Prospettive di un popolo in via d’estinzione
di L’INTELLETTUALE DISSIDENTE (Pietro Falchini)
Criminalità, gioco d’azzardo, abuso di alcool e droghe, perdita di identità. Ecco dove portano le politiche del governo statunitense nei confronti dei nativi americani, mascherate da aiuti.
Terminate le Guerre Indiane del XIX secolo, simbolicamente conclusesi con il massacro di Wounded Knee, si è giunti al paradosso dell’Indian Citizenship Act del 1924 con il quale il governo statunitense ha concesso la cittadinanza a tutti i nativi, abitanti dell’America Settentrionale da almeno diecimila anni. Nessuno però si è sognato di assegnare alle tribù un territorio sovrano, dimostrando ancora una volta quanto il modello di democrazia statunitense strida da sempre con il principio di autodeterminazione dei popoli. Il confino nelle riserve ha rappresentato soltanto un espediente per isolare un popolo radicalmente diverso e tentare un’opera di conversione culturale ed economica, una volta fallita la civilizzazione forzata dei secoli precedenti. Considerato nell’accezione interna, il principio di autodeterminazione presuppone la libertà di un popolo di scegliere quale regime politico adottare.
L’autodeterminazione interna è dunque sinonimo di democrazia, della quale gli Stati Uniti non mancano di ergersi paladini ogniqualvolta se ne presenti l’opportunità. Il problema si pone non appena si tratti di riconoscere la libertà dei popoli di definire i propri confini. Una libertà che gli Stati Uniti, considerata la loro storia e la loro posizione in merito al conflitto arabo-israeliano, non si possono permettere di riconoscere. Nella prassi internazionale è stato escluso di assegnare al principio di autodeterminazione effetti retroattivi tali da consentire di rimettere in discussione situazioni territoriali definite in seguito alle guerre mondiali poiché si metterebbe in discussione la certezza dei confini nazionali e la stabilità politica degli stati. Se, da un lato, affermare il principio di integrità statale è una reazione inevitabile di qualsiasi stato centrale per evitare la perdita di risorse territoriali ed economiche, purtroppo dall’altro se un popolo non è libero di autodeterminarsi definendo i propri confini, la democrazia della nazione nella quale è costretto ne risente sensibilmente.
In proposito le grandi democrazie ci insegnano che maggiore è l’estensione territoriale e maggiore è la dispersione di quei principi che ne dovrebbero ispirare la forma politica. Qualora vi siano gruppi sociali cui le autorità nazionali neghino un effettivo diritto allo sviluppo economico, sociale e culturale dovrebbe essere garantito il diritto alla secessione. A quest’affermazione è giunta la Suprema Corte Canadese nel 1998 in merito alle rivendicazioni di indipendenza del Québec. In quell’occasione il diritto alla secessione non fu riconosciuto perché gli abitanti del Québec, nonostante abbiano una propria identità linguistica e culturale, non rappresentano un popolo oppresso. Malgrado le critiche delle opposizioni provinciali, il principio di autodeterminazione appare garantito. Potrebbe dirsi lo stesso delle riserve in cui sono collocati oggi i nativi americani? In un discorso programmatico del 1970 il presidente Nixon dichiarava che la politica indiana dell’esecutivo dovesse ispirarsi al principio di “autodeterminazione senza terminazione”. La sovranità tribale, concessa alle tribù al termine di un complesso sistema di riconoscimento federale, si riduce all’indipendenza dal governo degli Stati federali in cui si trovano le riserve, non certo dal governo centrale. I nativi delle riserve, in qualità di cittadini statunitensi sin dall’Indian Citizenship Act, sono soggetti a tutte le legge federali degli Stati Uniti ed obbligati, salvo esenzioni speciali, al pagamento delle imposte sul reddito. Il Congresso mantiene l’ultima parola sulle questioni che riguardano le tribù indiane, conservando il potere ultimo di chiudere una riserva. L’autonomia dei governi tribali ne risente inevitabilmente, per quanto passi avanti siano stati fatti rispetto al periodo degli agenti per gli affari indiani, rappresentanti degli Stati Uniti sul territorio indiano. All’insieme delle riserve indiane, sparse per gli Stati Uniti per una superficie complessiva di soli 227.000 km, paragonabile a quella dello stato dell’Idaho, è stata riconosciuta una sovranità tribale che è ben lontana dal realizzare un livello di autogestione sufficiente a garantire i servizi essenziali.
