Non c’è spazio per l’Europa di Macron
di TERMOMETRO GEOPOLITICO (Mario Motta)
Il numero uno dell’Eliseo torna con forza sul tema dell’autonomia strategica (e politica) europea dagli Stati Uniti. Ma il Vecchio Continente, stremato e diviso dalla guerra in Ucraina, non ne vuole sapere di seguirlo.
Non dobbiamo essere vassalli degli USA». A dirlo è stato un noto politico francese: chi? Jean-Luc Mélenchon, irriducibile giacobino da qualche anno alla testa della sinistra radicale? Marine Le Pen, eterna seconda a capo della destra populista? Magari Éric Zemmour, meteora reazionaria delle ultime presidenziali? Oppure Emmanuel Macron, controversissimo repubblicano all’Eliseo dal 2017? Ai lettori che hanno indicato in quest’ultimo l’autore della frase, congratulazioni: avete indovinato. Agli altri – supponiamo pochi, data l’enorme eco mediatica suscitata dall’episodio – auguriamo miglior fortuna per la prossima volta, con una rassicurazione: chiunque avrebbe potuto sbagliare. Di norma divisa praticamente su tutto, la vasta galassia partitica d’Oltralpe è infatti solita trovare un suo equilibrio nella trasversale insofferenza per gli yankees, considerati degli ospiti abusivi non soltanto del suolo patrio, ma pure di quello che storicamente Parigi vede come il proprio grande (ed esclusivo) cortile europeo.
Facile allora derubricare l’accorato appello autonomista, rivolto appunto alla compagine UE, ad un ennesimo, peloso tentativo di (ri)asserire il primato diplomatico e militare della Francia sul Vecchio Continente. È d’altronde nota l’antipatia che il gollista Macron nutre nei confronti della sproporzionata influenza di cui godono gli americani su questa sponda dell’Atlantico e del loro ruolo preponderante all’interno della NATO; quanto alla coalizione alternativa da lui a lungo propugnata, non a caso essa graviterebbe inevitabilmente attorno alla force de frappe tricolore. Tuttavia, la scelta da parte di monsieur le Président di pronunciare certe parole adesso, col conflitto ucraino prossimo ad una fase decisiva, e nella cornice affatto neutrale della Cina popolare, ha tramutato l’usuale fastidio che accompagna queste sue uscite in allarme per una fuga in avanti che si teme possa minare la fragile unità del fronte pro-Kiev, e offrire a Xi Jinping l’opportunità di spaccare la nascente coalizione occidentale che si va contrapponendo alle sue mire in Asia.
Ben al corrente dei malumori che serpeggiano tra i suoi avversari, dando spazio alle istanze francesi Xi prepara il terreno per una possibile invasione della dirimpettaia Taiwan; ne scaturirebbe uno scontro nel quale gli Stati Uniti, ormai fattisi garanti dell’indipendenza dell’isola nonostante il professato ossequio per la policy di ambiguità strategica inaugurata da Nixon cinquant’anni fa, si aspettano il pieno sostegno dei loro alleati, senza eccezioni. Il dilemma per Bruxelles è evidente: se anche la paventata prospettiva di un intervento diretto non dovesse concretizzarsi, i ventisette Paesi dell’Unione si vedrebbero con ogni probabilità costretti a recidere di colpo gli strettissimi legami commerciali instaurati con il Dragone, e a rinunciare quindi alla sua insostituibile base manifatturiera. L’intero blocco europeo andrebbe incontro ad una devastante recessione, i cui potenziali riverberi sociopolitici appaiono già oggi tanto scontati quanto drammatici; pur interessate, certe perplessità non sono prive di merito.
La sua vera partita, comunque, il primo cittadino di Francia la gioca vicino casa. L’assalto russo all’Ucraina ha catapultato la Polonia, le nazioni del Baltico e, in misura minore, la Romania in una posizione di insperato rilievo nel panorama della sicurezza regionale; riunitisi in un’autoproclamata “Nuova Europa”, questi attori puntano a far leva su un’intransigente postura anti-Cremlino per affrancarsi dalla condizione di subordine cui sarebbero altrimenti relegati dal loro modesto peso demografico ed economico, e spostare verso di sé il baricentro del claudicante colosso UE a discapito del binomio Parigi-Berlino. Per contro, un meccanismo di difesa comune permetterebbe a quest’ultimo di contenere e, nel tempo, soffocare le spinte centrifughe della sparuta fronda proletaria, tutelando la propria egemonia anche e soprattutto dalla longa manus di Washington, altrettanto desiderosa di scalzare il potente duo e che a tale scopo ha subito prestato agli scontenti il suo appoggio (nonché quello della sua fiorente industria bellica).
