di ENRICO BONFATTI (FSI-Riconquistare l’Italia Vicenza)
1. Dimensione “emergenziale”
Mentre nel resto d’Italia si assiste a un’inspiegabile tendenza all’inasprimento delle misure di distanziamento sociale in concomitanza di un miglioramento della situazione epidemiologica, il Veneto – zona gialla da sempre – presenta dati da zona rossa o lockdown: il numero dei contagiati attivi, che nel resto della penisola è in calo da un mese, è ancora in aumento e rispetto alla fine di ottobre è più che quintuplicato con un proporzionale aumento della pressione su strutture ospedaliere funzionanti al limite delle proprie capacità già in periodi normali. La capacità di tracciamento è completamente saltata, Zaia dichiara apertamente che il raddoppio in tempo record dei posti letto nelle terapie intensive non ha mai contemplato la concomitante assunzione del personale necessario a farli funzionare, riconoscendo così esplicitamente che uno dei parametri principali sui quali definire il “colore” di una regione in Veneto è stato falsato in partenza. Buon senso induce a prendere in considerazione misure di prevenzione del contagio decisamente più drastiche di quelle attualmente in vigore per evitare il peggio.
Tale situazione non è piovuta però dal cielo ma è il frutto di scelte politiche prese sia a livello locale che nazionale che, entrando in sinergia, hanno innescato una spirale perversa. A partire dai parametri utilizzati per definire il “colore” delle regioni, tra i quali la capacità di tracciamento del contagio aveva una peso inferiore a quello della disponibilità di posti letto e dell’indice RT, fino ai giochetti semantici – che in tempi migliori sarebbero degni di uno sketch dei Fichi d’India – del nostro zar sui posti letto nelle TI, tutto ha concorso a delineare il drammatico contesto attuale, che faccio fatica a non leggere come il risultato di una comunanza di interessi politici tra la Presidenza della Regione Veneto e l’attuale maggioranza parlamentare. La riduzione e la concentrazione dei posti letto in pochissimi presidi ospedalieri iperspecializzati, le riduzioni di personale, l’annientamento della medicina territoriale – obiettivi pervicacemente perseguiti e realizzati da tutte le parti politiche – mal si conciliano con la necessità di prevenire la diffusione del contagio che richiede la presenza di luoghi di ricovero rigorosamente separati dai normali nosocomi e una capacità di tracciamento che può essere ottenuta solo grazie a una struttura territoriale capillarmente diffusa. A questo si aggiunge un’insofferenza degli ambienti della politica romana verso l’attuale dirigenza leghista troppo sovranara e caciarona e il loro manifesto apprezzamento per l’atteggiamento da onesto e laborioso artigiano del Governatore veneto.
L’impreparazione del nostro sistema sanitario ha avuto un ruolo importante nell’esacerbare le inevitabili fratture che un’epidemia crea all’interno di una società; si assiste ad una polarizzazione che, semplificando al massimo, vede contrapposti su due fronti “minimizzatori” ed “allarmisti”. Del primo fanno generalmente parte tutti coloro i quali temono di vedere compromesso il proprio futuro lavorativo e sono disposti ad accettare un maggiore rischio per la propria salute pur di non subire troppe perdite sul piano economico e finanziario; al secondo afferisce chi, causa sensibilità personale, questioni anagrafiche e spesso una situazione finanziaria in qualche modo garantita, preme per adottare misure che tendono ad escludere considerazioni non sanitarie. Compito della politica dovrebbe essere quello di comporre questa tensione dialettica, prendendo in considerazione tutte le dimensioni del problema senza sposare letture “negazioniste” di uno o più corni del dilemma. Purtroppo la politica sembra avere abdicato a questo ruolo, rimettendo il momento della soluzione del problema ad un vaccino realizzato con una tempistica che in una situazione non emergenziale dovrebbe ispirare prudenza.
Una Politica con la P maiuscola dovrebbe invece – anche in vista di eventuali e probabili future epidemie – integrare alle considerazioni puramente sanitarie anche considerazioni più squisitamente sociali ed economiche, stimolando un dibattito realistico tra le parti sociali. Il tentativo di prevenire una strage di ultrasettantenni giustifica misure quali la chiusura delle scuole e il ricorso a oltranza alla DAD, che è ormai dimostrato essere dannosissima per l’apprendimento e la formazione dei cittadini più giovani? Giustifica una limitazione delle attività economiche che pone seriamente a rischio l’esistenza stessa di centinaia di migliaia di piccole e medie imprese e con essa milioni di posti di lavoro? Giustifica la riduzione della vita sociale alla pura sopravvivenza fisica?
Non pretendo di dare una risposta chiara a queste domande: so soltanto che il bilanciamento tra costi e benefici di queste misure andrebbe fatto paragonandolo al bilanciamento che si otterrebbe in presenza di un Servizio Sanitario degno di questo nome che sicuramente sposterebbe il punto di equilibrio verso una maggiore tutela del “pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3 Costituzione).
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