si materializza l’essenza costituzionale della patria, l’idea moderna di Nazione» (F. Gaja, «Urge una nuova definizione della nozione di "interesse nazionale"», in: Maquis/dossier, n. 1). È chiaro quindi che proprio la difesa degli interessi particolari di classe deve spingere i lavoratori ad assumere la portata nazionale dello scontro –intesa come rilevanza e caratterizzazione nazionale della conflittualità tra interessi di classe e tendenze internazionalizzatrici e "mondialiste" del capitalismo. Si rende perciò necessario il superamento dei pregiudizi 'anti- nazionalisti', che hanno trovato storicamente la loro ragion d’essere in una fase in cui –diversamente da oggi– il nazionalismo veniva utilizzato strumentalmente dall’ideologia capitalista, e dunque da questa risultava condizionato. Perché «il nazionalismo (…) non è una questione di semplice identità (come spesso si pensa). Essere diversi dagli altri, avere una fisionomia riconoscibile e articolata sono condizioni necessarie ma mai sufficienti per il suo sviluppo. La condizione sufficiente, il catalizzatore, è qualcosa di più (…) Il mito mobilitante del nazionalismo consiste in un’idea del popolo. Questa non deve essere confusa con un concetto astratto, per es., del valore della classe operaia. Deve essere una nozione, concreta, emotiva, ancorata all’esperienza e al folklore popolare. Quest’idea delinea la (…) autonoma iniziativa del popolo: la rivoluzione, il rovesciamento dell’oppressione straniera, la guerra di liberazione» (T. Nairn, ibidem). Ciò perché una sperequazione economica e sociale, anche spaventosa, determina sì una reazione 'di classe', ma «il conflitto di rado diventerà feroce o si intensificherà all’infinito, contrariamente alle previsioni marxiste, a meno che i privilegiati e gli altri non possano identificare se stessi, e identificarsi reciprocamente in termini culturali» (E. Gellner, Nazioni e nazionalismo, Ed. Riuniti). La lotta dei lavoratori neri sudafricani è, da questo punto di vista, paradigmatica.
La questione nazionale assume ovviamente una diversa rilevanza secondo il contesto specifico, la natura dei rapporti internazionali in cui viene ad inserirsi. Ovviamente, diversa è la rilevanza della questione nazionale, ad es., in Irlanda od in Corsica –che sono a tutti gli effetti delle colonie– da quella che può avere, per rovesciare l’esempio, in Gran Bretagna e Francia. ma la diversità non consiste nell’esistenza o meno della 'nazionalità' (e quindi della sua attualità e valenza politica), quanto nel diverso 'peso' che essa assume nella prospettiva della lotta politica.
Tanto per rimanere ad uno degli esempi citati, e che viene convenzionalmente ritenuto il caso più esemplare in Europa, ovvero l’Irlanda, l’analisi sviluppata dal movimento repubblicano dai primi anni '70 in poi (cioè da quando –liberandosi dalla 'cappa' costituita dalla dirigenza 'stalinista' con la 'scissione' Provisional– ha cominciato una 'lunga marcia' dalle posizioni del nazionalismo borghese a quelle di un socialismo popolare irlandese) ha identificato con notevole precisione proprio nel 'Free State', nella repubblica del sud, la vera e migliore colonia di Londra. Questa è la riprova che la natura coloniale di una nazione non è strettamente legata a forme palesi di dipendenza; la presenza di un esercito occupante, così come l’esistenza di forme di governo 'dipendente', costituiscono certamente la riprova di uno status coloniale, ma questo non è assente in assenza di tali elementi di riprova. Da un punto di vista politico, il punto è dunque quanto incide (quanto deve incidere) nella lotta politica il grado di evidenza dello status coloniale. Il quesito da sciogliere, al riguardo, sarebbe: quanto –e come– incide l’esistenza sostanziale di un rapporto di subordinazione e dipendenza? Se è giusto, com’è giusto, lottare per abbattere un rapporto di subordinazione tra classi, per giungere ad una pari dignità tra lavoratori, a prescindere dalle capacità di ciascuno, altrettanto giusto è battersi per un rapporto paritetico tra le nazioni del mondo, senza cioè che la maggior forza di una venga esercitata a danno delle altre. E se quest’esigenza è tanto più valida quando l’oppressione di classe è dissimulata, altrettanto si può e si deve dire per l’oppressione imperialista.
Rivendicare la piena e completa indipendenza nazionale non è una questione che si esaurisca negli aspetti formali delle istituzioni politiche, ma che deve incidere sui piani sostanziali, quelli che davvero hanno valore di identificazione per quanto attiene la natura dei rapporti internazionali.