Così, frattanto che ad Est si prepara la prossima mossa – prende quota l’idea di una partnership d’area; tra le varie proposte persino quella di resuscitare l’Unione Polacco-Lituana, dissolta nel 1795 – i vertici comunitari mandano timidi segnali di assenso. «Credo che in diversi la pensino come Emmanuel Macron», ha detto il presidente del Consiglio Europeo Charles Michel durante un’intervista, sottolineando la sua contrarietà all’idea di «seguire ciecamente» gli USA in politica estera. L’Eliseo incassa insomma il supporto degli euro-burocrati, poco inclini a lasciare che terzi disturbino le gerarchie vigenti in seno all’organizzazione fin dai suoi albori; esso non è però sufficiente a garantire che la scommessa transalpina abbia esito positivo. L’architettura decisionale della UE impone ai promotori di qualsiasi iniziativa – figurarsi una di questa portata – l’ottenimento di margini di consenso che un esercizio di pressione dall’alto, per quanto vigoroso, non può di assicurare. Bisogna coinvolgere gli altri Stati membri, ma la strada è tutta in salita.
Da decenni l’idea di una struttura militare unica non incontra che indifferenza. La tiepida adesione tedesca al progetto ha infine dato vita ad una singola brigata congiunta, in totale appena cinquemila uomini sotto un farraginoso sistema di comando alternato. Poi più nulla; a discapito dei numerosi piani elaborati nel corso degli anni, la volontà di fare del reparto il nucleo di una forza europea è rimasta disattesa, complice la cronica disattenzione dei teutonici per la Bundeswehr: quanti speravano che la fine dell’era Merkel e l’improvviso scoppio della guerra ad Oriente potessero strappare la Germania dal suo torpore disarmista si sono dovuti ricredere. Ad oltre un anno dall’inizio delle ostilità, l’annunciato programma di modernizzazione della Difesa federale langue nel limbo delle commissioni parlamentari, i lavori paralizzati dalle latenti tensioni tra il dicastero competente ed il Tesoro. Preso nel mezzo, lo sfortunato Olaf Scholz si è finora barcamenato come meglio ha potuto; ora, gli attendismi del Cancelliere sembrano essere giunti alla fine.
L’inatteso dietrofront dei Verdi – che alle ultime consultazioni si erano presentati con una posizione improntata al compromesso sul dossier ucraino, non dissimile da quella dello stesso Scholz – ha modificato gli equilibri della maggioranza, forzando il governo ad adottare un più netto approccio atlantista. Mentre le armi insistentemente richieste da Zelensky viaggiano verso il campo di battaglia con tanto di scuse ufficiali per il ritardo, il ministro degli Esteri Annalena Baerbock, elemento di spicco del partito ambientalista, si è affrettata a volare alla corte di Xi per prendere le distanze dalle affermazioni eterodosse di Macron e ribadire la piena fedeltà di Berlino (e per estensione dell’Europa) al Patto Atlantico. Nella diarchia franco-tedesca si profila così per la prima volta una spaccatura: si tratta di un colpo durissimo, possibilmente fatale, per le ambizioni della Francia e del suo leader, al quale non resta che cercare di cogliere il favore dell’Italia in una disperata manovra volta a rompere l’esasperante isolamento.
Ad ogni modo, è inverosimile che Roma risponda alle avances di Parigi. Lungi dall’avere reali simpatie ideologiche per la NATO, l’esecutivo di Giorgia Meloni fa nondimeno affidamento sulla sua salda aderenza alla linea dettata dall’alleanza – che mantiene anche in contrasto con gli elettori – per darsi stabilità in un contesto interno decisamente complesso, e accreditarsi come affidabile in sede internazionale. Palazzo Chigi sembra anzi intenzionato a fare di necessità virtù: risale a pochi giorni fa la notizia del prossimo invio della squadra portaerei Cavour nell’Indo-Pacifico, alla volta del quale è già partito l’incrociatore Morosini. Meloni dà così seguito alla scelta di campo anticipata in campagna elettorale, portando chiaramente il Bel Paese nell’orbita statunitense; sebbene possano ancora vantare un certo ascendente, specie presso il Quirinale (il cui nome porta pure un comprensivo memorandum d’intesa bilaterale, siglato all’epoca di Mario Draghi), i francesi debbono almeno per il momento rassegnarsi a non contare sui cugini.
In definitiva, il ventaglio delle opzioni a disposizione di Macron è ridotto all’osso. L’Ungheria di Viktor Orban, ostinatamente neutrale sulla contesa in atto ai suoi confini e sovente critica di Bruxelles, potrebbe magari dargli man forte, sennonché egli dovrebbe in cambio legittimarne la classe dirigente ed il suo operato in Europa: il gioco non vale la candela. Ed è proprio con questa locuzione che si può riassumere l’intera vicenda; l’Eliseo deve prendere atto che, aldilà di quel che se ne possa pensare, i suoi sforzi non incontrano i sentimenti del Vecchio Continente, stanco di questa guerra e di tutte le guerre. Proseguire è inutile, piuttosto meglio soli: la Francia lo è sempre stata, e se l’è sempre cavata.
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[Fonte: https://www.dissipatio.it/non-ce-spazio-per-leuropa-di-macron/+
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