La prosa politica di Giuseppe Mazzini. Per una critica democratica del liberalismo
di La Fionda (Michelangelo Ingrassia)
L’ermeneutica mazziniana, nel centocinquantesimo anniversario della morte del pensatore e combattente democratico rivoluzionario, propone, più viva e necessaria che mai, una meditazione su quello che Luciano Canfora ha definito come l’«equivoco» che «ha stabilmente inquinato il linguaggio politico» contemporaneo: ossia l’identificazione di democrazia e liberalismo. Un’identificazione, egli scrive, generata e propagata alla fine della seconda guerra mondiale dalle classi dirigenti liberali di tutto l’Occidente che mentre acquisivano, solo per loro, l’uso e il monopolio della parola «democrazia», contemporaneamente «marciavano a grandi passi verso la restaurazione della più incontrollata economia liberista»; gli effetti dannosi di quest’equivoca identificazione sono quotidianamente sotto i nostri occhi: la libertà oggi, ammonisce Canfora, «sta sconfiggendo la democrazia»[1].
Le generazioni del secondo dopoguerra sono state abituate a pensare che democrazia e liberalismo fossero un modello politico integrato; non hanno avuto memoria storica del lungo conflitto politico e ideologico che in passato schierò, su fronti contrapposti, liberalismo e democrazia; ancora oggi ignorano che invece esse furono e rimangono due distinte e opposte tradizioni politiche munite ciascuna di un peculiare patrimonio genetico, concettuale, etico. Eppure, scrutando l’Europa del XIX secolo, Ernst Nolte vi scorgeva:
timori liberali nei confronti del prevalere delle masse e della forza distruttiva di una “rivoluzione democratica” erano stati espressi in modo impressionante, già nel 1835, da Alexis de Tocqueville. Inoltre, la rivoluzione del 1848-49 aveva dimostrato in tutti i paesi che i rappresentanti della borghesia colta liberale si alleavano con le “vecchie forze” che andavano loro largamente incontro, piuttosto che con la “democrazia radicale” da cui temevano di essere inghiottiti. Una testimonianza classica delle preoccupazioni e dei timori del liberalismo […] nei confronti della crescita di un modo di agire e di essere collettivista, che si chiamava per lo più “democratico”, è il trattato On Liberty di John Stuart Mill del 1859[2].
Tuttavia, ammette lo studioso Mario Giuseppe Losano:
oggi è difficile immaginare la diffusa delusione e il rifiuto del liberalismo presente nella società europea tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento […] L’introduzione del liberalismo nel XVIII secolo, scriveva Rustow nel 1945, fu accompagnata dalla speranza di un grande sviluppo economico e di un’accresciuta armonia fra i contrapposti interessi sociali. Purtroppo solo la prima delle previsioni si è avverata e “l’eccezionale sviluppo dell’economia nel XIX secolo fu accompagnato da un altrettanto eccezionale acutizzarsi dei conflitti politici e sociali”[3].
L’Ottocento fu caratterizzato dal dominio ideologico, politico, economico e culturale del liberalismo; vigorosamente combattuto da un irriducibile ribellismo intellettuale e sociale ben rappresentato da quelle forze organizzate che – dal luddismo inglese ai Fasci Siciliani, passando per i movimenti democratici e socialisti, i circoli anarchici e i gruppi nazionalisti – incendiarono l’epoca con le contestazioni e le pagine esplosive di Marx, Engels, Bakunin, Renan, Carlyle[4].
Come a quel tempo anche oggi, in un’epoca ancora una volta segnata dall’egemonia ideologica del neoliberalismo e dalla crisi delle teorie politiche a esso alternative, può essere utile ritornare alla critica mazziniana del liberalismo per comprendere se essa può costituire, nella contemporaneità, l’indispensabile base d’appoggio per il rilancio di un’iniziativa politica autenticamente democratica.