La legge sull’autodeterminazione indiana del 1975 avrebbe dovuto aiutare i nativi a gestire autonomamente i finanziamenti erogati dal governo centrale per il tramite del Dipartimento per gli Affari Indiani. Così ancora non è per una serie di anomalie. Il governo centrale, tramite l’erogazione di circa 19 miliardi di finanziamenti per i programmi di sviluppo delle riserve e la concessione della possibilità di istituire casinò, tenta di ovviare ai problemi di povertà e disoccupazione che affliggono i nativi da secoli in una sorta di risarcimento per l’usurpazione delle terre ed i crimini commessi. Tuttavia, secondo quanto affermato dalla Commissione per i diritti civili degli Stati Uniti nel 2018, il governo federale sostiene inadeguatamente il benessere fisico, sociale ed economico dei nativi americani. In merito all’erogazione dei finanziamenti è una stessa agenzia governativa, il Government Accountability Office (GAO), a porre all’attenzione del Congresso alcune disfunzioni che ostacolano l’utilizzo di questi meccanismi di sostegno da parte delle tribù. Da alcuni rapporti degli ultimi anni emerge che quest’ultime, per quanto possano contrattare il contenuto dei programmi con il governo federale, non ricevono né finanziamenti sufficienti né secondo i tempi prestabiliti. Altre disfunzioni sono riscontrate nell’esecuzione dei programmi, in particolare fra il Servizio Sanitario Indiano ed il sistema scolastico delle riserve si riscontrano carenze di personale e pesanti disservizi a causa di una cattiva gestione delle risorse da parte delle agenzie governative. Oltre ai finanziamenti governativi, nonostante la loro gestione tutt’altro che oculata da parte delle agenzie federali, l’altra fonte di sostentamento delle riserve è rappresentata dal gioco d’azzardo che garantisce un volume d’affari annuo superiore ai 25 miliardi. Se da una parte i ricavi sono ingenti, le attività si trascinano alcune problematiche quali l’aumento inevitabile della criminalità e l’abuso di alcool e droghe. La loro gestione talvolta è affidata a membri indipendenti dal governo tribale e questo non ne facilita il controllo.
Alla Commissione nazionale per i giochi indiani, dipendente da agenzie federali come l’FBI, spetterebbe la regolamentazione dei casinò e l’irrogazione di sanzioni onde evitare che forme di criminalità si infiltrino nella gestione delle attività di scommesse e gioco d’azzardo. Tuttavia un diverso rapporto GAO del 2015 evidenzia che la Commissione debba rivedere i meccanismi di controllo sul rispetto delle disposizioni da parte dei casinò per evitare che la propria attività d’indagine risulti evanescente. Senza contare che il rischio di infiltrazioni criminali può creare il terreno per restrizioni e leggi federali che limitino nuovamente la sovranità tribale, già scarsa di per sé. La scarsa repressione da parte dei procuratori federali, che, a causa della scarsa collaborazione delle autorità locali, spesso rinunciano a formulare capi d’imputazione per crimini commessi nelle riserve, non ha fatto altro che aumentare il tasso di criminalità. Altre problematiche derivano dalla gestione dell’ingente ricavato. I buoni propositi del vincolo di destinazione dei profitti e dell’esenzione dalle imposte sul reddito non hanno significato un incremento delle condizioni di vita dei nativi, salvo rare eccezioni. In base all’Indian Gaming Regulation Act del 1988 il gioco d’azzardo nelle riserve viene considerato attività non a scopo di lucro poiché si tratterebbe di iniziative finalizzate allo sviluppo economico delle tribù. A dispetto delle premesse le comunità di nativi non sempre sono state in grado di reinvestire i ricavi incrementando lo sviluppo economico e redistribuendo la ricchezza. Talvolta vengono alla luce vicende spiacevoli di appropriazioni indebite dei ricavi da parte di membri delle tribù, fra i quali i gestori dei casinò, che probabilmente rappresentano solo la punta dell’iceberg. La questione dei casinò ha sollevato anche diversi scontri in seno alle tribù, fra chi è fermamente convinto della loro importanza per avviare un processo di sviluppo risollevando la maggioranza dei nativi dalla miseria e chi è convinto invece che le concessioni governative non siano altro che un modo per promuovere il gioco d’azzardo sfruttando l’espediente dello sviluppo economico delle riserve.
