Quando il consenso all'Europa è solo un inconsapevole affidamento acritico. Il caso Spagna.
di Cinzia Bernardini
Sabato 10 ottobre anche il Presidente polacco Lech Kaczynski ha firmato il Trattato di riforma dell’Unione Europea dopo il “si” dell’Irlanda al secondo, imperterrito, referendum a cui la popolazione si è sottoposta dieci giorni fa.
Le parole pronunciate da Kaczynski prima della firma, però, hanno voluto precisare il concetto che, nonostante le ultime evoluzioni, l’Unione Europea è e rimane un’unione di Stati sovrani che deve restare aperta per accogliere altri membri come i Paesi Balcani e la Georgia. Anche in Irlanda le critiche alla ratifica del Trattato sono state pesanti e focalizzate sulla politica propagandistica del “si” adottata dalle istituzioni, essendo questa stessa incentrata sullo slogan “Si all’occupazione, Si all’Europa”. Chiaro condizionamento, come se un ulteriore eventuale voto negativo potesse apparire paragonabile ad un rifiuto all’occupazione e all’Europa in sé, aspetti collaterali dato il distinto oggetto della votazione. Lecito allora il dubbio dei più critici, i quali motivano l’appoggio incondizionato del Governo Irlandese al Trattato di Lisbona con il tentativo di non contrariare il resto dei partner europei, in un momento in cui anche l’Irlanda ha bisogno della loro indulgenza per esser sicura che la Banca Centrale Europea continui ad elargire denaro anche a Suo favore. Infine ci sono le imprescindibili condizioni poste dalla Repubblica Ceca per l’ultima firma, necessaria per l’entrata in vigore del Trattato nel gennaio prossimo. Tutto ciò non fa altro che evidenziare prepotentemente che la corrente euroscettica ed antieuropeista, presente all’interno dell’attuale panorama generale, non ha subito affatto un ridimensionamento come si è voluto far pensare ma, al contrario, tende a dilagare assumendo in ogni Paese delle motivazioni e dei connotati diversi a seconda della peculiare situazione nazionale che vi si trova.
In Spagna il presupposto da cui partire è politico da un lato e culturale dall’altro.
Dal punto di vista politico la Spagna è rappresentata nettamente da due grandi partiti i quali, contendendosi in modo pressoché altalenante il potere al Governo, oscurano i restanti movimenti dalla scena politica, impedendo inoltre, di fatto, la creazione sul piano nazionale di importanti correnti sia moderate sia massimaliste. Il PP (Partido Popular) come il PSOE (Partido Socialista Obrero Español) non hanno tendenze euroscettiche al loro interno, proseguendo entrambi una generale approvazione del progetto europeista.
Inquadrando tale visione con dati storici concreti, si sottolinea che la preparazione – negoziazione del vecchio Trattato Costituzionale è avvenuta in Spagna, così come in Italia e Francia, per mano del Governo di destra guidato da Josè Maria Aznar in qualità di Primo Ministro, in carica dal 1996 fino al 2004. Seguendo perfettamente i valori del suo partito, il leader del PP si è dimostrato nella politica interna un tradizionale conservatore cristiano-democratico, favorendo ideali neo liberisti senza dimenticare di accentuare con enfasi i principi di sovranità e d’identità nazionale spagnola, oltre che di accentramento e gerarchizzazione del potere. Nella politica europea, invece, il Primo Ministro Aznar ha assunto una posizione flessibile ed assertiva nei confronti dei lavori della Convenzione e della CIG, entrambe miranti a raggiungere un accordo collettivo per l’istituzione di quella che sarebbe stata la futura, seppur di breve durata, Costituzione Europea. L’unica nota dissonante, in questo quadro di assoluto conformismo, è stata l’opposizione nel 2003 della Spagna, insieme alla Polonia, al principio di doppia maggioranza nel sistema decisionale europeo, motivando tale dissenso con la consequenziale diminuzione, almeno formale, d’influenza decisionale che tale sistema elettivo avrebbe causato per i Paesi piccoli e medi.
L’empasse è stato superato solo nel 2004 con l’elezione del successore di Aznar, il quale, pur appartenendo all’opposta corrente politica del Paese, si è rivelato col tempo ancora più accomodante del suo predecessore. L’attuale Primo Ministro Josè Louis Zapatero, infatti, al fine di raggiungere un accordo sulla Costituzione, ha dimostrato un’estrema accondiscendenza non solo per la formula di maggioranza qualificata, ma anche per la proposta di un esplicito riferimento, nel preambolo introduttivo, a Dio ed alle radici cristiano-giudaiche dell’Europa (progetto poi abbandonato per opposizione della Francia), e per una politica di sicurezza basata su una difesa europea comune, compatibilmente con le direttive volute dalla NATO. Unica priorità del Governo Zapatero è stata quella di chiedere alla UE di mantenere inalterata o quasi la quota dei fondi strutturali da destinare ai Pesi membri, nonostante l’ammissione di dieci nuovi Stati!
