“Non avevo capito niente” di Diego De Silva
di GUIDO D’OVIDIO (FSI-Riconquistare l’Italia L’Aquila)
L’uscita in libreria dell’ultimo, probabilissimo best seller di De Silva, annunciata sui social da un originale battage pubblicitario (notissimi scrittori, con dei brevi video, hanno raccontato le loro immaginarie esperienze personali con il legale più scalognato d’Italia), non poteva non incuriosire un lettore ossessivo-compulsivo qual è lo scrivente, che pertanto si è avventurato in un viaggio nel tempo conclusosi nel 2007, anno d’uscita del primo romanzo della serie sull’avvocato Vincenzo Malinconico, Non avevo capito niente. Si comprende subito come già il nome del protagonista sia una garanzia di successo, magari non processuale, ma sicuramente letterario.
Cominciamo col precisare che si ride, e tanto. E si sa, se riuscire a far ridere è complicato, farlo con la parola scritta lo è ancor di più. Si ride con tenerezza, nulla di sguaiato; si ride empatizzando, non sfottendo; si ride di sè stessi, in fondo. Il romanzo, però, non è solo intrattenimento. Lo stile destrutturato e destrutturante dell’autore non ci impedisce di individuarne l’impalcatura. In sostanza, ad allietarci sono le vicende familiari di Malinconico, quelle professionali e le sue riflessioni su soggetti e argomenti insoliti, da Finardi alle malattie autoimmuni. Il trait d’union è una certa visione della società che, se era attuale nel 2007, oggi è addirittura bruciante per quanto veridica. Venuti meno i riferimenti tradizionali, a dilagare è quella che Malinconico, in una delle sue memorabili tirate, definisce “la nuova cultura della concorrenza, palazzinara e bulimica”. Tale cultura permea ogni aspetto della vita e paradossalmente svolge una funzione livellatrice: la necessità di dare un senso alla propria esistenza, trasformandola in una continua rincorsa verso un qualcosa che manca e che però, una volta raggiunto, non dona l’appagamento che ci si aspettava donasse, propiziando così una nuova rincorsa verso un qualcos’altro che manca, e così via (un po’ come l’utopia di Galeano che non viene mai raggiunta ma serve a camminare, solo che in questo caso ogni passo è un passo verso il baratro), realizza un’equiparazione di fatto tra l’avidità di chi ha e vuole di più e il bisogno di chi non ha e vuole almeno sedersi a tavola.
La parte meno convincente del romanzo, che tuttavia risulta comunque gradevole, è quella sulle vicende familiari di Malinconico. Emerge difatti un certo didascalismo, sebbene in chiave postmoderna: l’ex moglie che non è poi tanto ex, la figlia non biologica con cui si è sviluppato un forte rapporto di complicità, il figlio biologico con tendenze omosessuali e probabilmente masochistiche… D’altronde, se nella cinematografia si registra qualche tentativo di prescindere dalla trama, o quantomeno di relegarla in secondo piano, le letteratura non è ancora pronta per questo step, e probabilmente non ne ha la predisposizione strutturale. È però rasente al pezzo di bravura il duello rusticano, che si svolge nella straniante tavola calda di un aeroporto, tra Malinconico e il compagno della sua ex moglie, un architetto (il protagonista si chiede come mai i compagni delle ex mogli siano quasi sempre architetti).
Prima di metterla sul piano fisico e finire a ruzzolarsi sul pavimento menando fendenti a vuoto senza un minimo di tecnica, come farebbero due adolescenti, i due si affrontano sul piano dialettico, e l’avvocato prevale facendo appello proprio alla cultura della concorrenza di cui sopra: «qui non sono ammesse transazioni, è una stronzissima giungla: o si vince o si perde, non è che puoi cavartela coi discorsi equilibrati. Se questa è ancora la mia famiglia, come hai detto poco fa, vuol dire solo che non sei riuscito a prendertela. E che ti aspetti da me, che ti dia una mano?». È l’approccio problematico a ogni questione, la tendenza a parlare troppo di tutto e su tutto a irritare Malinconico, perché è lui il primo ad abusarne. Arriva, in tal senso, persino ad apprezzare per reazione l’approccio camorristico, anticulturale e spicciolo: vuoi una cosa? Prendila! Ce l’ha qualcun altro? Fattela dare! Che la cultura della concorrenza, spinta sino al parossismo, possa giungere a istituzionalizzare il metodo mafioso, a legittimarlo come condotta di vita? Sono aperte le scommesse.
