Prescrizione reintrodotta? Quando la toppa è peggiore del buco
di DAVIDEMURA
Ancora non sono chiarissimi i contorni della riforma “Cartabia” sul processo penale e in particolare sulla (reintroduzione della) prescrizione, però, se quanto emerge dalle notizie verrà confermato, è chiaro non solo che l’elefante ha partorito un topolino, ma anche che la toppa è peggiore del buco.
Partiamo però da lontano, e cioè dai tempi del Governo giallo-verde e giallo-rosso, quando viene abolita la prescrizione dopo la sentenza di primo grado (riforma Bonafede). Una riforma questa che può essere considerata – senza ombra di dubbio – un vero scempio giuridico, perché l’istituto della prescrizione non è un “salva-ladri” o “salva-corrotti”, come hanno voluto farci intendere – soprattutto i giustizialisti – ma è un presidio di civilità giuridica, a tutela del cittadino contro gli abusi dei poteri pubblici, soprattutto sul lato della retribuzione penale, visto che i tempi del processo rischiano di essere già di per sé una pena.
Ecco. La prescrizione salva il cittadino dagli abnormi tempi del processo , che tramutano l’attesa burocratica in una pena sofferente, che viola i più elementari diritti della persona (e non è un caso che l’Italia sia stata più volte sanzionata dalla CEDU per questo aspetto). Perché se è giusto che chi ha commesso un reato venga poi punito, è altrettanto giusto che il presunto reo abbia un processo non solo equo, ma anche sufficientemente celere. Del resto, questo non è che lo dico io, ma lo dicono il fior fiore dei giuristi, e non in ultimo, la nostra Costituzione, all’art. 111.
Considerare dunque la prescrizione un istituto “salva-delinquenti”, sicché è giusto abolirla, è non comprendere appieno il significato profondo del concetto di giustizia, che non è vendetta e non è “tortura”, poiché anche i tempi abnormi per avere una sentenza definitiva, possono alla fine considerarsi una sorta di tortura, quanto meno psicologica, e dunque – ripeto – una pena in sé. Peraltro, ecco perché l’abolizione della prescrizione anziché risolvere le patologie della giustizia, in realtà le sposta sul cittadino.
Ma parliamo della “riforma Cartabia”. Da quanto emerge, la riforma non reintroduce la prescrizione dopo la sentenza di primo grado, bensì introduce una sorta di “improcedibilità per decorso del termine”. Ma solo per l’appello è il giudizio di Cassazione. Fino alla sentenza di primo grado, dunque, opera ancora la prescrizione.
L’interruzione di cui sopra però non estingue il reato, come accade con la prescrizione, bensì impedisce che il processo giunga al termine, sicché il reato non si estingue, solo che il processo non può giungere al termine con una sentenza di condanna o assoluzione. Il giudice dichiarerà l’impossibilità di procedere per decadenza del termine ultimo.
Un’assurdità giuridica. Il cittadino processato si troverà con un processo che non potrà andare avanti, ma senza che il reato sia estinto. Naturalmente, è possibile che egli pur di avere una sentenza nel merito rinunci all’interruzione del processo, ma è anche possibile che non vi rinunci, sicché avremo cittadini che, innocenti o meno, avranno sul loro certificato penale un reato pendente ma improcedibile. Il problema peraltro diventerebbe ancor più paradossale, qualora l’impugnazione della sentenza di primo grado venisse fatta dal pubblico ministero avverso un’assoluzione (la riforma Cartabia salva questa possibilità). In tale caso avremmo un cittadino assolto in primo grado, con un processo interrotto in appello o in cassazione relativo a un reato non estinto.
Tutto ciò è negazione di giustizia. Il cittadino ha il diritto ad avere una sentenza nel merito (assoluzione o condanna) in tempi relativamente brevi e certi, ovvero qualora questi non possano essere garantiti, egli ha diritto a ottenere una rinuncia dello Stato a perseguire il reato e cioè all’estinzione dello stesso. Tertium non datur!
C’è però un altro aspetto che per ora è dubbio (nel documento di sintesi che ho sottomano la questione non è chiara). Dopo il primo grado, secondo la riforma Cartabia, i giudici dell’appello hanno tempo due anni (salvo alcune eccezioni e i reati imprescrittibili) per celebrare il processo e giungere a una sentenza; quelli della Cassazione un anno. E però, mi chiedo: questo termine da quando decorre? Dalla sentenza di primo grado, dalla data dell’impugnazione o dal giorno della prima udienza? La questione è fondamentale, soprattutto qualora il termine dovesse decorrere dalla data della prima udienza in appello e/o in cassazione: perché in questo caso, il processo si potrebbe tenere anche anni dopo la sentenza di primo grado, vanificando palesemente l’intento della riforma.
Fonte: https://www.davidemura.com/prescrizione-reintrodotta-quando-la-toppa-e-peggiore-del-buco-7299/
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