L’eredità di Keynes e le prospettive dell’ecosocialismo
Di La Fionda (Niccolò Biondi)
Il 21 aprile del 1946 moriva John Maynard Keynes, uno dei più grandi economisti del Ventesimo secolo. La sua ultima fatica, intellettuale e politica insieme, era stata la partecipazione ai lavori di Bretton Woods, tentando di far trionfare la linea britannica incentrata sulla realizzazione di un sistema di clearing internazionale: in tale sistema alle relazioni economiche e finanziarie multilaterali tra gli Stati si sostituiva un sistema di relazioni bilaterali mediate da un sistema centrale, nei cui confronti ciascuno Stato si trovava ad avere posizioni di saldo positivo o negativo. In altri termini, ciascuno Stato non si trovava più avere posizioni creditorie e debitorie nei confronti dei singoli Stati, ma nei confronti del sistema di clearing nel suo complesso. Senza entrare nei dettagli della proposta di Keynes, il sistema prevedeva la nascita di una nuova moneta di conto per le relazioni economiche internazionali, il bancor, limitazioni ai movimenti di capitale nel breve termine, impedimenti alle svalutazioni competitive, e tutta una serie di meccanismi di riaggiustamento che permettessero agli Stati di rientrare dalle proprie posizioni di deficit senza dover porre in essere misure draconiane al proprio interno. Si trattava di un sistema che, nelle intenzioni di Keynes, doveva prevenire gli effetti di un sistema economico e finanziario globale sregolato, e dunque permettere il libero scambio in un contesto di stabilità, pace e cooperazione internazionale. Come è risaputo, alla fine trionfò la linea statunitense e il dollaro divenne la moneta di riferimento nei mercati internazionali.
Fino alla fine della sua vita Keynes ha lottato per un sistema economico più stabile e più governabile. Questa è la grande lezione che ci ha lasciato: l’economia, se lasciata a sé stessa e alle dinamiche spontanee del mercato, non è in grado di produrre equilibri di piena occupazione né, soprattutto, un contesto sociale e politico pacifico e governabile. Critico del laissez-faire e dell’utopia del mercato autoregolato, la sua riflessione economica deve essere inquadrata all’interno di quella che, nelle parole di Karl Polanyi, è stata la “grande trasformazione” del Novecento: il collasso delle istituzioni del capitalismo liberale e l’approdo ad un nuovo sistema politico-istituzionale caratterizzato da protezionismi, governo pubblico dell’economia, nonché autoritarismi e totalitarismi laddove le istituzioni democratiche erano crollate sotto i colpi della crisi economica e delle contraddizioni insite nel capitalismo liberale.
Quando pubblicò, nel 1936, la Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, nel mondo accademico era ancora mainstream (sebbene superata nei fatti dalla storia politica e dagli avvenimenti economici) la teoria neoclassica che teorizzava il riaggiustamento economico del sistema grazie ai meccanismi del mercato e l’approdo ad un equilibrio di pieno impiego delle risorse. La grande svolta impresa da Keynes con la propria opera magna è stata proprio la dimostrazione, supportata da un modello formalizzato, che il mercato non raggiunge automaticamente una posizione di equilibrio di pieno impiego delle risorse: gli attori economici, i consumatori e soprattutto gli imprenditori, non pensano e agiscono come nel modello dell’homo œconomicus razionale e massimizzante, bensì sono caratterizzati da emotività e un’attitudine alla prudenza che gli fa preferire la liquidità e il risparmio in tempi di incertezza. L’individuo, insomma, non è per Keynes un automa razionale e massimizzante, ma un uomo in carne e ossa che vive una realtà sociale storicamente determinata. Il sistema economico reale non funziona come se lo figura la teoria economica neoclassica: il mercato, seppur capace di autoregolarsi come tanto insisteva quel Friedrich August von Hayek che sarebbe stato il suo grande avversario teorico e politico per tutta la sua vita, non è capace di autoregolarsi verso il pieno impiego delle risorse. Occorre dunque che lo Stato stimoli la spesa aggregata, con vari strumenti di intervento tra cui le politiche fiscali e gli investimenti pubblici, sì da portare il sistema economico alla piena occupazione. Analogamente, l’importanza dei consumi era per Keynes centrale: la prosperità delle nazioni si regge non sull’attitudine al risparmio e alla sobrietà, non su quella che Weber aveva descritto come etica protestante del capitalismo, ma sulla spesa e sul consumo, individuale e pubblico.