Appare comunque evidente che porre nella giusta rilevanza la questione nazionale non significa sottovalutare altri aspetti della dinamica politica, né tantomeno affermare diritti di predominio 'etno-culturalmente' giustificati. Non si tratta di mettersi in concorrenza con l’imperialismo o di dar vita a forme di sub-imperialismo (è quello che invece fanno i governi dipendenti d’Europa), né tantomeno di cercare in un confronto inter-nazionale il compattamento sociale necessario a mantenere la divisione di classe all’interno; questi sono sicuramente dei rischi connessi al perseguimento di un progetto politico di rivendicazione nazionale (peraltro legati alla natura socio/politica di chi dirige la lotta), ma anche l’affogamento è tra i rischi del nuoto: non per questo si rimane a riva a guardare.
Non si tratta nemmeno di perseguire l’obiettivo del 'socialismo in un solo paese', perché l’esperienza storica insegna che questo non può sopravvivere autarchicamente nel 'mercato mondiale'. Ma sicuramente, dovendo abbandonare l’utopia della rivoluzione socialista mondiale, che esplode più o meno contemporaneamente ovunque, e dovendo comunque 'ripiegare' realisticamente sulla lotta per il socialismo nel proprio paese –come primo passo– ciò vuol dire che dovremo intendere la dimensione nazionale come un 'confine culturale', come il 'limite' di un’identificazione collettiva, ma non come una barriera. Realizzare la liberazione della nazione costituisce un passo verso la liberazione di tutti coloro che la compongono, ma non, di per sé, la realizzazione piena di questo obiettivo. Occorre quindi, di sicuro, che ad essa faccia seguito la liberazione degli oppressi della nazione –e, se ve ne sono, dalla nazione.
Riconquistare indipendenza nazionale significa muoversi nell’unico modo –e nell’unico senso– possibile per giungere concretamente alla riconquista di una 'possibilità di socialismo'. La liberazione nazionale è la conditio sine qua non della rivoluzione. Le due cose possono darsi contemporaneamente, laddove le condizioni storico/politiche lo consentono, ma non può esserci rivoluzione senza libertà nazionale.
C’è un legame inscindibile tra popolo e nazione, anche se «il nazionalismo è stato troppo spesso identificato con il sentimento di lealtà verso uno Stato, invece che verso un popolo e un territorio» (A. Melucci/M. Diani, Nazioni senza stato, Loescher); infatti «l’avvento del nazionalismo in senso specificamente moderno fu legato al battesimo politico delle classi popolari. Il loro ingresso nella storia fornì un’essenziale condizione preliminare per la trasformazione della nazionalità in un fattore centrale e determinante. E questo perché (…) i movimenti nazionalisti sono stati immancabilmente populisti nelle prospettive e hanno tentato di introdurre le classi popolari nella vita politica. (…) Quando è stato vincente –e naturalmente, nonostante vi siano implicati molti altri fattori e l’ideologia nazionalista abbia sempre esagerato il suo ruolo, esso è stato nella maggior parte dei casi vincente– questo ruolo positivo è stato determinante nelle storie politiche successive di tutte le società. Esso spesso ha determinato il mito chiave dello sviluppo politico seguente. Come sua principale caratteristica, questo è forse il mito della rivoluzione popolare o della lotta di liberazione nazionale –un modello di azione popolare e di coinvolgimento di massa che minaccia lo Stato e che si è rinnovato ripetutamente durante le ultime generazioni» (T. Nairn, ibidem).
Sulla base di queste considerazioni, si può affermare che la rivendicazione di carattere 'nazionalitario' non costituisce affatto, di per sé, una pericolosa manifestazione di sciovinismo, di interesse esclusivo per le classi dominanti, di imperialismo in pectore. Ciò tanto più oggi, che le classi dominanti 'nazionali' dimostrano sempre più di considerarsi ed essere un’unica classe sovranazionale, e che le tendenze economiche e politiche espresse da quest’oligarchia-senza-patria puntano decisamente verso l’abbattimento di qualsiasi frontiera (persino di quelle doganali, che essa stessa ha in passato voluto).
Rivendicare la propria identità è, oltre che una primaria esigenza dell’uomo, indispensabile a stabilire rapporti equilibrati con gli altri. E questo vale tanto più a livello di collettività. Per questo motivo non sarà mai possibile costruire un sistema di rapporti inter-nazionali giusto ed equo senza che, prima, le singole nazioni abbiano raggiunto la propria, reale, indipendenza.
Indipendenza
(* estratto dal documento fondativo di Indipendenza. Spunti di riflessione per una lotta di sovranità, indipendenza, liberazione)
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Questa è l'esplicazione di quanto andavo ripetendo già al liceo:
"Senza patria non esistono rivoluzioni".
