Il gaffeur Khan e la talebanizzazione del Pakistan
di LIMES (Francesca Marino)
Carta di Laura Canali – 2009
Dietro i continui lapsus del primo ministro di Islamabad si cela una verità con cui anche l’Occidente deve fare i conti.
Imran Khan l’ha fatto di nuovo. Riuscendo a diventare per l’ennesima volta lo zimbello di mezzo mondo. L’ultima esternazione – mandata in video all’assemblea generale delle Nazioni Unite – riguarda i taliban, che secondo Imran sarebbero soltanto dei “nazionalisti pashtun” e che per questo motivo ricevono sostegno dal popolo (ma non dal governo) del Pakistan.
Il primo ministro del Pakistan tralascia convenientemente di dire che i veri nazionalisti pashtun in Pakistan odiano i taliban; che il Pashtun Tahafuz Movement (Ptm) protesta da anni contro l’esercito pakistano, che arma i taliban e con questi divide caserme e centri di addestramento; che il governo di Imran, oltre ad aver fatto ammazzare a sangue freddo un buon numero di attivisti, ha più di una volta ordinato di sparare addosso ai nazionalisti che protestavano completamente disarmati. Pochi giorni prima, sulla Cnn, aveva spiegato con toni piuttosto condiscendenti alla giornalista Becky Anderson che «gli haqqani sono una tribù che vive in Afghanistan» e che si trovavano in Pakistan per caso, tra milioni di profughi. Ora: è pur vero che Imran Khan è l’uomo che ha dichiarato in diretta tv che Germania e Giappone sono confinanti e che l’Africa è uno Stato, dunque potrebbe potenzialmente affermare di tutto senza battere ciglio.
Ma la storia degli haqqani e dei nazionalisti pashtun va oltre il folklore e oltre la stupidità: è malafede pura e fa parte di una precisa agenda. Riassumendo: gli haqqani non sono una tribù e nemmeno una famiglia. “Haqqani” è come si designano gli studenti ed ex-studenti della madrasa Darul Uloom Haqqania, con sede ad Akora Khattak. Seguendo la sua stessa logica, Imran appartiene alla tribù degli oxfordiani.
Il cosiddetto Haqqani network – lungi dall’essere una tribù – è un gruppo fondato da Jalaluddin Haqqani con il sostegno dell’Isi (intelligence pakistana) per combattere i sovietici in Afghanistan. Akora Khattak si trova in Pakistan: nella provincia del Khyber Pakhtunkhwa, per essere precisi. Quella stessa provincia in cui il partito di Imran Khan, che si definisce orgogliosamente un pashtun anche se secondo i suoi connazionali non spiccica una parola della lingua locale, ha governato per anni. Ma evidentemente Imran l’orgoglioso governatore pashtun e Imran il primo ministro sono due persone diverse. Altrimenti il premier ricorderebbe di certo chi sono gli haqqani; e magari anche il motivo per cui lui si è guadagnato il nomignolo di “Taliban Khan”.
Nell’anno fiscale 2016-2017, il partito di Imran Tehereek-i-Insaf – allora al governo – aveva stanziato 300 milioni di rupie pakistane per finanziare la Darul Uloom Haqqania. Il finanziamento era stato aumentato l’anno successivo di altri 277 milioni, con una direttiva speciale che prelevava il denaro dai fondi discrezionali allocati all’ufficio del primo ministro della provincia. Non solo: Imran e i suoi avevano candidato al senato il maulana Samiul Haq, rettore di Haqqania. Quando qualche voce si era levata a protestare, Imran aveva dichiarato che finanziare una madrasa nota come “università della jihad”, governata da un uomo che si definiva orgogliosamente “il padre dei taliban”, era la cosa giusta da fare. Pazienza se ad Haqqania si erano laureati il mullah Omar, Jalaluddin Haqqani e i suoi parenti, più un buon numero di membri di Al-Qāʿida e degli stessi taliban: finanziarli e portare Samiul Haq in parlamento, secondo Imran, avrebbe contribuito a «assimilare gli studenti nella società, inserirli nel mainstream e tenerli lontani dalla radicalizzazione».