La teoria keynesiana ha ispirato le politiche pubbliche e l’orientamento del sistema occidentale fino alla fine degli anni Sessanta, iniziando a declinare a partire dalla crisi scoppiata nei primi anni Settanta e venendo poi definitivamente soppiantata dalle teorie neoliberali a partire dai primi anni Ottanta. Oggi, dopo quarant’anni di riforme neoliberali e deregolamentazione dei mercati che hanno portato alla finanziarizzazione di un capitalismo ormai profondamente entropico e svincolato dal governo pubblico e democratico, è quantomai necessario tornare a riflettere sull’importanza della figura di Keynes. È fondamentale farlo, soprattutto, in quell’area politica a culturale che, da anni, sta tentando di costruire una visione incentrata sull’ecosocialismo: recuperando criticamente Keynes, traendone indicazioni fondamentali per la strutturazione dell’ambiente politico ed istituzionale ma senza covare illusioni di totale e meccanica trasposizione delle sue teorie al panorama attuale. La teoria keynesiana è infatti di valore inestimabile sul fronte dalla governabilità del sistema economico: lo Stato deve tornare centrale nel governo dei processi, deve tornare ad essere capace di fissare e perseguire obiettivi pubblici investendo e spendendo e non limitandosi a garantire il miglior ambiente per il funzionamento del mercato. Questa è infatti una delle due grandi sfide che si pongo alla civiltà umana nel XXI secolo: reincorporare l’economia nella società e nella politica, riuscire a regolamentare nuovamente i mercati e a dirigere l’attività economica verso obiettivi etici, sociali e politici democraticamente stabiliti. Una sfida immane, alla luce delle condizioni economiche e politiche attuali (crollo della legittimità degli Stati, dinamiche sociali entropiche, mutamenti incessanti, multinazionali capaci di governare lo spazio mediatico e virtuale, fine della politica democratica, et cetera). E qui Keynes può essere senza dubbio di inestimabile aiuto.
Dove Keynes ci aiuta meno, invece, e dove anzi può risultare di impaccio, è il fronte ecologico. L’altra grande sfida che incombe sull’umanità oggigiorno, infatti, è ridurre l’impatto dell’esistenza umana sull’ecosistema naturale: continuando a produrre e consumare come stiamo facendo oggi, nel giro di pochi decenni le risorse saranno esaurite e l’ambiente naturale irrimediabilmente eroso ed inquinato. La civiltà umana per come la conosciamo oggi potrebbe non essere più possibile, e immani catastrofi sociali e politiche sono all’orizzonte. Non è più pensabile di proseguire nei binari di una società di mercato che si regge sull’aumento quantitativo e qualitativo del consumo, cercando di raggiungere in terra – come scrive Cristopher Lasch nell’omonimo libro – quel paradiso che ci è precluso in un aldilà in cui non crede più nessuno. Non è pensabile, in altri termini, di tornare a incentrare l’economia su una piena occupazione sostenuta da un aumento dei consumi: è il sistema capitalistico, e il modello socio-culturale che lo sostiene, a non essere più sostenibile. Questa è la grande questione che si pone, nell’ottica di un’economia nuovamente incorporata nella società democratica, e dunque capace di essere organizzata e orientata verso finalità di eguaglianze e sostenibilità ambientale. Come tutti i grandi pensatori della storia umana, se Keynes vivesse nel nostro tempo, sicuramente si porrebbe questo ordine di problemi.
Fonte: https://www.lafionda.org/2021/04/21/leredita-di-keynes-e-le-prospettive-dellecosocialismo/
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