Com’è stato autorevolmente affermato, infatti,
Giuseppe Mazzini fu contemporaneo di Alexis De Tocqueville, John Stuart Mill e Karl Marx, ma non è diventato, come loro, un classico del pensiero politico. La comunità intellettuale internazionale ha studiato il suo pensiero con un’attenzione minore rispetto a quella che ha dedicato agli altri grandi dell’Ottocento. I suoi scritti non sono parte dei curriculi universitari. […] Perché possa diventare un classico è necessario chiederci se il pensiero politico di Mazzini contiene concetti, argomenti o suggerimenti che ci permettono di capire il nostro tempo meglio delle teorie oggi egemoni, e se indicano nuove possibilità di azione politica[5].
Quello di Mazzini è il profilo di un rivoluzionario di professione il cui ritratto politico andrebbe collocato in un ambito molto più ampio di quello a lui riservato del fervente patriota dell’Unità nazionale. Oltre che nobile vate del Risorgimento italiano, infatti, Mazzini fu anche il leader politico e l’intellettuale più prestigioso del movimento democratico europeo, nel quale s’incontrano personalità storiche come i francesi Jules Michelet e Alphonse de Lamartine, il tedesco Julius Frobel, l’inglese William Lovett. E anche figure poco note ma appassionate come quella del giovane patriota romeno, cristiano ortodosso, Nicolae Balcescu, che di Mazzini condivise la visione filosofica della presenza di Dio nella storia; il mito storico della Terza Roma, quella del popolo dopo l’altra dei Cesari e dei Papi; il principio politico dell’inscindibile legame democratico tra questione nazionale e giustizia sociale che non a caso, nel tornante infuocato del 1848, orienterà l’esperienza rivoluzionaria della Repubblica Romana di Mazzini e della Repubblica Romena di Balcescu[6].
Fu la prosa politica di Mazzini a ispirare il movimento democratico rivoluzionario, a provocare nella Penisola e in Europa tentativi armati, a suscitare energie intellettuali e insurrezionali che subito dopo la proclamazione dell’Italia unita, si ricomposero nella proposta di una democrazia sociale che concepiva la redistribuzione delle ricchezze come premessa necessaria al rinnovamento della nuova Nazione.
Una prosa politica elaborata sulle formule programmatiche della Guerra di popolo, dell’assemblea costituente, di capitale e lavoro nelle stesse mani, le quali trasfusero nel movimento democratico rivoluzionario una volontà di riscossa contro la sconfitta subita per opera dei liberali nel 1861. È la prosa mazziniana a risospingere dal 1862 i democratici alla ripresa dell’iniziativa politica con un programma di trasformazioni strutturali: la Costituente, il suffragio universale, l’istruzione obbligatoria e gratuita per tutti, gli aumenti salariali, la riduzione dell’orario di lavoro, l’attuazione del cooperativismo e del mutualismo in alternativa al capitalismo. È la prosa mazziniana che induce le Società Operaie di Mutuo Soccorso a farla finita con il liberalismo e a diventare la prima linea della democrazia rivoluzionaria. È con la prosa mazziniana che il movimento democratico rivoluzionario, soppresso dalle fucilate d’Aspromonte, riuscirà comunque a diffondere nella politica italiana tutti quei fermenti operaistici e solidaristici distanti dall’anarchismo e distinti dal socialismo scientifico, che tuttavia contribuiranno alla formazione di una Estrema sinistra storica da cui eromperanno, nelle piazze e in Parlamento, l’opposizione radicale e la protesta repubblicana con il lombardo Felice Cavallotti e il siciliano Napoleone Colajanni, il settentrionale Fascio della Democrazia e il meridionale Fascio dei Lavoratori Siciliani: polo nord e polo sud della rivoluzione democratica italiana.
Il movimento democratico rivoluzionario di Mazzini, insomma, sopravvissuto alle persecuzioni della Destra storica, alle seduzioni del trasformismo, alle repressioni crispine, al tentativo autoritario di fine secolo, agli aspri contrasti con il positivismo socialista, con il darwinismo nazionalista, con l’utilitarismo liberista, rappresenterà una corrente vitale nella storia politica d’Italia, in dialettica contrapposizione con la prosa del mondo moderato e dell’oligarchia liberale dominante da Cavour a Giolitti.