Detto ciò, proporrei uno spunto di riflessione riagganciandomi ad un libro di antropologia letto qualche tempo fa (di cui ora proditoriamente non ricordo nè titolo nè autore), in cui si enucleava il concetto della forza dei simboli nel veicolare il riconoscimento identitario di popolo e nazione. Partendo da ciò, mi piacerebbe sapere, un po' per celia, ma non troppo, quanto auspicabile sia la proposizione di un Tricolore rivoluzionario, di una nuova bandiera nazionale che aiuti a coagulare tutte le nuove forze di cambiamento che nascono ed inevitabilmente nasceranno nei mesi a venire, tutti i patrioti rivoluzionari decisi ad impegnarsi sul fronte comune della lotta di liberazione del Popolo e della Nazione Italiana.
Esiste un libro, poco noto in Italia, scritto da Milton Friedman, pubblicato in America nel lontano 1962 (in traduzione italiana nel 1967), che non è un testo economico – o più specificamente un trattato di economia monetaria, data la specializzazione dell’”anima nera” liberalcapitalistica Friedman. Questo libro è Capitalism and Freedom (Efficienza economica e Libertà, nell’edizione italiana di Vallecchi) ed è il primo e il vero manifesto politico della classe globale e la “bibbia” di quello che io chiamo il Nuovo Capitalismo finanziarizzato del terzo millennio.
Nel citato libro il liberismo selvaggio oggi imperante, il mercato, il liberalcapitalismo antisociale, vanno sotto il nome di “capitalismo concorrenziale” e lo Stato, nonché il governo, che per Friedman si identificava in modo particolare con l’amministrazione federale americana, diventa un nemico dichiarato dei liberali. Un nemico da combattere e da ridimensionare fino a ridurlo al lumicino. Il mercato autoregolantesi, per contro, è visto da Friedman come garanzia di efficienza economica e di democrazia(!).
Non ci si deve stupire, quindi, che dopo la comparsa della nuova classe dominante globale (che ha sostituito la borghesia) quale agente neocapitalistico, dopo l’affermazione di un nuovo modo storico di produzione (diverso dal capitalismo del secondo millennio) e dopo l’ulteriore e decisiva estensione dei mercati (globalizzazione neoliberista), lo stato-nazione è stato progressivamente ridimensionato nelle sue competenze e nella sua importanza, ed assoggettato al controllo di organismi sopranazionali che rispondono direttamente alla classe globale neodominante.
Alla luce di quanto sta accadendo nel nostro presente, in relazione al prevalere del Mercato sullo Stato ed alla riduzione dell’autonomia e delle competenze dei “governi”, possiamo affermare che mezzo secolo fa l’estremista liberale Milton Friedman è stato addirittura profetico, e il suo “consiglio” di indebolire lo stato, limitandone attività e funzioni con il fine del rafforzamento del libero mercato, è stato pienamente accolto dalle nuove élite globaliste.
Questo processo di “demolizione” dello stato-nazione e di esproprio della sovranità politica e monetaria è oggi particolarmente evidente in Europa, che probabilmente costituisce un utile banco di prova per un futuro “governo mondiale” neocapitalistico. Si vedano le azioni demolitorie, e di “apertura al mercato”, del governo fantoccio di Monti/ Napolitano/ Draghi in Italia.
Stato-nazione dotato di sovranità assoluta, nel cui quadro può essere esaltata la socialità e possono essere efficacemente perseguiti gli interessi vitali della popolazione, e libero mercato globale sono totalmente incompatibili, anzi, sono opposti. O si distrugge progressivamente lo stato (e con lui la socialità) o si distrugge il libero mercato globale, che è la linfa vitale delle élite neocapitalistiche (la classe dominante globale). Si tratta, in poche parole, di un aut-aut, e chi sostiene l’autonomia e l’indipendenza dello stato-nazione, nonché l’assoluta prevalenza della politica sul mercato (all’estremo opposto di Friedman), non può che combattere, in un confronto mortale che non fa prigionieri (due combattono, uno vive), il liberalcapitalismo, la liberaldemocrazia, il libero mercato globale e, nel nostro caso, la falsa Europa dell’unione. Se vi è stata possibilità di compromesso fra lo Stato e il Mercato (ma quello più limitato ed ancora subordinato alla politica) nel secondo millennio, nel secondo dopoguerra in cui vigeva un altro ordine, oggi questa possibilità non c’è più.
Prescindendo da arcinote bestialità liberlali-liberiste come la “società aperta” dell’infame Popper, possiamo però affermare che la cosiddetta società di mercato per sua natura deborda dai confini dello stato-nazione e colonizza gli ampi spazi, estinguendo la socialità.
