Silvio Berlusconi nel suo tempo storico
di La Fionda (Mario Cosenza)
La morte di Silvio Berlusconi chiude simbolicamente un’epoca della politica italiana. Si tratta di vedere cosa, di quest’epoca, sopravviverà a uno dei suoi protagonisti e cosa, invece, può essere considerato repertorio museale. Di provare cioè ad analizzare senza acredine ma rivendicando il diritto di emettere giudizi sulle personalità pubbliche e sul significato che le loro parabole individuali hanno rispetto alla storia collettiva.
La nostra epoca sconta quella che è una mitizzazione dell’individuo; questo, in chiave politica, porta a un costante personalizzazione dello scenario, operazione tutta interna alla mitologia del Neoliberismo e al suo culto delle presunte e infinite possibilità individuali. In questo senso, breve nota di metodo, bisogna ricordare di invertire le dipendenze logiche, pur non negando il ruolo degli agenti storici. Per semplificare: il “Berlusconismo”, se in chiave biografica nasce per l’esigenza del singolo imprenditore di percorrere la via politica a tutela dei suoi (e non solo) interessi, dal punto di vista del contesto socioculturale germoglia perché tutte le condizioni sono adeguate a tale nascita. Berlusconi, in questo senso, è l’immagine della scomparsa dei movimenti di massa nell’epoca del vincolo esterno. La stagione di Tangentopoli, la liquidazione dei due partiti egemoni della prima Repubblica, la sfiducia costante sull’operato della politica – dimenticando che le corruzioni si “fanno” in due, e vicino a quella politica c’era anche un certo tipo di capitalismo intimamente corruttore –, la sempre crescente dipendenza dai vincoli esterni posti (volontariamente, dalla stessa classe dirigente) alla politica italiana, il quadro europeo (Berlino/URSS), tutto ciò ha contribuito a porre l’Italia sul piano meno “emancipativo” possibile, ossia quello della contesa puramente interna alla stessa élite capitalistica, contesa che “pubblicamente” si è data il più delle volte come bagarre intorno a questioni “culturali” e in ogni caso del tutto personalistiche. Ma per “bloccare” ogni approccio di massa alla politica, servivano almeno due cose: un’ideologia pronta all’uso e un personaggio in grado, grazie alle sue innegabili doti carismatiche e comunicative, di personificarla. L’ideologia, c’era: Reagan e Thatcher (e Craxi) non hanno vissuto invano; il personaggio, anche: l’edonista “self-made man” Silvio Berlusconi. Una concezione ideologica non può però calarsi all’improvviso e senza valutazioni dei contesti di ricezione, e dunque i caratteri del neoliberismo italiano dovevano per forza essere “italiani”, e chi meglio di Silvio Berlusconi per farlo. Istrione, capace di una connessione sentimentale immediata con il suo elettorato, in grado di presentarsi come “contrario” al mondo dell’intellettualismo, egli ha compreso prima e meglio di tutti che lo spazio della politica partitica in Italia si stava assottigliando per fare spazio al personalismo immediato, all’aziendalizzazione della cosa pubblica e al rapporto non mediato tra leader ed elettore. In un paese a sovranità limitata e a coscienza politica ormai vicina allo zero, Berlusconi ha saputo personalizzare su di sé i dibattiti di un tempo storico, facendo sparire la critica politica dietro la sua figura carismatica.
Lettura politica perfetta, quella di Berlusconi, che alle doti personali ha potuto aggiungere gli strumenti fondamentali per riuscire nel suo intento: agganci e frequentazioni di ogni tipo (dalla P2 a Dell’Utri e accoliti), capitale pressoché illimitato, operazioni illecite (la giustizia ha parlato), possibilità di affinare continuamente i propri interessi tramite interventi legislativi diretti – il sogno di ogni capitalista –, carisma mediatico, rara bravura nel formulare chiaramente una narrazione manichea assai fertile per l’Italia (il suo mantra espressivo: i “soliti comunisti” e la Magistratura) e nel “vendere” l’idea aziendale di politica mista al sogno indotto per il quale tutti avrebbero potuto diventare lui stesso.