Alcuni arrivano a pensare che dietro la campagna per lo sviluppo delle riserve si celi l’intento assimilazionista mai sopito per cui le politiche attuali più che un aiuto concreto rappresentano l’ennesimo tentativo di sradicare i nativi dai valori originari. Ariprova del fatto che i programmi federali e la ricchezza generata dal gioco d’azzardo non abbiano migliorato le condizioni di vita dei nativi basti pensare che rimangono l’etnia degli Stati Uniti con il più alto tasso di disoccupazione. Secondo l’ultimo censimento del 2010 soltanto il 22% dei circa 5,7 milioni di nativi risiede nelle riserve mentre la maggioranza è costretta a cercare fortuna altrove, perlopiù in California, Oklahoma e Arizona. L’alto tasso di disoccupazione induce a ritenere che anche al di fuori delle riserve non sianosufficientemente tutelati come minoranza, spesso incapaci di adattarsi a stili di vita radicalmente diversi e per questo in uno stato preoccupante di povertà. Il processo di integrazione nella società americana tramite i finanziamenti governativi (peraltro senza un piano efficace di gestione e redistribuzione degli stessi) ed i proventi del gioco d’azzardo è davvero la strada migliore per le tribù contemporanee? Le guerre di conquista e le conseguenti contaminazioni culturali hanno reso le tribù sempre più dipendenti dai colonizzatori. Philippe Jacquin osservava che
“più l’indiano entra in contatto con gli europei, più gli sembra che certi oggetti gli mancano, e più li desidera.”
Porsi nell’ottica di inseguire il resto del Paese nel progresso economico potrebbe acuire ulteriormente la disgregazione fra le tribù e accelerare lo smantellamento dell’originario sistema di valori e tradizioni, basato sul rispetto dell’ecosistema e permeato da una profonda spiritualità. Gli Stati Uniti rappresentano oggi la fase più avanzata della civiltà occidentale, uno degli esempi più fulgidi del progresso materiale come scopo sociale primario. Sin dal primo contatto con gli europei, i popoli indigeni del Nordamerica hanno dovuto negoziare le loro identità con occidentali diffidenti e refrattari dall’alto di una pretesa superiorità culturale. Ciascuna tribù, soprattutto nell’ultimo secolo, ha visto erodersi gran parte del proprio contesto in cambio di concessioni e sussidi. Ciononostante decine di gruppi si considerano nazioni indipendenti ed entità sovrane. I programmi federali e le concessioni sui casinò, da cui le tribù sono sempre più dipendenti, rappresentano un sostegno reale all’autonomia delle comunità indigene o contribuiranno alla totale assimilazione del loro popolo?
Giovanni Paolo II, in un discorso del 1995 alle Nazioni Unite in difesa del principio di autodeterminazione dei popoli, affermava:
“è proprio la sua stessa cultura che permette ad una nazione di sopravvivere alla perdita della propria indipendenza politica ed economica”.
La resistenza culturale dei nativi di fronte all’educazione alla civiltà è la vera sfida. La situazione attuale ci invita a credere che difficilmente il gioco d’azzardo possa contribuire a proteggere un’identità logorata dal contatto con la civiltà occidentale. Se è vero che la cultura non si può soppiantare con la forza militare e con le leggi, la si può indebolire seducendo un popolo a non poter fare a meno di quei valori che si intendono promuovere. La speranza è che l’eredità dei nativi non si riduca ad un insieme di tradizioni esteriori alla stregua di meri ornamenti museali, o, peggio ancora, divenga oggetto di strumentalizzazione da parte di chi si batte contro l’imperialismo americano. La possibilità alquanto remota che gli Stati Uniti rinuncino alla loro pretesa superiorità intellettuale ed abbandonino i pregiudizi nei confronti dei nativi appare allo stato attuale pura e semplice utopia. Se le differenze ideologiche sono inconciliabili, non resta che concedere alle tribù un’indipendenza politica effettiva. Non prima però di aver messo in atto misure di sostegno che li rendano in grado di autogestirsi davvero, senza che le pretese di assimilazione abbiano la meglio sulle istanze di popoli alla ricerca di un’identità in via d’estinzione. Per realizzare quell’idea di civiltà promossa da Guénon, per cui:
“Una civiltà normale, nel senso che noi intendiamo, potrà sempre svilupparsi senza essere un pericolo per le altre civiltà; possedendo la coscienza dell’esatta posizione che deve occupare nell’insieme dell’umanità terrestre, essa saprà attenervisi e non creerà più antagonismo, non avendo nessuna pretesa di egemonia e astenendosi da qualsiasi proselitismo.”.
Altrimenti presto ci si chiederà se un recupero dell’autenticità culturale dei nativi sia ancora possibile o se certi stili di vita siano irrimediabilmente andati perduti.
Fonte: https://www.lintellettualedissidente.it/controcultura/esteri/prospettive-di-un-popolo-in-via-destinzione/
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