Assicurato ciò, scontata è stata la firma del Governo spagnolo il 29 ottobre del 2004, così come altrettanto scontata è stata l’immediata fissazione del referendum di ratifica del Trattato costitutivo, risultando la Spagna il primo Paese ad averlo approvato con una maggioranza del 77% dei votanti. Va specificato però che tali votanti costituivano solo il 40% degli aventi diritto. L’unico partito a favore di un flebile “no” è risultato essere il movimento di Izquierda Unida, vicino all’opera del sindacato denominato Confederatiòn General del Trabajo, contrariato, in un primo momento, soprattutto per la poca valorizzazione del lavoro all’interno delle intricate previsioni normative al vaglio della popolazione spagnola.
Nonostante l’opposizione di Olanda e Francia alla ratifica della Costituzione Europea e l’escamotage del Trattato di riforma di Lisbona ratificato in Spagna con voto parlamentare l’8 ottobre del 2008, a quattro anni dal referendum, l’atteggiamento spagnolo nei confronti dell’Europa non ha subito importanti modifiche. I risultati delle elezioni politiche europee dell’8 luglio di quest’anno, infatti, se da un lato hanno confermato la netta preminenza bipartitica della Spagna con l’assegnazione al PP e PSOE di 44 seggi europei sui 50 disponibili, dall’altro hanno visto nuovamente partecipare a tali elezioni una percentuale persino inferiore alla metà della popolazione votante.
Prima di analizzare le ragioni culturali che tuttora, anzi ancor di più ora, condizionano l’ultimo dato esposto, l’unica novità che trapela dalle recenti elezioni europee in Spagna è – oltre ad una quasi scontata seppur lieve vittoria del partito all’opposizione nell’assegnazione dei seggi – la presentazione di un maggior numero di liste elettorali e, di conseguenza, l’emersione di alcune correnti marginali di recente formazione o diffusione. Quelle caratterizzate da un, seppur accomodante, lieve euroscetticismo sono Coaliciòn por Europa ed Izquierda unida, l’una costituente una coalizione di centro destra che raggruppa vari movimenti nazionalisti facenti capo ai Paesi Baschi, Andalusia, Canaria e l’altra un’aggregazione di partiti della sinistra più disparata. Entrambe, nonostante l’estrema opposizione di collocazione, si trovano concordi nel contribuire comunque positivamente alla crescita di un’Europa che i primi vorrebbero più attenta alle identità nazionali, ed i secondi alle politiche sociali e di valorizzazione del lavoro. In posizione centrista, come sinonimo di terza via, si colloca il neo partito Uniòn Progreso y Democracia, distaccatosi dal resto per un’attenzione più spiccata alla versione progressista dei principi di uguaglianza e democrazia. Quest’ultimo schieramento ha inoltre ultimamente eletto come proprio eurodeputato il cattedratico giurista Francisco Sosa Wagner. L’unica, ben determinata, nota scettica che si riesce ad intravedere a livello politico in Spagna, dunque, rimane il partito EdP.V (Europa de los pueblos insieme a Los Verdes) oltre che Alternativa Española insieme all’infiltrato Libertas, con la precisazione che il primo ha ottenuto solo un seggio alle ultime elezioni europee, mentre i secondi non sono riusciti nemmeno a comparire nel Parlamento Europeo. Il dato certo è che in Spagna, come in altri Paesi europei, alcune correnti politiche, avendo cambiato strategia, stanno cercando di portare avanti i propri ideali di decentramento dei poteri dell’UE, o di valorizzazione delle identità nazionali, con una sorta di infiltrazione interna, come un cavallo di Troia. Di conseguenza, la constatazione che ideali come quelli di Libertas– capeggiati da Declan Ganely, un noto imprenditore antieuropeista irlandese ed ispirati ad una richiesta di maggiore trasparenza e dibattito pubblico nella promozione di leggi; ad una minore interferenza della Commissione nelle Nazioni; al desiderio di libertà dalla tirannia della mediocrità e delle lobbies dell’attuale UE – siano filtrati anche in Spagna e soprattutto siano stati votati, seppur in minima parte, significa che una parvenza di disappunto sociale inizia a farsi intravedere anche nel Paese più europeista, ma a ben vedere più “euroconformista”, del Continente.
Il dato più interessante però non è tanto a livello politico, data l’uniformità e consistendo in una piccola eco la contestazione attiva appena descritta, ma a livello sociale essendo diffusa, nella stessa Spagna, la consapevolezza che “a la gente le da igual Europa” in quanto preferisce preoccuparsi di aspetti di politica locale, regionale, nazionale essendogli l’Europa indifferente. Tale indifferenza trapela da interviste ai cittadini, blog su internet, articoli su periodici, sempre con lo stesso disarmante torpore. Le prove di tale atteggiamento sono numerose e si riscontrano in primo luogo nelle stesse elezioni europee. A parte la scarsa percentuale di votanti – dato che accomuna il Paese alla restante media europea – il fatto più eclatante infatti è che nella recente propaganda elettorale nessun partito ha mai parlato d’Europa, ma solo di Spagna. La ragione di tale atteggiamento è duplice.