Per comprendere il Berlusconi “personaggio storico” bisogna allora cogliere le esigenze e le condizioni del contesto politico in cui egli ha potuto imporre la propria egemonia culturale. Il progetto di mondo di Berlusconi, al netto degli interessi personali evidenti ed innegabili, si situa all’interno della trasformazione globale del modo di produzione capitalistico, cui aggiungere gli specifici tratti italiani. Nella perdita progressiva di capacità del sistema produttivo italiano, il capitalismo dello spettacolo, più virtuale che legato alle merci, trova nel Berlusconi magnate TV un interprete straordinario. Berlusconi non crea dal nulla queste condizioni, così come non crea quel processo di omologazione costante da cui il popolo italiano sembra afflitto: ma certamente lo interpreta come nessuno e in qualche modo lo indirizza. Il potere di dominare il settore mediatico dona a questa omologazione i caratteri specifici dovuti anche al suo gusto personale; la caratura del Berlusconi presidente di Calcio gli dona un’aura di visionaria infallibilità.
Berlusconi rappresenta quindi il neoliberismo aziendale italiano con tratti marcatamente unici; contribuisce come nessuno all’aziendalizzazione della politica, all’inserimento del cosiddetto “pilota automatico” rispetto alle scelte di politica estera e macro-economiche, eseguendo i dettami della Nato e dell’establishment europeo, lo stesso che, contrappasso, lo scalzerà dal potere nel novembre 2011 (dopo averlo già umiliato riguardo il geopoliticamente distruttivo, per l’Italia, attacco alla Libia di Gheddafi), momento in cui forse tardivamente ha scoperto sulla propria pelle il potere degli attacchi speculativi della finanzia mondiale e le condizioni inaggirabili dei dogmi vincolanti che politica italiana, lui in primis, ha scelto di idolatrare – lui che si era mostrato fedele esecutore dei dettami altrui già nella mattanza di Genova 2001 e poi ancora nell’appoggio (pseudo-esterno) alla criminale guerra all’Iraq del 2003. La particolarità di Berlusconi, nel contesto del dominio del principio economicista su quello politico, è stata quella di non riuscire ad adeguare completamente la propria postura personale al contesto: da lì i tratti carnascialeschi di molte sue espressioni pubbliche e private, la costante tendenza alla gag anche nei contesti più rigidi, tutti aspetti che in molti italiani, lungi dallo spaventare, scatenavano una sincera simpatia la quale – va detto – nessuna sinistra ha mai minimamente saputo né suscitare né comprendere. La dissolutezza di Silvio Berlusconi è stata da lui intesa come il proprio residuo di libertà personale – ovvio che questi tratti avessero la specifica impostazione culturale serpeggiante in Italia, ad esempio nella disgustosa e costante oggettivizzazione femminile.
La spregiudicatezza, l’uso privatistico delle istituzioni, la costante alterazione delle regole, il populismo ante-litteram, il partito personale, ma anche l’enorme capacità interpersonale, tutto ciò, anche tutto ciò, è stato Silvio Berlusconi.