Fino all’ultimo Mazzini si batterà per sostanziare la sua prosa con l’azione rivoluzionaria: eccolo nel 1870, anziano e ammalato, arrestato nella rada di Palermo mentre si recava in Sicilia per dirigervi un’insurrezione armata; fu rinchiuso senza riguardo nella fortezza di Gaeta, da dove uscì grazie all’amnistia concessa dopo la presa italiana di Roma. Passò in esilio gli ultimi anni della sua vita muovendosi tra la Svizzera e l’Inghilterra e frattanto organizzava la Fratellanza delle Società Operaie, in dissenso con il socialismo internazionalista: fu l’ultima battaglia prima della morte, che sopraggiunse il 10 marzo 1872 a Pisa, dove si era rifugiato clandestinamente, sotto falso nome, accolto in casa da una famiglia di leali compagni. Quando la luttuosa notizia fu data alla Camera, il Presidente del Consiglio Giovanni Lanza, un liberale già fedele sostenitore di Cavour ed esponente della Destra storica, rimase ostentatamente seduto in segno di disprezzo. Cavour, del resto, fin dagli esordi in politica, non fu colui che «criticò i democratici come disonesti, volgari e inetti»?[7]
Proprio nel medesimo anno in cui Mazzini spirò, un intellettuale come Francesco De Sanctis iniziava la pubblicazione della sua celebre storia della letteratura italiana. In essa, applicando una nuova metodologia interpretativa che collocava uomini e opere in un contesto di lotte culturali e di contrasti tra concezioni della vita antagonistiche, De Sanctis distingue tra una scuola letteraria democratica e l’altra liberale. In questa grande divisione, che rifletteva la separazione tra due culture politiche e filosofiche ma anche tra due dimensioni di vita e di valori, la prosa del Mazzini è consacrata con sicuro senso storico nell’ambito della scuola democratica[8]. Un elemento che indica e mostra la funzione storica esercitata dalla letteratura politica mazziniana non soltanto nella storia d’Italia ma anche nella storia del pensiero democratico e della lotta per la democrazia in Europa. Una traccia, peraltro, di quella guerra tra scuola democratica e scuola liberale, per usare la terminologia desanctisiana, combattuta in quel tempo.
Alla prosa mazziniana si formeranno generazioni di giovani democratici repubblicani destinati a diventare i principali leader del socialismo riformista italiano: da Filippo Turati a Claudio Treves e ancora Pietro Nenni; ma anche i più importanti dirigenti del sindacalismo rivoluzionario italiano: da Alceste De Ambris a Filippo Corridoni; e persino la prima donna che ricoprì in Europa l’incarico di Segretaria Generale di una Categoria di lavoratori come quella dei braccianti: la sindacalista Argentina Altobelli[9].
Pure una certa gioventù tornata inquieta dalle trincee della Grande Guerra era stata infervorata dalla prosa mazziniana prima di essere traviata dall’incipiente fascismo: da Dino Grandi a Italo Balbo e persino Ettore Muti, tutti giovani mazziniani poi diventati famigerati gerarchi fascisti.
Ma la prosa mazziniana troverà una sicura e più autentica lettura e interpretazione in una diversa e folta schiera di giovani democratici che vivacizzeranno l’opposizione al liberalismo di Giolitti e poi al fascismo di Mussolini con la medesima intransigenza con cui Mazzini si era opposto a Cavour e alla Destra nel suo tempo.La generazione democratica di Gaetano Salvemini, Riccardo Bauer, Aldo Rosselli, Guido Dorso, Ferruccio Parri, Silvio Trentin, Emilio Lussu, Francesco Fancello, Alberto Cianca, Piero Calamandrei rappresenterà nel primo Novecento l’idea di democrazia politica e democrazia economica attinta dalla prosa mazziniana. E parole e pensieri mazziniani si ritrovano pure nella battaglia antifascista dei giornali «Quarto Stato» e «Non Mollare», nella protesta di Giovanni Amendola e nella proposta dei fratelli Carlo e Nello Rosselli; e ancora una volta fu Guerra di popolo e Costituente, democrazia politica e democrazia economica, Giustizia e Libertà. Trent’anni dopo, nel 1945, la nuova generazione democratica di Lombardi, Pacciardi, Valiani, Calogero vedrà il compimento del Risorgimento mazziniano nella Resistenza e nella nascita della Repubblica, prima di essere sbaragliata dai discepoli culturali e politici di Benedetto Croce il cui lungo cammino era stato, nell’arco del Novecento, «tutto in opposizione alla democrazia»[10].
