IL CAPITALISMO DI STATO
di STEFANO D’ANDREA
Capitalismo non è una realtà ma una ideologia, come testimonia il suffisso ismo. Esattamente come il liberalismo, il nazionalismo, il socialismo, l’europeismo, il federalismo, e così via.
Capitalismo è un dover essere, che dice che “il capitale si deve continuamente rivalutare”. La variante liberale dell’800 e dei primi del novecento, la variante statalista degli anni trenta-cinquanta, la variante statalista, sviluppista e sociale degli anni sessanta-settanta, la variante cosiddetta neoliberale o ordoliberale che va dagli anni ottanta del novecento al primo ventennio del nuovo secolo – e che, per molti versi è (anche) antiliberale, perché è caratterizzata da molte norme di diritto privato e pubblico dell’economia, contrastanti con quelle che caratterizzarono il capitalismo liberale, sicché sarebbe stato meglio chiamarla “capitalismo della rendita” o “capitalismo assoluto” – e la variante futura alla quale condurrà il periodo di transizione iniziato a partire dalla crisi del 2008, sono appunto varianti di una stessa ideologia di fondo e i loro nomi designano forme (giuridiche) della rivalutazione del grande capitale. Le forme giuridiche esprimono limiti a tutela di interessi e valori, reputati degni di una certa protezione, nonché settori del capitale promossi e sacrificati.
Le varianti non si susseguono nel tempo in modo lineare, ma tornano. Sono cicliche. In Russia, anche a causa della guerra, è tornata la variante statalista, che emerge nitidamente dal discorso di Putin del 22 febbraio; in Cina essa è presente da alcune decine di anni, nella forma sviluppista, anche se non propriamente sociale.
Le varianti stataliste implicano sempre alcune limitazioni del grande capitale, che quest’ultimo accetta per necessità: di evitare il pericolo rosso negli anni trenta del novecento, di riequilibrare la bilancia dei pagamenti, e di evitare a possessori e gestori del grande capitale di finire in galera nella Russia e nella Cina attuali. Esse implicano sempre un potere politico autonomo, che viene a patti o costringe ai patti il capitale o lo persuade.
Le varianti stataliste-sviluppiste, eventualmente sociali, implicano un potere politico non soltanto autonomo ma più o meno sovraordinato, nella concezione comune, al grande capitale.
L’ideologia capitalista è una vera religione di massa totalitaria, perché non vi è assolutamente nessuno che la contesti, a parte pochi reduci di ideologie ottocentesche.
Bisogna accettare il fatto – perché è un fatto – che nel migliore dei casi la politica è lotta per un capitalismo contro un altro.
L’autonomia della politica dal grande capitale, la sua superiorità morale (per la generalità dei cittadini) rispetto al dominio del capitale, nonché la sovra-ordinazione giuridica della politica all’economia sono l’obiettivo minimo ma ambiziosissimo che deve unire le forze minoritarie italiane, nella fase storica disastrosa e disastrata che ci troviamo a vivere.
Comunque, qualsiasi siano i limiti al grande capitale che si desiderino, occorre passare per lo statalismo. Lo statalismo o capitalismo di Stato è ciò che onestamente possiamo augurarci di vedere realizzato.
Poi la storia, come sempre, non si ferma e assicura avvincenti sorprese.
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