Per la voce di Fabio Milana
di QUOD LIBET, BLOG UNA VOCE (Giorgio Agamben)
Vi sono nella storia della poesia, della musica e di ogni arte degli eventi in apparenza dimessi, che segnano nondimeno per chi in essi s’imbatte uno spartiacque che perentoriamente separa un prima e un dopo. Uno di questi eventi inapparenti è la registrazione, sotto la rubrica “I poeti”, di due CD fuori commercio, che contengono, secondo quanto recita il fascicoletto che li accompagna, “brani composti e/o eseguiti da Fabio Milana”. I poeti, cui la voce di Fabio sembra prestare il canto, sono nell’ordine, oltre a alcuni anonimi: Orazio, Sulpicia, Chrétien de Troyes, Francesco d’Assisi, Cecco Angiolieri, Dante, Jacopone, Petrarca, Villon, Lorenzo de’ Medici, Goethe, Leopardi, Manzoni, Emily Dickinson, Pascoli, Rebora, Jahier, Saba, Montale, Ungaretti, Penna, Antonia Pozzi, Simone Weil, Pasolini, Brecht, Elsa Morante, Franco Loi, Franca Grisoni, Luzi, Fortini. Si potrebbe pensare che si tratti, dunque, di testi poetici musicati da qualcuno che si suole chiamare, con un’inamabile parola, un cantautore. Non è così. Fabio non ha stupendamente musicato i testi dei poeti che ama. Ha fatto qualcosa di diverso, che non sappiamo se collocare nella poesia o nella musica, ma che ha piuttosto il suo luogo nell’arduo incrocio fra le due.
Dante definisce l’opera del poeta come un “legar parole” e la poesia come una cosa “per legame musaico armonizzata” (Conv. I,VII,14). Per questo, con una singolare figura etimologica, egli fa derivare la parola “autore” da un “verbo che significa tanto quanto legar parole, cioè auieo”. Questo verbo è esemplare, perché nella sua forma è esso stesso “figura di legame” e compendia pertanto in sé l’attività propria dei poeti, “che con l’arte musaica le loro parole hanno legate”. Chi lo considera con attenzione, “ne la sua prima voce apertamente vedrà che elli stesso lo dice, che solo di legame di parole è fatto, cioè di sole cinque vocali , che sono anima e legame d’ogni parole e composto d’esse per modo volubile, a figurare imagine di legame. Ché, cominciando da l’A, ne l’U quindi si rivolve e viene diritto per l’I nel’E, quindi si rivolve e torna ne l’O; sì che veramente imagina questa figura A,E,I,O,U, la quale è figura di legame” (IV,VI,3-5).
La “musica” che “si rivolve e torna” che è qui in questione è interna alla poesia, ed è questa intima armonia che la rende capace di ricevere eventualmente un canto (ad quandam odam recipienda armonizata est – De Vulg. II,X,2). Questa legatura interna della poesia Dante la chiama coniugatio e, per quanto concerne la terza rima incatenata della Commedia, “cantilena”. È su questa “cantilena”, su quest’interna legatura della poesia che Fabio concentra tutto il suo mestiere. Il suo canto, così denso di pause e riaccensioni, che sale e discende, tanto vibrante di armonici da apparire a volte perfino difonico è, però, in qualche modo, una dizione e una lettura canonica, tale che dopo averla ascoltata non possiamo più leggere o compitare quelle poesie come prima le leggevamo. La “foglia frale” di Leopardi, l’“anguilla” di Montale, la “preghiera” di Caproni – credevamo di averle amate e comprese – ma ora non più, solo ora, seguendo la voce di Fabio, cominciamo ad intenderle ed amarle.
Nella primavera del 1942, l’archeologo Ludwig Curtius assiste nel teatro Adriano a Roma a un concerto di Arturo Benedetti Michelangeli. “La meravigliosa facoltà di Benedetti” egli scrive “è la cantilena (die Kantilene). Non solo il tono cantante del legato, no, piuttosto una modellatura dei singoli suoni; come se s’inoltrasse in alto ogni volta come uno scultore nella cera attraverso i più sommessi turgori fino a raggiungere il suo ostinato linguaggio e poi nuovamente sprofondasse indietro dal suo rilievo in lievi, quasi scivolosi passaggi. Ogni sillaba sonora ha la sua speciale sfumatura, quasi la sua propria fragranza, nessuna nota rinuncia alla sua trasfigurazione e mentre la frase scorre in sempre nuove intensificazioni e attenuazioni dal pianissimo al piano e al forte e poi indietro ancora nella stupenda compiutezza di un Lied, si produce a un tratto il canto di una poesia, che rispecchia tutta la giovanile purezza di quest’artista…”.
È questa cantilena, che incessantemente si spezza e ritorna su se stessa, è questo intimo tono cantante del legame musaico che Fabio ha lasciato avvenire nella sua voce, prima di discretamente sparire nel canone poetico che ci ha riconsegnato come fosse la prima e l’ultima volta.
Giorgio Agamben
FONTE: https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-per-la-voce-di-fabio-milana
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