Per combattere questo capitalismo, la società di mercato, la classe globale e i suoi servi-stragisti sociali demolitori dello stato (Monti, Napolitano, Draghi, Papadimos, eccetera, eccetera) non si tratta di resuscitare il nazionalismo otto-novecentesco, che essendo un'ideologia dell’altro secolo potrebbe essere resuscitata soltanto in battaglie di retroguardia, ma si tratta di riaffermare la piena sovranità, politica e monetaria dello stato-nazione, pur in un quadro complesso di interdipendenze economiche planetarie. La sovranità nazionale non è incompatibile con la coscienza sociale. Non è vero che la sovranità nazionale è “di destra”, mentre la coscienza sociale è “di sinistra”, perché le due procedono insieme, di pari passo, e se si demolisce la sovranità nazionale, riducendo le competenze e i poteri effettivi dello stato, togliendo ai governi la decisione strategica, degrada anche la socialità, fino ad estinguersi. Lo possiamo osservare chiaramente in Italia, in cui questo processo, largamente imposto dall’esterno, di esproprio della sovranità nazionale e di estinzione contestuale della socialità è in corso già da un ventennio. Gli attacchi allo stato sociale ed al lavoro sono possibili soltanto se lo stato nazionale scivola in posizione totalmente subordinata rispetto ad entità sopranazionali globaliste, che esprimono il vero governo.
Se poi si vuole usare l’espressione “nazionalitario”, per indicare chi si batte contro la globalizzazione, l’esproprio di sovranità nazionale e la dittatura globalista-neocapitalistica e liberldemocratica, anziché ricorrere ad altre espressioni, si faccia pure, perché, per quanto affermato in precedenza, rivendicando la propria identità si difende lo stato-nazione, si rivendicano la socialità, l’equa distribuzione del prodotto, e il diritto ad un lavoro stabile e dignitoso.
Saluti
Eugenio Orso
La differenza tra patriottismo (democratico) e nazionalismo (imperialista) era già stata spiegata benissimo due secoli fa dal grande Mazzini. Non vi è alcuna contraddizione tra patriottismo e "rivoluzione" (di qualsiasi tipo, anche socialista), a maggior ragione in tempi di globalizzazione capuitalista. Sarebbe però interessante capire perchè in questi anni molti movimenti indipendentisti europei (Lega Nord in testa) adottino invece un modello nazionalista/conservatore/simil-fascista
Domanda importante: perché i movimenti indipendentisti europei hanno adottato un modello nazionalista conservatore simil fascista?
Nella Lega non ritrovo molti tratti del fascismo, salvo un certo razzismo, che inizialmente era rivolto verso i meridionali (e dunque era incompatibile con il fascismo): dovè il controllo pubblico dell'economia? Dov'è una classe politica colta come quella che ebbe il fascismo? Dov'è l'esaltazione dell'esercizio fisico e della guida pubblica all'esercizio fisico? Dov'è il tentativo di resistere ad alcuni rischi connessi alla legittima e sacrosanta avanzata delle masse, mantenendo una scuola pubblica severa e difficile? Dov'è la volontà di indipendenza dagli Stati Uniti (c'era ma è andata scemando)?
Quanto a conservatore, oggi non so cosa significhi questo termine. E perciò lo lascerei da parte.
Quello della lega è stato un indipendentismo (di una parte dell'Italia dall'Italia) di tipo liberale e globalista. La spiegazione è abbastanza semplice. Tutti siamo vissuti all'interno del paradigma liberale e globalista. Persino Bertinotti una volta dichiarò di essere un "comunista liberale"! Io, con rammarico, devo ammettere che nel 1993 (mi sembra) ho firmato per i referendum maggioritari. Soltanto nel 1998 sono rinsavito. Anche io ho preso la bambola liberale. Il crollo dei regimi dell'est, da questo punto di vista, è stato determinante. Controllo pubblico dell'economia, organizzazione, promozione, protezione e disciplina dell'attività economica sono diventati tabù. Senza utilizzare e applicare questi concetti, non ci può essere socialismo, neanche nella variante socialdemocratica e più in generale non si possono ridurre le disuguaglianze e perseguire la giustizia sociale. Senza quei concetti c'è soltanto la libertà d'impresa e la concorrenza. E la voglia di indipendenza è motivata soltanto da pretesi trasferimenti di ricchezza che una parte del territorio subirebbe nonché da "furti" da parte di "Roma Ladrona"
E' questa la ragione per la quale il nostro avversario ideologico è il paradigma liberal-globalista-concorrenziale.