Mazzini, invece, per tutta la vita aveva creduto «che solamente la democrazia potesse innalzare i popoli»[11]; e quella del Mazzini era credenza religiosa, azione morale, atto di fede.
La concezione morale della realtà operante nell’ideologia mazziniana implicava delle evidenti negazioni, chiaramente declinate nella prosa politica del pensatore genovese.
Nella prosa mazziniana si percepisce la negazione dell’utile, che non promuovendo slanci morali trasforma i titolari dei diritti individuali in egoisti che non credono di dovere estendere i diritti a quanti, di fatto, ne sono privi[12]. Si percepisce la negazione del cosmopolitismo, che Mazzini ritiene colpevole di avere provocato la divisione tra nazioni detentrici di diritti ed egoiste e nazioni povere di diritti e abbandonate, alla stregua dei diritti e degli egoismi individuali[13]. Si percepisce, ancora, la negazione della «Patria dei re», ossia delle nazioni la cui esistenza è vincolata alle combinazioni diplomatiche stabilite dai trattati internazionali politici, economici, commerciali[14]. Si percepisce la negazione della piccola e meschina politica fatta di egoismi, astuzie, compromessi, avvedutezze, incapace di incidere sulle coscienze e associare i membri di una comunità; in questo senso, come osserva Valentini: «la politica di Cavour gli pareva appunto un esempio di questa piccola politica»[15].
Mazzini, dunque, non fu temuto e osteggiato soltanto come il patriota che lottava per l’Italia una, libera, indipendente e repubblicana; egli fu avversato anche e soprattutto come il patriota e il teorico della democrazia. Le tesi mazziniane, insomma, come pure ha scritto Fenske, furono combattute perché erano «per la borghesia italiana troppo radicali, a causa della loro connotazione democratica»[16].
A questo punto, per tornare al problema che poneva Maurizio Viroli nel brano citato prima, si considera possibile affermare qui che la vita e la prosa politica di Mazzini contengono concetti, argomenti e suggerimenti che ci permettono di capire il nostro tempo meglio di altre prose oggi tanto in voga e in alternativa alle teorie e visioni oggi egemoni; indicando, peraltro, nuove possibilità di azione politica.
Mazzini, infatti, con la sua critica democratica del liberalismo, non solo smentisce l’equivoco mito della complementarietà tra liberalismo e democrazia, non solo dà una formidabile chiave interpretativa del nostro tempo ma suggerisce anche, con la sua democrazia dei doveri, una nuova agibilità politica per un modello di convivenza sociale, economica, culturale, genuinamente democratica e alternativa al liberalismo.
Con Mazzini, insomma, democrazia e liberalismo tornano a separarsi. Il liberalismo torna a essere una categoria politica ed economica fondata sull’idea individualistica della società e protesa a salvaguardare l’autonomia d’iniziativa e di competizione del singolo e delle élites; la democrazia torna invece a essere una categoria politica ed economica fondata sulla partecipazione popolare, sull’idea comunitaria della vita civile, sulla cooperazione e la solidarietà. Se la democrazia oggi ha smarrito il suo significato e nel lessico politico è stata degradata ad aggettivo che qualifica il liberalismo e il socialismo, Mazzini aiuta a comprendere che la parola “democrazia” è invece un sostantivo politico autonomo, lontano e separato da locuzioni come “liberaldemocrazia” o “socialdemocrazia”.
Mazzini, in definitiva, aiuta a capire la sostanza dei regimi politici odierni e insegna a distinguere un regime democratico dal regime liberale; problema quanto mai presente in questo nostro tempo e che addirittura intaccò le radici della Repubblica con un combattimento la cui narrazione costituisce la metafora della storia del conflitto tra liberalismo e democrazia.