I capitoletti dedicati alle riflessioni di Malinconico sui temi più disparati sono spassosissimi, e svolgono la preziosa funzione di spezzare il ritmo di una narrazione che, essendo incentrata su un uomo che non è James Bond e neanche John Nash, ma semplicemente un mediocre come tanti che cerca di sopravvivere in un ambiente ostile, rischierebbe momenti di stasi, se non di piattume. Malinconico, per esempio, adora Gilbert O’Sullivan, coi suoi testi irrimediabilmente tristi celati in una musica ritmata e orecchiabile. In particolare, si concentra su “Clair”, canzone che narra, in una prosa elementare e al contempo struggente, l’amore di un uomo nei confronti di una ragazzina. Lo fa in modo ambiguo, senza sconfinare nell’esplicito. Malinconico ritiene che una canzone del genere oggi non vedrebbe mai la luce o che, semmai la vedesse, verrebbe immediatamente travolta da un’inarrestabile ondata di indignazione la quale, dopo la risacca, lascerebbe sul terreno solo quella melma che è la musica leggera contemporanea.
È chiaro che nessuno auspica uno sdoganamento della pedofilia. Il punto è un altro: mettere in discussione la dittatura del politicamente corretto, cicisbeo dello status quo, in base a cui certi temi non vanno nemmeno sfiorati, mentre hanno campo libero l’intrattenimento paludoso e l’impegno di facciata, strumenti di distrazione e di pulizia delle coscienze, da utilizzare con cura mentre la ruota continua a girare, inesorabile. Altra riflessione degna di nota è quella sull’evoluzione del fenomeno camorristico. La cultura della concorrenza spiega i suoi effetti anche in quel sottobosco. La malavita non conosce più stabilità, il “tutto e subito” preclude ogni azione o programma che non sia di corto respiro, e perciò la criminalità organizzata diventa gangsterismo d’accatto, con l’aumento dell’insicurezza dei cittadini comuni, le cui vite possono essere messe a rischio da un semplice prelievo al bancomat o da uno sguardo interpretato male. Malinconico scende a patti con la realtà e giunge ad augurarsi il ritorno della camorra di una volta, una camorra “sostenibile”, che controlli il territorio come si deve. È un paradosso amaro: la società di un tempo, di cui l’homo homini lupus non era ancora la stella polare, esprimeva persino una camorra di qualità superiore.
Dulcis in fundo, le peripezie professionali dell’avv. Malinconico, che è un avvocato con uno spiccato senso dell’etica, il che ci porta già a trarre delle conclusioni. La sua è una professione, siamo franchi, parecchio “sputtanata”. Il peso della concorrenza è arrivato ben oltre i livelli di guardia, siamo in uno stato di natura hobbesiano con un tutti contro tutti che ha anche risvolti da commedia all’italiana. Memorabili sono le pagine in cui ci vengono narrate la caccia spietata ai clienti, anche i più squallidi, la meccanicità di una professione che dall’esterno ci si immagina molto diversa, con l’alienazione che ne deriva, la messa in atto di espedienti, inganni, trucchi e altre variegate forme di squallore, l’ostentazione di un presunto prestigio, che in realtà è una reminiscenza dei bei tempi che furono, da parte di una categoria della quale la netta maggioranza dei componenti sguazza ogni giorno nella disperazione, mascherandola in un finto cinismo e aggrappandosi a un abito, una cravatta e una borsa di cuoio per non annegarvi.
Malinconico è un rassegnato, che tuttavia coglie il punto in un passaggio apparentemente secondario del romanzo, quello in cui fa un “cazziatone” portiere dello stabile delle Generali, reo di aver manomesso, in cambio di qualche mancetta, il foglio di prenotazione in cui gli avvocati si mettono in lista, foglio che determina l’ordine nel quale i liquidatori tratteranno i sinistri stradali. Malinconico non ne può più di questi piccoli soprusi, di queste piccole cucchiaiate di merda da ingoiare ogni giorno, di questo pizzo sulla dignità da pagare senza requie. È consapevole di non poterci fare niente, però non riesce più a fingere che non gli importi. Qui partorisce l’esclamazione più significativa di tutto il testo: «la professione libera è un ossimoro!». Già, la “libertà”, questo termine, questo concetto di cui la cultura della concorrenza abusa allo scopo di propagandarsi, non è altro che una pia illusione in una società come la nostra, intrinsecamente violenta, dove tutto va conquistato, tutto può essere rimesso in discussione in un attimo e dove si può precipitare nel vuoto da un momento all’altro, senza rete di protezione.
E come fa ad andare avanti, un uomo come Malinconico? Grazie a piccoli soddisfazioni, come un hamburger clandestino con la figlia, un biglietto affettuoso da parte del figlio, un ritrovato amore nello sguardo della ex moglie, una nuova relazione con la più ambita del foro… Nei rari momenti di contentezza, gli erutta da dentro un “vaffanculo” liberatorio, come a esprimere sollievo. Se siamo felici, diciamo “vaffanculo”: eccola, la cultura della concorrenza.
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