Suona familiare? La stessa teoria che dai colloqui di Doha in poi viene adoperata per i taliban e per chiedere all’occidente di riconoscerli sbloccando i fondi del governo afghano. Nonostante il fatto che in Pakistan – laboratorio creativo di Imran – qualcosa deve essere chiaramente andato storto. Gli estremisti che dovevano assimilarsi alla società per mezzo di finanziamenti e riconoscimenti sono sì andati al governo, ma stanno rendendo la società pakistana sempre più conforme alla illuminata visione di Haqqania. E a quella altrettanto illuminata dello stesso Taliban Khan. D’altra parte, lo scorso anno – in quello che era stato in seguito qualificato come “ lapsus” – aveva definito Osama bin Laden «un martire»; e non era la prima volta. In quel caso, il suo ufficio stampa aveva parlato di «affermazioni prese fuori dal contesto». Così come fuori dal contesto, a quanto pare, era stata presa un’altra ormai storica affermazione del premier su un caso di stupro particolarmente efferato: «Gli uomini non sono mica robot, alla fine». In quell’occasione Imran aveva biasimato la vittima e le donne in generale per il peccaminoso vezzo di adottare abiti e costumi occidentali. L’uso del burqa, secondo l’Imran-pensiero, è il miglior deterrente contro le tentazioni dei poveri uomini indifesi ed è il giusto modo per mantenere modestia e decenza all’interno di una sana e illuminata società islamica.
Non deve stupire che le donne afghane – che sui social media postano i loro abiti tradizionali per protesta contro il sudario nero che i taliban hanno distribuito alle loro forzate sostenitrici – siano state attaccate quasi esclusivamente da uomini pakistani che seguivano le direttive del loro leader. Ma non è tutto. Sempre lo scorso anno – questa volta orgogliosamente, senza lapsus o decontestualizzazioni – Imran aveva sostenuto coloro che in connessione al processo per la strage nella redazione di Charlie Hebdo invocavano la decapitazione dell’ambasciatore francese e il massacro degli occidentali tutti. Il contesto è stato di nuovo invocato invece all’indomani della presa di Kabul, quando Imran ha dichiarato: «Gli afghani hanno finalmente spezzato le catene della schiavitù». Le stesse catene di schiavitù e dipendenza culturale che il prode Khan ha spezzato lanciando un nuovo programma di studi per le scuole pakistane: il Single national curriculum. Un nuovo e moderno compendio, in cui sulle copertine dei libri di testo campeggia una famigliola felice: papà e figlio maschio sono seduti su un divano in abiti occidentali, mentre mammina e bimba adoranti siedono per terra, in abiti tradizionali e con il capo coperto.
Folklore a parte, bisogna guardare in faccia la realtà: la talibanizzazione sempre più spinta non dell’Afghanistan, ma del Pakistan stesso. Ovvero di un paese in cui si commettono più violazioni dei diritti umani che nell’Afghanistan governato dai taliban. Migliaia di cittadini spariscono ogni anno senza lasciare traccia. Si pagano killer (uno è sotto processo a Londra) per ammazzare all’estero intellettuali dissidenti. Si scoprono fosse comuni subito fatte sparire. Si pratica il “kill and dump”, corpi abbandonati ai bordi delle strade in vari stati di decomposizione e seppelliti poi senza alcun riconoscimento. Si volatilizzano attivisti – come Idris Khattak di Amnesty – che poi ricompaiono in qualità di “ospiti” di corti marziali in cui si celebrano processi senza che né le accuse né le eventuali prove a carico vengano rese note alla difesa. Il Pakistan è un paese che domanda denaro per aiutare i profughi da lui stesso creati, installando terroristi a Kabul.
Ciliegina sulla torta: la bomba atomica è in mano all’organizzazione che quei terroristi crea, addestra e gestisce. Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden – che dal giorno in cui è stato eletto non ha mai telefonato al buon Imran – dovrebbe forse prendere in mano il telefono per comunicare che il gioco, dopo vent’anni, comincia a mostrare la corda. Prima che sia troppo tardi.
Fonte: https://www.limesonline.com/rubrica/imran-khan-taliban-haqqani-pakistan-afghanistan
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