Frammenti di religione
di Sergio Quinzio da Religione e futuro, 1962, proposta da SD’A
6. Il mondo ha ucciso tutte le cose pesanti e forti: l’odio l’amore il sesso la gloria la vendetta. Siamo finti. A forza di fingere, la nostra finzione è diventata la nostra vera natura e non nasconde più nulla. Non ha neanche più la tensione implicata nel camuffamento. Per questo, nel teatro sono scomparse le maschere e stanno scomparendo le scene.
12 La suprema tragedia è nell’attuale impossibilità di fare distinzioni precise, di prendere posizione alla luce del sole. Finché sussiste la possibilità di una netta separazione, il giusto fra gli ingiusti, l’illuminato fra i tenebrosi, il bene di fronte al male, siamo nell’epica, non nella tragedia. La tragedia è confusione, tutto è mischiato, e questo miscuglio caotico è il destino che deve esplodere. Se ci fosse una bandiera spiegata, fosse pure quella della disperazione e della morte, sarebbe una cosa meravigliosa. Ma oggi che manca tutto, proprio oggi non basta nulla. La suprema unità è al di là della suprema complicazione.
16 Le massime religioni negano Dio, come il buddhismo, negano l’immortalità dell’anima come l’ebraismo, negano cioè proprio quelle cose in cui si fa consistere la religione. Non esistono “esigenze terrene” ed “esigenze spirituali”: le seconde sono soltanto una astratta cristallizzazione del sacro autentico. L’esigenza del regno è, a tutti gli effetti, una esigenza terrena: di vedere di toccare di sapere di possedere, tutte cose concrete che hanno un nome. E’ un’esigenza sacra perché è totale, assoluta.
23 Una volta, per commuovere, bastavano tre uomini in mezzo a una piazza, che recitavano per l’ennesima volta una vicenda semplice e nota a tutti, da guardarsi stando sulla punta dei piedi. Oggi non bastano più nemmeno le gigantesche macchine per commuovere che costano miliardi, con le loro enormi e coloratissime figure sempre diverse, con le valanghe di parole e di suoni moltiplicati in tutte le direzioni, verso le quali si è sospinti con l’aiuto del sollecitamento sessuale e del brivido, e che si guardano stando comodamente semisdraiati nella penombra.
E’ invecchiato l’uomo, che ha perduto l’infantile mobilità, la giovanile capacità di ridere e di piangere, di sognare, di entusiasmarsi. Una lenta atrofia ci ha fatto scendere via via a tipi di spettacolo intimamente sempre più depotenziati, in cui sempre maggiore è stata la parte non sostanziale da aggiungere per forzare l’attenzione e la commozione. Dal teatro […] al cinema […], allo spettacolo a domicilio, che vanta in prima linea tra le sue benemerenze la comodità. E’ l’atrofia della capacità mitica, della potenza cioè ad attingere per occasione e per suggestioni un’altra realtà, ad uscire dal banale quotidiano.
27 Ci sono critiche giuste e critiche sbagliate, ma non ci sono critiche costruttive e critiche distruttive. La critica è necessariamente e intenzionalmente distruttiva nei confronti dell’oggetto sul quale si esercita. Naturalmente, si critica, si demolisce, per costruire, per sostituire a una realtà inadeguata una realtà adeguata. Ma criticare significa demolire. Non c’è nulla di negativo in questo distruggere: quando si demolisce si deve demolire radicalmente, con la stessa decisione con la quale quando si costruisce si deve costruire. La formula “critica costruttiva” significa soltanto “criticare ma non troppo”, fermarsi a metà strada, non criticare.
28 Il coscientissimo ed evoluissimo “uomo moderno” (una specie nuova, con un nome apposito), uscito dalla minore età, liberatosi dalle tenebre dell’ignoranza e raggiunta finalmente una chiara visione e una razionale spiegazione della realtà, eccolo di nuovo, come i suoi lontani progenitori, prostrato in adorazione davanti a ciò che non capisce: la quarta dimensione, che non gli è più comprensibile del motore immobile degli scolastici; la relatività, che confonde con una prudente affermazione della aleatorietà delle cose; la fissione nucleare, di cui non riesce neppure a farsi un’immagine, magari del tipo ingenuo delle immagini che i medioevali servi della gleba si facevano di Dio. Lontanissimo dal sospettare che anche la scienza ha in sé la sua notte e le sue contraddizioni, in nome della scienza, che non conosce, condanna molte altre cose che capisce ancora meno.
45 I problemi nascono sotto forma di dilemma: evoluzione o creazione, perdono o vendetta, guelfi o ghibellini. Quando le questioni sorgono, quando i problemi vengono posti, tutti combattono per l’uno o per l’altro corno del dilemma. Passa il tempo, e se il dilemma non è stato risolto né in un senso né nell’altro subentra, dopo tanti conflitti, la stanchezza. La stanchezza fa subito una sensazionale scoperta: scopre che in entrambe le soluzioni c’è un po’ di buono e un po’ di cattivo, e conclude che la cosa migliore è accettarle entrambe, cioè non scegliere. Di queste finte soluzioni con il passar degli anni si è riempita la terra.
47 L’umanità è vecchia. Il vecchio sa molte più cose del giovane, ma riesce a farne pochissime. Ha troppa esperienza, sa che le difficoltà sono tante, che nessuna scelta è così sicura, che ci vuole prudenza. Sente il fascino della gioventù, la rimpiange, ma quando vede quel che fa il giovane scuote la testa, pensa ai pericoli, pensa alle delusioni, sa che nulla è come si desidera, sa che dopo la giovinezza viene la vecchiaia.
Se nell’attuale enorme vuoto del possibile, dove la solitudine dell’uomo è terribile tanto che non ci si può pensare, potesse entrare ancora una volta la violenza della giovinezza, l’urgenza della passione, il bisogno dell’assoluto, la fede, il domani sarebbe tanto nuovo e tanto grande da non potersi paragonare alla vecchia e stanca storia del mondo. E’ possibile tornare giovani? E’ possibile “nascere un’altra volta”? Questo è comunque, possibile o impossibile, il comandamento di Cristo: la metànoia, il capovolgimento.
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