Statistica: il fondamento della disuguaglianza.
Brevi notazioni sul concetto di normalità
di Vincenzo Shibolleth
Viviamo nell’era post moderna: da tempo, profeticamente, è stata annunziata la “morte di dio”; drammaticamente, abbiamo già assistito alla “decapitazione dei re” e alla “rovina dei palazzi”. Che il pensiero si articoli non secondo ma “contro il metodo” è dai più avvertito siccome necessità. Eppure in questo scenario, fa ancora parte delle comuni esperienze linguistiche il concetto di “normalità”.
E a esso sembra riservato, addirittura, un posto di notevole rilievo: fondamento, com’è, della grammatica del pensiero attuale.
Ma, è tempo di chiarire come l’uso di un concetto apparentemente tanto ingenuo, rechi seco, ammantandolo di riserve e compromessi, il “senso” della disuguaglianza, rappresentandone, secondo taluni, addirittura, il fondamento.
Il vocabolo “normale”, in un importante dizionario della lingua italiana, è esplicitato come “ciò che corrisponde alla norma”, sicché il suo significato si toglie proprio dal termine “norma”.
Il quale è principalmente consueto e consunto del linguaggio dei giuristi e teologi, entrambi, pur lontani nelle funzioni della scienza, vicini nelle strutture del pensiero e, per avventura, legati dal concetto di “dogma”.
Il termine norma, sempre in quel famoso dizionario viene spiegato come “regola che descrive la condotta da tenere in certi casi o per raggiungere determinati fini”.
Da ciò, dunque, sembrerebbe risultare che il “normale” è “ciò che corrisponde alla regola descrittiva della condotta da tenere in certi casi o per raggiungere determinati fini”.
Ecco che, però, si apre e svela, se solo si rifletta, l’assoluta vuotezza del concetto, che per rinviare ad un elemento a sé estrinseco (la norma che descrive la condotta da tenere) è capace di riempirsi di qualsiasi contenuto.
Il problema è, appunto stabilire quale sia il contenuto della “norma” o meglio ancora chi sia deputato a stabilirne il contenuto.
Certamente pur togliendo alla scienza teologica e/o alla scienza giuridica il termine “norma”, quando nel linguaggio comune si discorre di “normale” la “norma” alla quale ci si riferisce non è mai quella giuridica o quella teologica. Le quali presuppongono le rispettive norme e su esse fondano il sistema.
Si avverte, subito, che quando nel linguaggio comune discorriamo del “normale” ossia di “ciò che è conforme alla norma”, la parola norma è attinta con un significato tutto suo e certamente diverso da quello proprio delle scienze (giuridica e teologica) nelle quali essa ha trovato uno degli usi più fecondi.
Si pone, quindi, l’esigenza di capire nell’accezione propriamente sociologica a quali norme si faccia riferimento, o, più esattamente, al soggetto deputato a stabilire il contenuto di quelle regole, rispettate le quali è possibile affermare che un soggetto o un oggetto sia normale.
In codesta accezione la parola norma è soltanto un indice di un dato meramente statistico.
La norma cessa di essere presupposta o posta da un’Autorità riconosciuta come legittimata a porla, e diventa il risultato di una indagine meramente quantitativa.
La normalità, ossia ciò che è normale, non è un concetto universale o planetario, bensì relativo ed episodico. È legato a una contingente e occasionale consistenza numerica.
Norma e statistica si fondono in un perverso meccanismo di legittimazione della prima per la mediazione della seconda.
È normale, cioè che risponde alla maggioranza dei casi.
La normalità è conformità a una regola statistica.
Così se tutti gli uomini della terra fossero, per ipotesi, sempre stati bruni e ve ne fossero soltanto 10.000 biondi, allora non vi sarebbe scrupolo nell’affermare che essi sono anormali, cioè diversi.
La normalità, dunque, proprio perché “conformità ad una regola meramente statistica”, non esprime né può esprime un contenuto ontologico dell’essenza delle persone e delle cose.
Il normale e il diverso, ossia il difforme dal normale, non sono realtà ontologicamente differenti, ma entità non ordinabili con il medesimo criterio.
Tutti i tentativi volti a istituzionalizzare il diverso sono tentativi necessariamente incapaci di un risultato, perché muovono da un presupposto fallace: che ciò che sia statisticamente maggioritario (cioè “normale”) deve costituire la regola per sancire la diversità. Così come tutti i tentativi volti a normalizzare il differente sono destinati all’insuccesso.
Ed allora, se bene ci siamo intesi in questi lapidari passaggi, si scopre, in tutta la sua forza, la insidiosità del vuoto concetto “normale”, il quale serve soltanto per legittimare quanti temono il senso della minoranza a discriminare proprio quella minoranza, che però, da un punto di vista ontologico, in nulla differisce da quella maggioranza che tenta la discriminazione.
La normalità, dunque, altro non è se non lo strumento utilizzato per segnare confini invalicabili e stabilire distanze incolmabili.
E questo vale per tutte quelle realtà nelle quali persone, che non esitiamo a definire abiette e disadorne, usano il concetto di normalità per edificare i muri della incomunicabilità assoluta e postulare una diversità in grado di legittimare la ineguaglianza che essi perseguono.
Ed è ancora peggio se proprio quelle stesse persone si convincano che una disuguaglianza veramente esista.
Perché in quel qual caso finiscono per confondere un dato statistico in una valutazione ontologica, mostrando, così di confondere l’essere con il risultare.
Esistevano una volta Physis (le legge naturale) e Nomos (la legge umana). La Physis dei 10.000 biondi a fronte del resto dell'umanità bruna è una legge (ipotetica) di natura. La dichiarazione di "normalità" per i bruni e, conseguentemente, di "anormalità" per i biondi fa invece parte della Nomos. I numeri hanno poco significato se non attribuiamo loro del valore, se cioè non facciamo entrare Nomos nel cerchio interpretativo. Ovvero nel linguaggio. Ma a ben vedere: non sono tanto numeri che interpretazioni delle funzioni linguistiche ovvero delle parti di comunicazioni strutturate?
"La normalità è una questione di consensi"
Più che questione di conensi credo si tratti di conformità a consensi.
Sempre che il consenso sia il contentuo della norma sociale.
Ma se il consenso non fosse il contentuo della norma sociale, allora non sarebbe più questione di consensi.
E bigognerebbe, forse, indagare sul contentuo delle norme sociali.
E di lì il dubbio di chi sia il soggeto legittimato a riempire di contenuto di quelle.