Da un lato una propaganda elettorale ampiamente riproduttiva di logiche competitive nazionali ha avuto sicuramente lo scopo di tentare di recuperare quel largo consenso che, per il partito al Governo, è venuto meno con una serie di circostanze, prime fra tutte la crisi economica e la perdita di appoggi dal Bng (Bloque Nazionalista Gallego) e Pnv (Partido Nacionalista Vasco). Tentativo poi non riuscito per la vittoria del PP nel numero di seggi assegnati. Il capolista del PP, il dirigente conservatore Jaime Mayor Orega, ha prevedibilmente concentrato la sua propaganda elettorale sul sostegno per la ricerca di cure alla crisi economica, ritrovabili nell’integrazione dei mercati e nell’incentivazione del settore finanziario, su politiche sociali più moderne e su un’immigrazione legale e controllata, oltre che su un’energia nucleare possibile. Al contrario il professore di Diritto Costituzionale Juan Fernano Lòpez Aguilar, appoggiando la sostenibilità delle energie alternative, si è ritrovato a parlare di una politica economica più produttiva e competitiva per aumentare l’occupazione e favorire il modello sociale promosso dal suo PSOE. Tutte discussioni ben più adatte ad una competizione elettorale interna piuttosto che europea.
Dall’altro lato, però, la pedissequa riproduzione di argomenti di politica interna potrebbe far pensare ad una strategia intentata dai partiti nazionali al fine di incentivare, pur minimamente, la popolazione ad esprimere comunque una posizione, pur all’interno di un contesto poco stimolante. Lo stimolo alla partecipazione, infatti, ha comunque contribuito a confermare uno stabile, seppur apparente e pilotato, “consenso sull’Europa”, il quale ritornerà utile in previsione della prossima Presidenza spagnola al Consiglio europeo a partire dal 1° gennaio del 2010.
A riprova del poco successo che la politica europea riscontra in Spagna vi è la quasi totale assenza di approfondimenti o discussioni televisive – essendo questo il mezzo d’informazione purtroppo più diffuso nel Paese – inerenti al tema, seguite da una limitata critica giornalistica essendo, fondamentalmente, solo il 10% della popolazione interessato, o meglio disponibile ad interessarsi, all’UE.
Dalla constatazione alla motivazione. Il perché di un atteggiamento tanto indifferente risiede nel fatto che in Spagna, e non solo, la maggioranza della popolazione non conosce nulla sull’Unione Europea. Né come funzionano le sue istituzioni, né la sua competenza, né tanto meno che funzioni svolgono i politici spagnoli nel Parlamento europeo. Quello che in generale trapela, però, è che la predisposizione nei confronti di questa struttura sovranazionale risulta essere connotata, seppur in modo distaccato, da una certa benevolenza. Tale tiepido positivismo diffuso è, a ben vedere, un fenomeno molto comune nei Paesi in cui lo sviluppo economico è avvenuto, o meglio si è fatto sentire, in concomitanza con l’ingresso del Paese nell’UE. Per molti spagnoli, infatti, Europa è sinonimo dei sovvenzionamenti per gli agricoltori durante gli anni Novanta, quegli stessi sovvenzionamenti di cui, giorno per giorno, si percepisce la riduzione con l’ingresso di altri Paesi ed altre esigenze.
Tale constatazione è stata descritta dal sociologo Juan Carlos Jiménez, un esperto del Centro Studi di Democrazia presso l’Università San Pablo – CEU di Madrid, mediante il concetto di europeismo acritico il quale risulta caratterizzato da un’attrazione nei confronti solo dello slogan che l’Europa diffonde di sé, ignorandone il significato. D’altronde l’inconsapevole affidamento nei confronti di una struttura che, seppur sconosciuta, è apparsa già in passato come dispensatrice di sovvenzionamenti utili per la crescita economica del Paese, non può che continuare ad esser forte nell’attuale condizione di crisi e di incertezze. La bolla immobiliare che rischia di far saltare l’economia spagnola, il calo occupazionale e la diminuzione del potere d’acquisto sono piaghe che, interessando anche la Spagna, non fanno altro che allontanare il cittadino, anche il più attento alle politiche sovranazionali, da tutto ciò che è distante dai propri interessi più immediati, senza rompere però quello stato di fiducia che lega ogni soggetto a colui che assume maggiore responsabilità.
Il gioco però reggerà, forse, fino al momento in cui tale affidamento dovrà essere realmente comprovato. Nel frattempo i primi sintomi di un bilico iniziano a farsi sentire e seppur risulta tuttora veritiera la considerazione fatta dal CIS (Centro de Investigaciones Sociològicas) che “los españoles creen en Europa, aunque no la conozcan”, è pur vero che la dilagante corrente di euroscetticismo inizia a minacciare sempre più anche quell’idilliaco senso acritico spagnolo, così grigio ma anche così comodo alle politiche nazionali.
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