Bisogna però dirlo: pur non sempre volontariamente, Berlusconi ha certamente un merito, ossia quello di avere mostrato plasticamente il vuoto cosmico della sinistra italiana dopo la svolta della Bolognina, la subordinazione culturale assoluta ai dettami del reaganismo-blairismo più sfacciato, la crisi di coscienza dei revisionisti d’ogni tipo cui non restava che l’approccio sovrastrutturale e moralistico alla politica, poiché quello strutturale e sociale era fuor di dubbio interdetto dalla puntuale aderenza al neoliberismo più fedele. Ecco, in sintesi, Berlusconi ha dato un orientamento costante ai molti critici che, ormai costretti all’abiura rispetto ai propri principi, al fuggi fuggi generale dalla tradizione social-comunista, all’ubriacatura da “fine della Storia”, hanno potuto individuare in Berlusconi il simbolo di tutti i mali, non rendendosi conto che egli, dal massacro al lavoro alla distruzione dell’Università, eseguiva semplicemente i compiti che anche i critici, una volta al governo, portavano avanti. Questo ha generato una costante accelerazione emulativa: dalla riforma del Titolo V al Jobs Act, è proprio il centro-sinistra liberale ad avere agito in perfetta continuità con i desiderata berlusconiani, non provando mai a tagliare davvero le gambe al suo Impero mediatico e politico, neanche a titolo di autodifesa. Subordinazione pressoché assoluta. Pare gli elettori lo abbiano capito benissimo, e, nel gioco della parti, in luogo di misure antipopolari presentate come “efficientiste”, hanno preferito votare chi, allo stesso costo, almeno prometteva una (impossibile) goduria personale. Berlusconi, pur non essendo un padrone “tipo” (troppo istrionico ed edonista), è stato certamente un imprenditore prototipico del capitalismo bisognoso di una pacificata società dei consumi (a spese del Welfare e del pubblico), e non un capitalista esponente della finanziarizzazione della crisi, inaugurata essenzialmente proprio con il suo disarcionamento del 2011 (e non è un caso se, sia per relazioni personali sia per interessi del suo blocco sociale di riferimento, Berlusconi sia apparso tra i meno entusiasti sostenitori delle misure anti-russe). Questo il paradosso: pur nella contiguità ideale, Berlusconi ha saputo ben celare le proprie manovre di distruzione del Pubblico, ed oggi nessuno penserebbe a lui nell’identificare i simboli politici dei “tagli pubblici”, focalizzandosi (non del tutto a torto, ma in maniera parziale) su figure all’apparenza ben più grigie.
Berlusconi era uno un tardo yuppies, nemico di ogni austerità intellettuale e privata (ma non di quella del settore pubblico), aiutato dall’uso spregiudicato della potenza delle proprie televisioni nel veicolare (ma non inventare) un modello consumistico di società, che necessitava di una certa capacità di creare spesa – si veda: mettere direttamente i soldi in tasca al target di riferimento, tagliando il Pubblico in maniera meno evidente, e favorendo varie “scappatoie” di tipo personalistico – e non della pura compressione dei salari.
In questo, nella contesa tutta interna al capitalismo italiano, Berlusconi ha culturalmente trionfato, poiché ha sottratto ogni ruolo di guida all’intellettualismo del ceto medio riflessivo di sinistra, troppo convinto di una presunta superiorità intellettuale (quando pur vera certamente impolitica) per tentare un’ultima connessione politica con le masse, e troppo inorridito, nel suo tardo-calvinismo, dall’approccio giullaresco di Berlusconi, dalla sua politica estera “personalizzata”, dalla sua indubitabile comprensione della necessità – tra paternalismo, emulazione e dissimulazione – di parlare chiaro agli elettori. Il risultato, per quanto le colpe siano ben divise, è evidente: macerie culturali e sociali, scomparsa di un’opposizione reale, consolidamento dell’egemonia del postfascismo italiano.
Sulla sua morte, tra lutti e scandalosa pausa dei lavori parlamentari – possibile anche grazie al giornalismo più complice del mondo occidentale e da una tendenza tutta italica alla remissione integrale delle colpe politiche, la quale confonde rispetto per l’individuo e lecito giudizio storico – la destra italiana sta costruendo una nuova narrazione, una sorta di innalzamento a Padre della Patria funzionale alla propria legittimazione culturale; e a essa seguirà il regolamento dei conti interni rispetto alle eredità economiche e politiche. Ancora una volta, quasi tutta la (presunta) sinistra parlamentare non l’ha compreso ed è accorsa ad omaggiare, senza coraggio alcuno, il nemico di sempre. Ma, se il rispetto per l’individuo scomparso è sano, politicamente il discorso è tutto diverso. Ancora una volta, Berlusconi, come ultimo guizzo, ha saputo dettare l’agenda anche ai suoi oppositori.
Fonte: https://www.lafionda.org/2023/06/14/silvio-berlusconi-nel-suo-tempo-storico/
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