Lo scontro si svolse il 26 settembre 1945 nell’aula della Consulta Nazionale. Aveva la parola Ferruccio Parri, del Partito d’Azione, mazziniano, Presidente del Consiglio del primo governo dell’Italia appena liberata dal nazifascismo. A un certo punto della sua orazione, Parri rivolse all’assemblea le seguenti parole:
quello che vi deve interessare di fronte a questa situazione d’incertezza e che più vi deve stare a cuore è quella che io chiamo la causa democratica […] tenete presente che da noi la democrazia è appena agli inizi […] Io non so, non credo che si possano definire regimi democratici quelli che avevamo prima del fascismo [proteste di parte dell’assemblea, commenti, rumori, Parri è fatto bersaglio d’interruzioni, i consultori si schierano apostrofandosi a vicenda, faticosamente Parri riprende la parola] mi rincresce che la mia definizione sia stata mala accetta. Intendevo dire questo: democratico ha un significato preciso, direi tecnico. Quelli erano regimi che possiamo definire e ritenere liberali[17].
Contro Parri intervenne Benedetto Croce, nella sua veste di leader del Partito Liberale Italiano. Difese la realtà dello Stato liberale affermando che esso aveva consentito l’evoluzione materiale e morale degli italiani, i quali giunsero al suffragio universale, poterono fondare associazioni e camere del lavoro, ottennero il diritto di sciopero, ebbero rappresentanti socialisti in Parlamento; infine, sentenziò:
democrazia senza dubbio liberale perché se il liberalismo senza democrazia langue privo di materia e di stimolo, la democrazia a sua volta, senza l’osservanza del sistema e del metodo liberale, si perverte e si corrompe e apre la via alle dittature e ai dispotismi[18].
Il Presidente Parri così replicò nella seduta del 2 ottobre:
alla qualificazione di democrazia, alla qualifica di democratico, io annetto connotati politici determinati, che non riconosco in atto neppure oggi. Oggi abbiamo una volontà democratica non un regime, non un costume politico democratico[19].
Ricomparivano in quel dibattito le fasi della lotta tra liberali e democratici che aveva sconvolto l’Italia da Cavour a Giolitti, compreso la lunga e triste storia di repressioni sociali che il regime liberale aveva commesso e che Croce adesso evitava di ricordare nel suo discorso. Poche settimane dopo i ministri liberali abbandonarono il governo e Parri fu costretto a dimettersi; la realizzazione del regime democratico non andò oltre le fondamenta della Costituzione, poi fu sospesa a tempo indeterminato.
La prosa politica di Mazzini è costruita sulla realtà dei diritti e dei doveri; sono questi a costituire l’essenza della democrazia e del liberalismo. L’elaborazione mazziniana, quindi, dimostra come, dietro il conflitto tra democrazia e liberalismo, si celi la lotta tra diritti e doveri. Anche in questo caso bisogna prendere atto della lucida attualità dell’intellettuale genovese il quale mette in guardia dalla minaccia di disintegrazione individualistica della società rappresentata dalla così chiamata ideologia dei diritti. La questione è stata recentemente trattata da Luciano Violante che ha descritto come una democrazia priva di doveri possa diventare ostaggio degli egoismi individuali e delle conseguenti lotte tra Poteri e tra elités[20].
Già Mazzini, del resto, aveva legato diritti e doveri a egoismo e altruismo cosicché la sua alternativa tra democrazia e liberalismo, tra diritti e doveri, comprendeva anche l’alternativa tra egoismo e altruismo; e per il pensatore democratico tutto dipende da questa scelta: istituzioni, forma e modello di Stato, sistemi economici, legislazioni, stile di vita individuale e collettiva, costume pubblico e privato, priorità dell’agenda politica. È in questa prosa conflittuale tra egoismo e altruismo che Mazzini, nella sua concezione democratica, connette l’idea di Patria con l’umanità e la giustizia sociale, considera la religione come forza morale necessaria per l’emancipazione dei popoli da ogni servitù: ieri alle potenze militari, oggi anche alle potenze finanziarie.
Nella prosa del Mazzini teorico della democrazia dei doveri e critico del liberalismo, dunque, possiamo trovare indicazioni necessarie per pensare e agire nel nostro tempo e, se necessario, contro il nostro tempo. Mazzini, infatti, smaschera coloro che hanno ridotto la democrazia al metodo del voto popolare per la scelta dei governanti tra più leadership in competizione tra loro. Mazzini, insomma, toglie definitivamente la maschera all’elitismo democratico oggi dominante, il quale ha ripudiato l’ideale etico e comunitario di democrazia, partecipazione, autogoverno, cooperativismo, spostando il fuoco dell’attenzione sulle elite, sulla necessità e stabilità di un assetto istituzionale che favorisca la competizione tra classi dirigenti perennemente tali, escludendo dallo spazio pubblico il popolo. Mazzini dimostra che quella che noi oggi definiamo realtà democratica è, nella sostanza, una realtà liberale che si finge democratica.
[1] L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 364-365.
[2] E. Nolte, Storia dell’Europa 1848-1918, Marinotti edizioni, Milano 2003, pp. 174-175.
[3] M. G. Losano, La questione sociale e il solidarismo francese: attualità di una dottrina antica, «Sociologia del Diritto», 1, aprile 2008.
[4] Sullo scontro ideologico che fece da trama ai conflitti sociali e politici che infiammarono l’età contemporanea si veda Z. Sternhell, Contro l’illuminismo. Dal XVIII secolo alla guerra fredda, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.
[5] M. Viroli, prefazione a G. Mazzini, Opere politiche, a cura di T. Grandi, A. Camba, Utet, Novara 2005, p. 1.
[6] Sulla poco nota figura del Balcescu mi permetto di segnalare il mio M. Ingrassia, Nicolae Balcescu patriota europeo, in F. Grammauta (a cura di), 1800: il secolo del patriottismo risorgimentale, Atti del convegno, Palermo 30 novembre 2013, Accademia Templare, Roma 2013; il saggio è correlato da un’appendice bibliografica sul «Mazzini di Romania».
[7] D. Mack Smith, Cavour. Il grande tessitore dell’Unità d’Italia, Bompiani, Milano 1985, p. 50.
[8] F. De Sanctis, La letteratura italiana nel secolo XIX. La scuola liberale e la scuola democratica, a cura di F. Catalano, Laterza, Bari 1953.
[9] Sulla straordinaria figura di Argentina Altobelli, nata nel 1866 e morta nel 1942, mi permetto di segnalare il mio M. Ingrassia, Argentina Altobelli. Politica e sindacato dal Risorgimento al fascismo, «Rassegna Storica del Risorgimento, Anno XCIV, Fascicolo II, aprile-giugno 2007.
[10] Z. Sternhell, op. cit., p. 502.
[11] H. Fenske, Il pensiero politico contemporaneo, Il Mulino, Bologna 2004,p. 137.
[12] È questa la legge di chi crede che ognuno deve conquistarsi i diritti, per esempio al lavoro e alla casa, da sé e in competizione con gli altri.
[13] È la legge dell’utile applicata alla vita delle nazioni; è facile vedere nella critica mazziniana del cosmopolitismo una critica alla globalizzazione.
[14] Mazzini, probabilmente, guardando all’Europa così com’essa è, avrebbe criticato con forza i trattati finanziari che interferiscono con la vita dei popoli e delle nazioni.
[15] F. Valentini, Il pensiero politico contemporaneo, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 230.
[16] H. Fenske, op. cit., p. 137.
[17] F. Parri, Scritti 1915-1975, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 192-193.
[18] B. Croce, Scritti e discorsi politici (1943-1947), Laterza, Roma-Bari 1963, vol. II, pp. 199-200.
[19] Non pubblicato nel volume degli scritti di Parri, il testo di questo discorso è consultabile in Atti della Consulta, Assemblea plenaria, 2 ottobre 1945.
[20] Cfr. L. Violante, Il dovere di avere doveri, Einaudi, Torino 2014.
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